Un’avventura
alle sorgive del Torrente Cosa.
Solo
narrazione:
Pradis è un
nome che per anni mi ha rammentato una nota marca di acqua minerale. Tempo fa
svolgevo servizio nella caserma di Vacile, e spesso da giovane sergente qual ero,
mi toccava fare il turno di servizio nell’allora polveriera ( oggi dismessa) di
Usago, dove spesso a mensa ci veniva propinata la stessa acqua minerale con la
nota scritta Pradis. Quest’acqua minerale, assieme al selvatico paesaggio sono
stati per il sottoscritto un richiamo che mi rimandava al territorio di cui ero
ospite. Passano i mesi, passano anche gli anni, e scopro che la località che dà
il nome all’acqua minerale è proprio dietro l’angolo dove vivo, sull’altopiano
posto alle pendici meridionali del monte Taiet. Studiando la mappa del
territorio, scopro che la fonte dell’acqua è anche la stessa sorgente dove
nasce il Torrente Cosa. Il Cosa, magico nome, è un corso d’acqua a cui sono
affettivamente sono molto legato, principalmente perché lambisce la frazione
dove vivo e dove abito, e anche per la sua gloriosa storia. Tra gli affluenti
del Tagliamento, il Cosa è uno dei più storicamente importanti, per via di una
remota frequenza umana sin dalla preistoria. L’escursione nasce sotto i più
benevoli auspici, non sarà solo lo scoprire un mondo selvatico di un colle, ma
anche un doveroso omaggio a un luogo che serba un passato di tutto rispetto. La
mattina del cammino, al sorgere di Aurora, transito con l’auto per le strette
stradine di Clauzetto, dirigendomi alla volta di Pradis di sotto. Una volta
raggiunta la località delle Grotte Verdi, mappa alla mano, mi indirizzo nella
valle che ospita le frazioni di Gerchia e Planelles. Il punto di sosta per
l’automezzo lo troverò nell’ultima frazione sita prima del fondo valle, ossia,
il borgo di Blanc. Un esiguo numero di case è la consistenza della frazione, ma
è dotata di un comodo parcheggio. Mi appresto al cammino, respirando
profondamente a pieni polmoni l’aria fresca mattutina, la natura al sorgere del
sole ha un tono particolare e inconfondibile. Una volta pronto, parto, seguendo
la carrareccia che si inoltra a nord sulla sinistra orografica del Torrente
Cosa. Poco dopo , presso la carrareccia, un cartellone mi avvisa che ho
raggiunto la Fonte Acqua Pradis, e lo stesso consiglia di procedere a passo
d’uomo ed è quello che finora ho fatto dalla frazione di Blanc. Lascio la
stradina per seguire un originario sentiero , più o meno a filo con l’argine,
che man mano che avanzo si inabissa nella flora. L’antica via di comunicazione
è dismessa, occultata dalla vegetazione selvatica, e per quanto sia
ardimentosa, la seguo, fino a scendere nell’alveolo ghiaioso del torrente. Mi
trovo esattamente al centro dove confluiscono ben tre impluvi anonimi, entrambi
discendenti dal selvaggio versante del Taiet. Tutto il paesaggio che mi
circonda è abraso e crudo, e ostenta la cruda roccia elaborata per millenni
dall’erosione degli eventi atmosferici. Mi piacerebbe visitare oltre gli
angusti, gli ambienti astrusi che scorgo nelle profondità, ma sarà per un’altra
volta. La mia direzione è oltre il confluire delle acque. Con peripezia guado
il torrente passando sull’altro versante orografico. Un rudere mi attende,
testimone di un passato in cui il sentiero era frequentato dalla gente di
montagna. Tutti gli stavoli hanno inferriate, mi domando come era la vita un
tempo, e se i boschi fossero frequentati da individui poco raccomandabili.
Penso proprio di sì, perché pare che ci si barricasse più che chiudersi dentro.
Tra le fronde cerco un indizio di sentiero, un’impresa difficile, ma pe fortuna
qualcosa la trovo e la seguo. L’ambiente non è molto frequentato, ed è anche
ombroso. Risalgo il ripido pendio, e a volte ho dei sobbalzi adrenalinici,
quando mi ritrovo a filo, quasi sospeso, su uno dei paurosi baratri che si
aggettano nel vuoto, e le circostanti pareti dirupate non fanno che aumentare soggezione
all’ambiente. Sicuramente un dì questa traccia era una pesta ben marcata, sia i
cacciatori che i boscaioli risalivano la china in cerca di prede e legname.
Senza effettuare soste, continuo l’ascesa, passando anche in un tratto dove il
crinale si affila per poi riprendere ampiezza, e raggiungere la parte alta del
colle. Il vertice del Col Cuesterelde è una cupoletta d’erba posta a fianco delle
meravigliose pareti rocciose del monte Taiet. Una volta raggiuta la vetta non
trovo nemmeno un ometto di sassi, solo degli arbusti, quindi, mantenendo la
regale verginità del sito non effettuo nessuna operazione a parte quella di
ammirare quel poco di paesaggio che la visione mi permette. Continuo il
cammino, fino a raggiungere il sentiero ufficiale CAI che parte dalla località
La Fratta e conduce alla vetta del monte Taiet. Percorrendo il sentiero
ufficiale mi par di andare comodo, come se non avessi gli scarponi ai piedi,
bensì confortevoli pantofole. Una traccia ben battuta mi rilassa, conducendomi
serenamente nei prati che dividono il versante da cui sto scendendo da quello
orientale e ombroso del Monte Ciaurlec. Raggiunti i campi in basso, decido di
tagliare per gli stessi, con direzione sud, percorrendo una antica via di
comunicazione che parte dagli stavoli posti a nord della frazione di Tunulins.
Il cammino è brioso, confesso che percepisco un senso di felicità difficile da
spiegare a parole per quanto lo provi intensamente. Cammino e mi specchio nel
cielo, mi vedo: zaino in spalle, scarponi ai piedi, macchina fotografica al
collo, mentre amo tutto ciò che mi circonda. Mi emoziona tutto: i fiori, le
foglie, anche quelle d’ortica, guardo amorevolmente gli alberi e gli insetti…
In ogni singolo elemento che mi circonda trovo la perfezione della natura. La
flora è un caleidoscopio di segni ornati e colori ben abbinati. Il mondo è così
meraviglioso che ti fa apprezzare in pieno la vita, mi sento, anzi, sono
fortunato… Camminando continuo ad ammirare tutto, gli stavoli, i muri a secco,
le fronde degli arbusti che si stagliano nell’azzurro. Seguo l’antica via,
mantenendomi vicino al versante meridionale del Col Cuesterelde. Mi appaiono
dei piccoli stavoli, alcuni sono curati e abitati, mentre altri rapiti
dall’oblio del tempo. Lungo il cammino lambisco cappelle votive e croci in
metallo, che ricordano una fede che sa di pagana da quanto è ostentata in ogni
dove, e che non oso criticare, consapevole che una volta, questa povera gente,
aveva solo due compagni di vita, il lavoro e la fede. Segue una piccola traccia
che affianca un ruscello, ed eccomi fluire nel corso d’acqua che proprio in
questo luogo viene battezzato Torrente Cosa. Guado il rivo, e mi posto
sull’altra sponda, dove, accomodandomi accanto ad un arbusto selvatico, decido
finalmente di desinare. Estraggo dallo zaino la borsa viveri, e tiro fuori il
panino con il beveraggio. Mentre sgranocchio il panino, con lo sguardo sto
fisso allo scorrere delle acque che scolpiscono nell’eterno fluire le rocce,
creando dei sassi ben modellati. Le stesse acque, sospinte anche dal mio
sguardo, fluiranno giù a valle, sfiorando frazioni e cittadine, come Paludea,
Travesio, Lestans, Barbeano, Provesano e Gradisca, prima di confluire nel
Tagliamento; e le stesse acque, miste ad altre di mille torrenti, confluiranno
nell’Adriatico per lasciarsi andare alle irrequiete correnti, che le sposeranno
con le acque del Tirreno, dove troveranno quelle provenienti dal mio borgo
natio, mutando il nome in Mediterraneo. L’acqua, questo magico elemento vitale,
è libera, quindi, non crea confini, per questo è il perenne simbolo universale
della Vita.
Malfa
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