Sulle ali del Vento… ( Viaggio onirico sul monte Nische).
La stagione autunnale è pazzerella, alterna brevi
giornate solari ad altre piovose e tediose. La temperatura esterna della valle è
fresca, quasi primaverile, straordinariamente insolita in codesto mese che
precede il “Generale Inverno”. Il mio sguardo curioso si specchia negli occhi
non tinti e stancati dalla notte insonne. I versanti orientali dei monti sono
vivacizzati dal sole, essi ridestano alla memoria riecheggi di passate fatiche.
La magica valle, custodita dal caldo e protettivo
abbraccio delle catene montuose circostanti, offre i suoi cangianti colori
autunnali. Mi inoltro nella valle lambendo il sinuoso andamento del torrente,
cedendo la luce per l’intima conca nascosta tra i monti. I rossi e le ocre
accese della fronda della selva scorta la mia ascesa sino alla Sella. Il varco
conserva i segni di un remoto passato bellico, quando i boati dei cannoni subentravano
al canto del gallo.
Le singolari e originali baite poste poco dopo la
sella mi ispirano le voluttuose testimonianze materiche di fugaci incontri
sensuali, codeste dimore precedono di un centinaio di metri il verde prato dove
mi separerò dall’automezzo. La temperatura all’esterno dell’abitacolo è gelida,
mi appronto per il viaggio, e con lo zaino in spalle e sogni al seguito, ricalcando
il solco del sentiero dopo un cartello con indicazioni topografiche.
La cresta della dorsale che devo percorrere è già
illuminata dal sole, essa ben in vista, mi par di toccarla con un dito; il ben
marcato e dolce sentiero mi porterà in breve al suo cospetto.
Le fioriture fuori stagione allietano lo spirito del
viandante, e il sorbo montano con le gemme del colore dell’amore stimolano il
mio passo verso il turchese orizzonte. La mulattiera, realizzata all’inizio del
secolo scorso da genieri in uniforme, risale l’assolato versante del rilievo.
Il comodo sentiero, tramite una serie di tornanti, approda all’alpeggio dove i
miseri ruderi della casera omonima testimoniano il bucolico e faticoso passato
della vita montana. Adesso i resti della malga giacciono, dormienti e silenti,
sepolti e rapiti dall’oblio.
Dischiudo il cuore al meraviglioso paesaggio che
attornia la prateria sommitale, potrei anche terminare qui l’escursione, il mio
spirito è colmo e rapito dalla beatitudine.
Osservo la cresta che procede a occidente tingersi di
scarlatto per via di una faggeta che tanto evoca dalla forma il monte di Venere.
Proseguo il cammino a oriente, per l’esile solco che traspare tra i ciuffi
d’erba, e successivamente mi addentro nella rada faggeta che precede la vetta
del monte.
Abbandono la mulattiera che si mantiene in quota e
cavalco la schiena della dorsale, un esile traccia mi guida e rassicura che non
sono stato il primo viandante che l’ha peregrinata. Ometti di sassi dalle forme
originali guidano il passo, raggiungo quello più consistente, posto alla quota
più alta del monte.
La visuale a settentrione è celata dalla vegetazione,
effettuo una breve sosta e riprendo il cammino per la prossima cima. Continuo il cammino per cresta, scrutando dall’alto la
comoda mulattiera. I faggi antropomorfi richiamano la mia curiosità, avverto la
strana sensazione che siano spiriti tormentati e urlanti, come le figure dei
dannati nei gironi infernali danteschi. Dalle loro forme percepisco la
disperazione, come se vivessero stregati, catturati da un alchemico sentimento
che non è l’amore, ma solo la cupezza dell’animo truccata da apparente
passione.
Mi seduce in
particolare la singolare figura sofferente di un faggio, trovo la sua
conformazione fantastica, tanto somigliante al dolore di chi ama ed è conscio
di non essere amato, essa effonde un grido di sofferenza sovrumana che va
lontanissimo, dove non ci sono animi sensibili disposti a coglierlo.
Lascio il triste
luogo, volgendo il cammino in direzione del sole, così raggiungo la seconda cima, il monte Stregone,
caratterizzata da un equivoco strumento artificiale di fattura umana.
Il paesaggio da questa elevazione è ostruito a
settentrione, quindi mi abbasso di quota a occidente, per raggiungere un
pulpito panoramico sgombro dalla vegetazione.
Fin qui il percorrere la cresta mi ha liberato dai
pensieri avversi, ho solo portato al seguito lo zaino, e in solitaria, e come
un apache ho percorso la linea che unisce la vita reale al sogno.
Come un funambolo d’altri tempi percorro questo
confine immaginario, tra la vita e la morte, lasciando all’oblio il dolore
dell’odierno esistere. Raggiunto il pulpito panoramico pianto i bastoni
telescopici e sgancio lo zaino adagiandolo sulla morbida e inerbita zolla, di
seguito anch’io mi distendo. Dalla comoda posizione indago intorno, scrutando i
monti che hanno segnato il mio recente passato. Oltre i primi rilievi intravedo
le vicine montagne slovene e il regale
Montasio, mentre a occidente i monti delle dolomiti friulane, imperiosi nelle
forme, mi indicano che l’inverno è ancora lontano. Dallo zaino traggo la borsa
viveri, consumo il pasto e volgendo lo sguardo in orizzonte, fantastico a occhi
aperti.
“Ricordo che durante il tragitto ho raccolto un
bocciolo di rosa dal mio roseto preferito, e l’ho riposto nel taschino della
giacca.
Questo gentile fiore l’ho voluto con me al seguito,
come se in esso trasponessi l’amore che si brama e mai si consegue. Apro il
taschino abbassando la lampo, lo prendo con delicatezza con la punta delle dita
e gli svelo il magico mondo della montagna. Lo adagio sullo zaino, accanto al
pupazzo di peluche portafortuna, ne sfioro i leggeri petali racchiusi come lo è
un amore timido, lo guardo con un desiderio bramoso, come si dovrebbe con un
amore eterno, lo bacio chiudendo gli occhi lo ripongo nel taschino, per poi
offrirlo al vento.”
Questa straordinaria giornata è stata uno dono del dio
Pan, vorrei proseguire a occidente per cresta, ma non posso sono stanco, quindi,
decido di scendere avventurosamente il ripido e scosceso pendio erboso, privo
di tracce apparenti. Con attenzione e peripezia e per tratti meno esposti miro
alla mulattiera, che dista in basso più di un centinaio di metri di dislivello.
Raggiunta la pista militare la percorro a ritroso, il
tratto non esplorato in precedenza si rivela affascinante. Vagare per la cresta
è stato sublime, ne avverto già la mancanza. Lassù, sul crinale, volavo come
un’aquila e l’infinito assoluto mi appassionava. Rientro rapidamente alla Sella
, non ho effettuato un percorso chilometrico, ma ugualmente mi ha colmato il
cuore di grandezza e infinite vibrazioni. Verrà di nuovo il giorno in cui
ricomincerò a vagare per le alte cime dai percorsi lunghi e tortuosi, per
adesso sono pago di trattenermi per brevi lassi di tempo con la Grande Signora.
Malfa.
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