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martedì 21 novembre 2023

Gli scarponi del viandante di monte Arghena.

Gli scarponi del viandante di monte Arghena.

Racconto:

Dopo alcuni anni, rieccomi a ripercorrere la valle del Prescudin, non nascondo che questo luogo in passato mi abbia stregato.
Raggiunta la località di Arcola, inizio la nuova avventura con l’inseparabile ed eroico fido. Ripercorriamo la strada forestale che avanza nella bella valle, anche oggi il meteo è favorevole. L’emozione per la nuova avventura non manca, la temperatura si mantiene costantemente bassa, cammino avviluppato nella  morbida giacca tecnica, e con l’ausilio di una morbida sciarpa di lana. Malgrado tutte le protezioni possibili e che proceda velocemente non riesco a scaldarmi, deduco da ciò che la temperatura deve essere ampliamente sotto lo zero.
Percorro velocemente la strada asfaltata e con un passo agevolmente nel breve tratto di bosco, puntando lo sguardo alle mete di oggi. Ne ho programmate un paio e devo sceglierne una. Nell’ultima escursione sulla cima del Medol, lessi su un cartello il nome di Arghena, e allora con un laborioso studio mi sono documentato su di essa. Duranti il cammino la scorgo, essa è la montagna che spicca al di là del torrente. L’altra meta è la Cima Formica, un dubbio che scioglierò soltanto al bivio che divide i due sentieri per le due elevazioni. Dalla strada forestale tengo d’occhio entrambe le mete, e man mano che guadagno quota il dubbio sembrano chiarirsi, la scelta privilegia il monte Arghena. La montagna mi appare solare, e ho letto che è munita di un sentiero che mi porterà all’apice. Mentre sull’altra elevazione, la cima Formica, ho trovato poco e nulla.
Raggiunta la località di Villa Emma, seguo il sentiero a destra, continuando a percorrere la strada forestale, che mi porta a superare un primo guado, fino a interrompersi sul secondo e più ampio greto. La temperatura adesso è artica, lo deduco dalla brina gelata, in questa vallata non batte mai il sole e oggi particolarmente ha un aspetto severo, tale da ricordarmi gli immortali romanzi di Jack London. La cartellonistica CAI mi invita a sciogliere gli ultimi dubbi: a sinistra si procede per il bivacco Zea e l’eventuale monte Formica, a destra si ritorna ad Arcola, e con lo stesso tempo si può raggiungere la vetta del monte Arghena. Scelgo, senza remore, la cima dell’Arghena mirando al suo versante baciato dal sole.
Il sentiero si dirige a oriente percorrendo la destra orografica del torrente. Mi districo dentro la vegetazione, i segni sono copiosi, guado un torrentello, attraverso un arcaico ponticello ed eccomi all’interno di una stupenda  e regale faggeta. Scorgo un cartello CAI che mi indica la direzione per la cima Archena e il tempo di percorrenza. La traccia accompagnata da segni CAI devia a settentrione iniziando a risalire il ripido costone meridionale del monte.
Il viottolo è stretto e ricoperto d’erba, manterrà questa caratteristica fino alla cresta. Sin dai primi metri si inerpica sul ripido versante, con una serie infinite e strette anse, spesso passando sopra gli esposti dirupi. Sono conscio che non devo sottovalutare l’ascesa, tenendo alta la concentrazione. Gli arbusti, composti prevalentemente da pini, faggi e aceri, sembrano rassicurare con la loro presenza, soprattutto se volgo lo sguardo in basso.
Re sole impietosito dal mio stato prossimo a congelamento scalda il cammino, donandomi quella sensazione di benessere, e l’autunno vestito da primavera fa il resto scaldandomi il cuore. I fili d’erba sono dorati o verde smeraldo e diffondono la luce che mi incanta come una poesia di Neruda. Non posso fare a meno di arrestare il cammino, concedendomi alla contemplazione degli intrepidi pini sospesi nel vuoto, che mi chiedono aiuto mentre sono intenti nell’eterna lotta contro la forza di gravità. Ascendo il pendio senza fatica, passando più di una volta vicino a dei tronchi ribelli a un dio inceneriti dalle saette dello stesso. Questa cima è per “spiriti liberi”, prova ne sia la pesta che pare disegnata da un camoscio errante. Alcuni tratti del percorso sono erosi e sospesi nel vuoto, altri lo sono meno; ignoro cosa troverò in cresta, ma di sicuro scenderò da essa con i ramponi da erba calzati sugli scarponi. È un percorso assolutamente da non farsi in condizioni di terreno bagnato o gelato. Procedo nel rado bosco, sporadicamente ho il privilegio di vedere il percorso che mi attende. Sono nelle vicinanze della cresta, lo percepisco dalla vicinanza dell’azzurro lapislazzuli della volta celeste, e dalla traccia non più riconoscibile. Procedo con l’intuito del lupo che alberga nel mio animo, così pervengo alla bella cresta.
Il crinale non è spazioso, spesso puntellato da radi pini. Mi fermo un attimo ad ammirare a sud-est la val del Cellina con il lago di Barcis e la catena montuosa del gruppo Raut-Resettum. Sono sotto la vetta, mi separa da un ripido tratto erboso;  stavolta seguo le chiare tracce di passaggio, cavalcando il crinale fino a raggiungere la meta. Mi ritrovo sulla quota (1779 m.) che è la cima per i comuni mortali non dotati di corda e della nobile arte dell’alpinismo. La massima elevazione, di ottanta metri più alta, mi è dinnanzi, essa mostra la sua rude bellezza spartana. Un pilastro di roccia misto a mughi fa da impedimento, selezionando i comuni viandanti dagli eroici alpinisti. Presso la cima più bassa (dove sosto), trovo un piccolo ometto con un paio di scarponi, sapevo di trovare quest’ultimi ed eccoli, quasi rassicuranti per chi temesse sul luogo esatto. Il paesaggio a settentrione è velato da rami di faggi e betulle, oltre di essi riesco a intravedere il monte Provagna. A occidente la visuale è coperta dalla cima più elevata, lasciando cogliere la bianca e luminosa dell’inconfondibile mole del Crep Nudo; infine, a sud-est la visuale è totalmente sgombra da ostacoli.
La bellezza selvaggia del luogo e la maturata temperatura mite mi invitano a effettuare una lunga  e meritata sosta. Nel frattempo, prima che Magritte si apparta in angolino per appisolarsi, procedo a collocare il barattolo con il libro di vetta. Il contenitore è voluminoso, quindi decido di fare spazio tra i sassi dell’ometto, scoprendo tra essi un vecchio barattolino di vetro con all’interno alcuni fogli di carta con delle poesie scritte in francese. Ripongo tutto il contenuto nel nuovo contenitore, aggiungendo materiale con cui scrivere e una penna.
Nel frattempo che sistemo i vecchi scarponi, leggo la misura all’interno di uno di essi: <<Cavolo è la mia! >> Esclamo. Nello sfiorare lo scarpone percepisco un fremito, e simultaneamente entro in un sogno, adesso sono il viandante  a cui appartenevano. D’incanto non mi trovo più sulla cima dell’Arghena, ma su un’infinita e sconosciuta cresta battuta dal vento.  I miei capelli sono lunghi, castani  e mossi dal vento. Indosso un cappellaccio e una giacca scamosciata con frange, e in mano stringo un bastone ricavato da un nocciolo, mentre sulle spalle porto uno zaino di canapa. Sono un viandante, ho sempre vagato e lo farò per l’eternità. Non ho mai dormito nello stesso giaciglio e mai con la stessa donna, e sono sicuro di aver amato solamente la libertà. Ho vissuto, ammirando il sole dall’aurora al vespro, errando per vie mai nate e mi addormentavo sotto la volta stellata cullato da Selene. Ho scritto i miei racconti con le suole degli scarponi e in essi ho riposto la parola fine alla mia esistenza. Un giorno, uno sconosciuto trovò il mio corpo privo di vita adagiato a un vecchio larice, con pietà non comune mi seppellì sotto di esso, ma senza gli scarponi. Lo stesso sconosciuto li tolse delicatamente riponendoli con cura dentro una borsa che portò via con sé. Un dì (non ricordo quanti anni passarono dalla mia morte), quando un insolito albeggiare tingeva di rosso fuoco il cielo, prese la borsa contenente gli scarponi, e salii su quest’anonima cima e rivolgendone le punte a oriente, li adagiò al suolo, erigendo intorno a essi un santuario con dei semplici sassi. Lo sconosciuto, è uno spirito libero, e quando morrà toccherà a un altro viandante portare i suoi scarponi su un’altra montagna…
Inavvertitamente, mentre sono preso dal fantasticare, stacco la mano dallo scarpone, rientrando bruscamente nella realtà. Ripresomi, ho notato lo sguardo smarrito e inquieto di Magritte, come se avesse visto in me un fantasma.
La temperatura si è improvvisamente abbassata, mi copro meglio, decidendo di porre fine alla visita della vetta. Estraggo dallo zaino i mini-ramponi per erba, calzandoli, così scendo dal pendio con tranquillità.
Raggiunta villa Emma, effettuo una breve sosta per il pranzo, Magritte è infreddolito, lo munisco del suo maglioncino, per poi riprendere il cammino del rientro. Il fido ora si è ringalluzzito, vivacemente scorrazza su e giù, divertito lo osservo.
Per un istante volgo lo sguardo alla cima Arghena, ho l’impressione di scorgere qualcosa che si muove e mi saluta, qualcosa con cappellaccio, capelli lunghi e zaino, qualcosa o qualcuno che non morirà mai e che alberga in eterno dentro me.

Malfa.






























































 

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