L’avventurosa discesa dal monte
Slenza.
Mi godo la quiete, sono
galvanizzato e sto divinamente bene. Nel contemplare la bellezza che mi
circonda mi prendo tutto il tempo che voglio, concedendomi anche poche parole
della poesia del mitico Gabriele Dannunzio, tratte da “Meriggio” che bisbiglio
a occhi chiusi, per amplificarne la poetica.
“il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.”
Finito il momento d’estasi e di
poesia, riprendo lo zaino e mi accingo con esso per proseguire il cammino. A
metà cresta dello Slenza, sul versante meridionale e tra i mughi scorgo un
canalino che scende in basso, non è tanto ripido, e da spericolato che sono mi
calo giù, quasi forse un gioco, uno scivolo. La fortuna anche stavolta mi è
amica, sembra proprio che qualcuno sia passato da questo secco impluvio. Così
seguendo il sinuoso alveolo del canale raggiungo i prati in basso sino a
ritrovare il sentiero, ma l’avventura non è giunta a termine.
Pochi passi nel prato tra le due
elevazioni dello Slenza, il paesaggio è bucolico, da far fantasticare anche a
chi ai sogni non crede e non cede. Seguendo il sentiero CAI, mi sposto a
settentrione, ma pochi metri dopo i primi schianti mi figurano un ritorno non
proprio riposante. Rapito da uno insolito intuito, decido di passare alla
modalità selvatico, tagliando per boschi e mirando in basso tenendomi a destra
del crinale del monte e del Rio della Croce. Ad un tratto non riesco ad andare
avanti, mi sono smarrito e pentito della scelta: a destra ho delle esposte e
infide pareti, di sotto solo dirupi, mi sposto a sinistra, anche perché tornare
indietro è improbabile.
Mi fermo, guardo in basso nella
selva, e scorgendo i tratti meno ripidi li seguo, zizzagando da destra a
sinistra e viceversa, e cercando nel terreno tracce di passaggio di selvatici
animali.
A volte scorgo qualche traccia, per
fortuna so leggere la montagna e mi fido del mio istinto selvaggio, esso mi
guida con sicurezza, come se in un’altra vita fossi stato un lupo, eh sì, sono
convinto di esserlo stato.
Ultima indecisione, ma scorgo alla
mia destra una traccia, guado il rio ed eccomi a percorrere un meno ripido
terreno dentro il bosco. Stavolta odo anche il rumore di un arnese che un umano
adopera poco lontano, e tra i verticali tronchi d’abete mi dirigo verso il
suono, finché scorgo una carrareccia, un‘auto con una ragazza all’interno, e
poco più là un uomo a liberare con un decespugliatore il tratturo
dall’erbaccia. Ho sete, non lo nego, ho esaurito le scorte, mi avvicino e
chiedo sfacciatamente dell’acqua e delle informazioni. Il ragazzo mi invita
alla sua baita che dista solo cento metri. Dissetandomi con l’acqua carnica e
del fresco tè di pesca, instauro una veloce e affettuosa conversazione. Il
generoso montanaro conosce l’ospitalità, manifestando al viandante come ci si
deve comportare, confermando l’animo munifico del grande popolo carnico.
Dopo essermi congedato, riprendo il
cammino verso l’interno della valle di Gleris, e visto che mi trovo all’imbocco
della stessa, dovrò camminare meno di un ‘ora. Purtroppo, a causa del
claudicare son lento, ma non è un problema, lo spirito è al massimo, oggi di
più non avrei osato sperare. Poco prima dell’auto scorgo un camper, e da esso
escono fuori due strane figure. L’uomo è pelato e dal volto bruciato dal sole,
la donna dall’aspetto teutonico si muove con sensualità e dal volto somiglia ad
un’attrice famosa, l’allegro pensiero vola ad una poesia di Guido Gozzano “Il
rimorso”. Scambio alcune impressioni con l’uomo, poi mi avvio all’auto che
dista solo pochi metri. Missione compiuta! È stata dura, ma ce l’ho fatta. Mi
riprendo con calma dalla fatica, mi cambio gli abiti sudici di sudore. Dopo
essermi ripreso dalla fatica mi avvio lemme lemme per la strada del ritorno.
Ripasso per il camper, l’uomo sta disteso sull’amaca mentre la compagna totalmente
ignuda cattura il sole che sa di roccia. La dolce visione si sposa ai versi del
cantore dell’amore.
Esco dalla valle disegnata dai bimbi
con una dolce sensazione e una sicurezza “la vita è bella e va vissuta”, e chi
non osa non gode.
Malfa.
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