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lunedì 22 gennaio 2024

Un camminare sognando verso il monte Medol.

Un camminare sognando verso il monte Medol.

 

Sono euforico, il cielo colo cobalto e i colori dorati pendii erbosi mi hanno caricato, canto a squarcia gola canzoni dei Beatles, mentre il passo incede velocemente. Magritte è smarrito, ci mette un bel po’ ad abituarsi alla mia eccentricità, tiene le orecchie ben aderenti alla testa, evidentemente sono stonato come una campana. Siamo entrambi felici: il fido sa di essere nel suo habitat naturale, e io mi di illudo che sia anche il mio. La strada asfaltata non dà fastidio, sono intento a contemplare le cime lontane imbiancate. La bellissima cresta al confine con l’Alpago irradia luce, i monti Messer, Venal e il bel Crep Nudo emettono energia a cui attingo. Abbandono l’asfalto, continuo per un breve tratto di sentiero, poi di nuovo un tratto di strada che taglio rientrando nel bosco. Adoro i faggi ignudi, le loro vesti giacciono e formano un morbido tappeto rosso. La carrareccia mi guida dentro la faggeta, mi fermo presso uno stagno ad ammirare la flora e l’azzurra volta specchiata in esso. Magritte non mi segue fuori sentiero, è un diligente soldatino, sa che mi deve condurre in cima e vuole assolvere con disciplina al suo compito.

Attraverso i rami intravedo una casa, poi un’altra. Sembrano quelle che costruivo da piccolo con i mattoncini di plastica: hanno pareti bianche, tetto rosso e davanti un bel prato, cambia soltanto il colore delle finestre. Rifletto sul nome del luogo: Villa Emma. Che strano nome, come se l’architetto avesse dedicato quest’opera architettonica al suo amore, un grande amore, un amore perduto che rimane nella memoria, e nelle opere di chi solo lo ha vissuto.

Seguo la cartellonistica dei sentieri, e procedo a occidente per il monte Medol. Il bosco di faggi mi prende, e i rari tassi, con l’aumentare della quota si fanno più preziosi. A un bivio, segnato con cartelli, proseguo a destra, dopo aver guadato un rio per la bella mulattiera, tanto ampia da ospitare un autocarro. Percorro le pendici del monte per ampi tornanti, mentre la monotonia del tracciato libera i pensieri che solitamente vengono celati. La mulattiera è ben costruita e rifinita, le foglie che la coprono variano da tratto a tratto, ora di faggio, poi di acero e con il naso all’insù osservo i loro padri ormai spogli ma belli e possenti. I tassi invece sfoggiano la verde chioma color smeraldo: sono i veterani del bosco, in alto, nel bosco troverò il loro re millenario.

Tra la vegetazione scorgo un volto, silenzioso, di aspetto maschile, il suo profilo è rivolto a oriente, ne percepisco la sofferenza. Camminando continuo a scrutare nella faggeta e la figura di una “Nobile Dama” attira le mie attenzioni: deve essere una marchesa dai liberi costumi, le osservo il collo e i seni ignudi, come se avesse appena finito di fare l’amore. Il sentiero coperto di foglie m’inganna e mi porta al cospetto dell’immane tasso. Esso è maestoso, le radici si propagano nel terreno come tentacoli, per poi restringersi nel tronco prima di espandere le fronde nel cielo ora color lapislazzuli. Impossibile non rimanere silenti davanti a un Dio, e lui lo è.

Trovata la labile traccia, la seguo fino alla cima….

 

Malfa.









 

giovedì 18 gennaio 2024

La magia vola sopra Somp Cornino…

La magia vola sopra Somp Cornino…

 

La melanconia mi spinge a prendere lo zaino e volare per sentieri, a caccia di sogni mai vissuti e ricordi cancellati dal tempo. Ammiro i cieli che si tingono di primavera in questo freddo inverno, mentre mi avventuro con l’auto per le strade che conoscono i miei stati d’animo in tutte le stagioni. Questo mio volto inciso dai solchi dell’età è simile a un vetusto castagno che non smette di sognare,  piuttosto che rinunciare morirei. Raggiungo Somp di Cornino, ed è meraviglioso  come appare il borgo alle prime ore del mattino. Lascio l’auto in un vicolo, in Via della Resistenza, ma non devo combattere nessuna battaglia contro nessun nemico, semmai più che resistere vorrei solo fuggire. Il primo passo sul sentiero è l’inizio del cammino, e una miriade di mulattiere si diramano in mille direzioni, e quasi tutte conducono alla frazione di Ledrania, 400 metri di dislivello più sopra. È piacevole il camminare, vivo, e i  vissuti sassi delle mulattiere che mi guidano raccontano della fatica e della gaia vita. Mi fermo spesso, non per lo sforzo ma per l’avvenenza del luogo, tutto è sublime, è pare di fare visita a una galleria d’arte.

In alto i grifoni volteggiando iniziano la danza, disegnando nel blu cobalto allocuzioni che riesco a leggere, sono segni che parlano d’ amore. Eh, sì, l’amore è il motore della vita, è la stessa energia che scorre nel mio corpo, nel mio cuore e nella mia mente, dando quel luccichio riflesso che sa di umido e salato ai miei occhi e nel medesimo istante mi causano un intenso tormento, e pensare che alcuni considerano l’amore solo un’inutile perdita di tempo che non accresce il conto in banca.

Le rampe del sentiero mi portano sempre più in alto e da esse posso ammirare la meravigliosa pianura friulana. Il profilo del monte Ragogna è Illuminato da una calda luce, e somiglia a un gigante dormiente. Dormi piccola montagna, tu che serbi nei tuoi antri, tanti segreti e tante storie vissute. Raggiungo il pulpito panoramico, un autentico altare naif. Ora mi addentro all’interno del colle, raggiungo una stradina asfaltata che percorrerò in salita. Supero i desertici stavoli di Ledrania, ricordo che un giorno incontrai proprio in questo luogo una simpatica coppia, madre e figlia: <<Verranno in primavera? Chissà!>> Proseguo lungo la carrareccia per raggiungere un secondo gruppo di stavoli. Da un sentiero vedo provenire una simpatica signora, arzilla, poco sopra il rumore sordo di una motosega annuncia la presenza del suo cavaliere. Sono una coppia di ottuagenari friulani, intenti a fare legna. Mi fermo a conversare, mi presento, si scherza, siamo abbastanza loquaci. Il simpatico omino è un uomo vissuto, conosce le genti d’Italia, non mi nasconde che ha un debole per i siculi. Come non ascoltare la saggezza di quest’uomo. Ma la cosa più emozionante è l’amore che unisce questa bella coppia, hanno pure pronipoti. Mi congedo da loro, ci salutiamo con il segno a V delle dita della mano e con un “Viva l’amore”. Raggiunti gli stavoli, mi dedico a ispezionarli, a uno a uno, cercando i segreti del tempo nelle pareti, e li trovo. Ora sono davvero da solo, ed ecco che la  dea Artemide esce allo scoperto, e mi guida verso una meta luminosa, il versante imbiancato nord- occidentale della cresta che collega monte Pedroc a Cima Pala. Oggi ho lasciato la mappa a casa, non importa, conosco a memoria il percorso, l’ho fatto appena un anno fa. La neve sarà spessa una trentina di centimetri, ma ben compatta, seguo le orme di chi mi ha preceduto. Continuo per la carrareccia, mirando alla Cima Pala. Presso quota 830 metri si dirama un sentiero a destra, poco intuibile ma presente, e ritrovo le impronte dell’omino, le seguo, sino a raggiungere i magici ruderi degli stavoli di Cima Pala. Mi fermo in un fazzoletto di terreno privo di neve, indosso le ghette mentre ammiro le sacre vestigia, soprattutto un architrave curvo, con ancora una porta sbilenca in legno con le originali cernieri, speravo di ritrovarlo. È impossibile non rimanere incantati, in questo borgo non c’erano né elfi né streghette, ma uomini e donne in carne ossa, gente vera che faticava per un pezzo di pane, e che contava il passare dei giorni con il sorgere e il tramontare del sole. Seguo quello che penso che sia una traccia sino allo slargo poco dopo il borgo, appare come un‘arena, sono al centro di essa. Tutto intorno ci sono strane costruzioni di sassi, sembrano nuragiche, come le mura possenti di un antico sito, erette da un popolo sacro agli dèi, percepisco del divino nell’atmosfera, ma io cerco e trovo lui, si, l’albero sacro della vita. Dall’ennesima costruzione in sassi emerge questo gigantesco faggio, sembrano trecento alberi in uno, ma in realtà è uno che si moltiplica all’infinito, è l’albero degli spiriti liberi. I tronchi nel cielo creano un megalitico ombrello di rami, questo signore del bosco è possente, bello, forte, vivo, secolare, eterno, ed è il simbolo della libertà. In lui vivono più nature che insieme coesistono e sono una autentica forza. Il magico sovrano ha radici solide, possenti, e penetra la terra e allo stesso modo sublime conquista il cielo. Ci vogliono radici profonde per conquistare il cielo. È vero! Uguale sentimento è per noi sognatori. Lascio la grande figura e proseguo per la vetta della Cima Pala. Il tratto si fa più ripido, finché mi districo tra i cumuli di sassi a forma geometrica. Ultimi metri a seguire le tracce di un capriolo ed eccomi nella singolare vetta: un ometto che ho eretto l’anno scorso con su sormontata una rustica croce assemblata con due rami di nocciolo. Al seguito ho portato il contenitore per il libro di vetta, lo adagio alla base dei sassi in un incavo ricavato nella neve. Il panorama è ostruito da una fitta vegetazione, ma codesta cima sconosciuta ai più è così, prendere o lasciare, e io l’amo. La preferisco rispetto a quelle iper-frequentate e sormontate al vertice da edifici sacri e indecenti che sfregiano il paesaggio. Dopo gli attimi dedicati alla contemplazione dalla vetta, riprendo lo zaino e ritorno al magico faggio. È davvero magnifico il re del bosco, lo accarezzo, lo abbraccio, lo adoro, lo saluto, ho promesso che ritornerò da lui in primavera. Al rientro devio per una casera, posta pochi metri sotto monte Pedroc, non ho voglia di andare alla cimetta, mi siedo su una panchetta in cemento posta all’esterno e orientata a occidente, così mi godo il sole. Che meraviglia, Re Sole mi scalda, e l’acqua che gocciola dalla grondaia mi bagna regolarmente con il suo tempo, lento e cadenzato. Adopero la giacca tecnica come separatore termico, estraggo dallo zaino la borsa con il pranzo e il termos. Consumo il pasto mentre ammiro il prato innevato e gli alberi che paiono gendarmi di guardia. Il torpore del sole accompagnato dalla lenta digestione mi fanno crollare in un sonno profondo. Mi addormento e sogno. Sono rapito da una bella visione, che non trascrivo per i risvolti erotici, ma che mi ha incantato per un’ora. Al risveglio sono stordito. Sento freddo, mi copro, ripongo il materiale nello zaino, e inizio il rientro definitivo. Ho fatto tardi, inizia a fare buio, calano le luci che si tingono di una svariata varietà di rossi, dal cadmio alla lacca magenta, e tutto si tramuta in sogno. La notte cala i suoi veli, scorgo tra le fronde della vegetazione le luci del paesello, e una leggera tristezza mi rapisce, come quando muore l’amore, ne ricordo la malinconia, e da una abitazione i tasti di un pianoforte emanano una mesta melodia. Tante immagini scorrono velocemente nella mia mente mentre incedo con prudenza nell’oscurità della notte. Rivivo il volo dei grifoni, il gracchiare dei corvi, l’azzurro cielo che si trasforma nei leggiadri volti dei simpatici vecchietti e il maestoso faggio con l’anima da spirito libero. Come vorrei fermare il tempo e che fosse il mattino appena vissuto, ma come tutte le meraviglie, l’inizio ha una fine, e il mio passo ha raggiunto la periferia del borgo. Le luci gialle emanate dai lampioni illuminano le pareti dei remoti casolari. La chiave dell’auto inserita nel blocchetto di accensione intona un ‘altra musica, ossia il rombo del motore che scandisce la fine dell’avventura . Rientro cullato dalle luci delle stesse abitazioni. Quanto è divino amare, quanto fa male lasciare un amore, la prossima volta porterò il sacco a pelo e dormirò sotto le stelle…

Malfa