La magia selvatica del monte Drea.
Nel benefico e continuo esplorare le valli della
montagna friulana, spesso ritorno sul luogo del delitto, per approfondire
qualche dettaglio che mi era sfuggito in precedenza. Riprendo le mappe del
territorio, e con pazienza certosina, scruto tutti i rilievi, a uno a uno, alla
ricerca di qualche itinerario interessante che mi è sfuggito. Non amo replicare
le esperienze altrui, lo trovo un volgarissimo “copia e incolla” , preferisco
dare spazio alla fantasia cercando di creare delle varianti sul tema. La mappa
del territorio che ho scelto per quest’ultima avventura è la valle dove nasce
il torrente Arzino. Tra le cime sconosciute mi attrae quella nominata Monte
Drea. Studiando il dislivello constato che mi conviene partire da Pozzis,
frazione eretta a pochi metri dal letto del torrente Arzino. Non mi rimane che
approntare lo zaino per l’avventura visto che in settimana il meteo metterà sul
bello. Vista la brevità del dislivello e la vicinanza del luogo, parto da casa
con la luce del sole, transitando dalla frazione di San Francesco nell’ora in
cui gli scolari si apprestano a entrare a scuola. Non sono mai stato all’interno
della frazione di Pozzis, bene, mi aspetta l’emozione del nuovo. Poco prima di
intraprendere i curvoni asfaltati che ascendono alla Sella Chianzutan svolto a
sinistra, seguendo le indicazioni per la piccola località. Nel borgo non è
facile trovare uno slargo dove poter lasciare l’auto, fortunatamente in questo
mi aiuta una simpatica signora, che visti i miei vari tentennamenti, mi indica
un punto ben localizzato dove sostare l’automezzo. Mi bastano solo pochi minuti
per indossare gli scarponi, attivare il GPS, ed eccomi in strada per la nuova
avventura. Nei primi passi mi aggiro curioso tra i fabbricati del borgo,
cercando le tracce di un passato remoto. Dopo l’ultimo stavolo mi aspetta Buck,
così battezzo un simpatico cane pastore belga, che più che seguirmi mi fa da
indicante per l’inizio sentiero. Devo guadare il torrente, la pista è oltre lo
scorrere dell’acque dell’Arzino, ed è impossibile non bagnarsi gli scarponi.
Una volta guadato il torrente sono sulla sponda occidentale, non ci sono degli evidenti segni sulle cortecce degli arbusti,
e solo una carrareccia con una traccia adiacente a sinistra, seguo
quest’ultima. Dopo pochi metri di vagare nel boschetto sono a ridosso di una
seconda carrareccia, e di rimpetto scorgo l’inizio di un canalone ghiaioso. Su
un masso leggo il nome del monte Drea tinto con vernice rossa. Perfetto! È
l’inizio del mio sentiero. Pochi metri di ghiaie e massi mi separano dal greto
del canalone, scorgo su delle cortecce altri segni, li seguo, abbandonando
l’impluvio per il selvatico pendio. La pesta, anche se tenue, prosegue, quindi,
sta a me perseverare per non perderla. Intuisco, metro dopo metro, che mi sto
addentrando in un vallone selvatico nominato Busa di Drea. L’ascesa non è
difficoltosa, anzi, direi rilassante, e i vari segni e tracce abbondano.
Evidentemente è un luogo tanto bramato dai cacciatori. Alcuni tratti sono
leggermente esposti. Mentre cammino mi diletto a studiare la forma del fogliame
per scoprire i nomi degli arbusti. Subito dopo aver sfiorato un costone
roccioso, la traccia con più ripidezza risale fino a un avvallamento, dove
l’istinto e la logica mi avrebbero consigliato di proseguire per il secco
impluvio e raggiungere i ruderi dello stavolo Busa di Drea. Purtroppo, il
canalone è invaso da numerosi schianti che rendono ardita l’impresa. La traccia
segnata devia a destra, sul ripidissimo e instabile pendio reso ancora più
insidioso dal tappeto del fogliame secco. Decido di calzare i ramponi e
proseguire con tranquillità, toglierò gli stessi in seguito, ma solo in
discesa, quando avrò raggiunto l’impluvio da dove sono partito. Assistito dai
numerosi segni sugli alberi: alcuni di colore giallo-rossi e altri di colore
bianco-rossi, raggiungo un fitto addensamento di schianti. Districandomi tra i
rami abbattuti guadagno la cresta, per poi ridiscendere di pochi metri sino ai
ruderi dello stavolo. La meta odierna, adombrata da un fitto bosco, è davanti a
me, 200 metri di dislivello mi separano da essa. Dopo aver immortalato quello
che rimane dello stavolo, riparto per completare l’ascesa. Dei segni sulle
cortecce dei faggi mi indicano la via. Il tratto da percorrere è molto ripido,
a tratti anche scivoloso. Con perizia supero l’imbocco di un impluvio, ancora
pochi metri ed ecco filtrare la bianca e radiosa la luce solare. Ci sono! Manca
poco alla vetta. Mi dirigo sul crinale, avvisto un dosso, non mi pare vero aver
raggiunto la cima. Ispeziono la cresta a occidente, constatando che il dosso
che ho appena visto è la quota più alta. Pochi metri ed eccomi al cospetto del
pulpito più alto. Dalla zolla di terra scorgo un rametto secco, è la vetta del
monte Drea. Missione compiuta! Il paesaggio che mi si paventa dall’elevazione è
fantastico. Lo sguardo è proteso a sud. Le gradazioni di azzurro delle montagne
creano un’atmosfera idilliaca. Sono esposto sul vertice alto del dirupo, e mi
lascio sedurre dai raggi del sole. Dopo la contemplazione, e visto che ho tanto
tempo da dedicare al gioco, procedo con l’edificazione di un ometto. Mi aggiro
intorno alla ricerca di sassi, uno di bell’aspetto l’ho raccolto poco più in
basso, prima di raggiungere la meta. Dopo aver dedicato ad Artemide l’opera, mi
dedico all’attività disimpegnata, quello del recupero di energie. La
temperatura estiva e il cielo terso sono un autentico prodigio, è arduo
alzarsi, indossare lo zaino e rientrare, ma gli eventi della vita lo consigliano.
La discesa dal monte fila liscia come l’olio, e durante questa fase e dopo aver
consultato la mappa, mi viene l’idea di far una visita di cortesia (finalmente)
alle note cascate dell’Arzino. Raggiunta la carrareccia da dove ho iniziato
l’ascesa, proseguo a sinistra, per la valle scavata dallo stesso torrente.
Nell’ambiente si odono i suoni incessanti delle motoseghe dei boscaioli. È un
versante quasi tutto gremito dai nobili faggi, ottimo legno da ardere, e il
periodo di luna piena consiglia l’operazione del taglio. Dopo il lungo tratto
di carrareccia il suono delle motoseghe viene gradualmente sostituito da quello
magico delle cascate, evidentemente sono a ridosso di esse. Uno sperone
roccione da risalire tramite l’aiuto di un passamano in legno, mi conduce su un
salto proteso su un’ampia voragine, dove posso ammirare la fragorosa potenza
dell’emissione della cascata. Il pulpito visivo è molto frequentato, infatti è
un continuo via vai di viandanti. Fatte le dovute foto, rientro di pochi metri,
addentrandomi dentro il letto del torrente, dove trovo un comodo seggio su un
bianchissimo masso scavato dal continuo fluire delle acque. Lo ritengo il luogo
ideale per desinare in totale delizia. Attimi dionisiaci e di piacere puro
misti alla contemplazione del luogo. Ritengo il tempo dedicato all’avventura
concluso, quindi, riprendo lo zaino e rientro, stavolta per una comoda
carrareccia, che affiancando la precedente, mi riporta al punto di partenza.
Dopo aver guadato l’Arzino ritrovo Buck, mentre la popolazione della frazione è
intenta a far un qualcosa. Al passaggio saluto gli autoctoni, loro
contraccambiano, effettuo un ultimo giro tra le case, e poi via, sino all’auto.
Una volta ripartito e raggiunta la strada comunale, mi fermo con l’automezzo
sul margine della stessa, uscendo dall’abitacolo per osservare e memorizzare il
territorio che ho appena visitato. Il sole sta tramontando dietro il monte Drea
creando una controluce particolare. Presso San Francesco mi fermo a dialogare
con una coppia di amici che ho conosciuto per via delle escursioni in zona.
Poche parole ma cariche di significato. Dopo la piacevole conversazione mi
congedo da loro riprendendo il cammino verso la pianura. Anche quella odierna è
stata una magnifica giornata all’insegna dell’avventura. Non ero mai stato sul
monte Drea, né al borgo di Pozzis e nemmeno nelle Cascate dell’Arzino. In
sintesi, con una fava ho preso tre piccioni, e di questi tempi è una gran fortuna.
Malfa.
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