John, io e le scarpette rosse…
Il Monte Alz mi è apparso in sogno, al risveglio avevo
in mente il nome e altri confusi ricordi. Sognai tanta neve, una bimba vestita
di rosso, e un capriolo che vagava nel bosco. Segno il nome su un pezzo di
carta, accedo al web, digito Alz e Friuli, e viene fuori una località che
conosco marginalmente, sita a poche centinaia di metri da Cavazzo Carnico.
Intensifico la ricerca con le carte topografiche a mia disposizione,
effettivamente c’è un monte chiamato Alz che si può raggiungere tramite un
sentiero tratteggiato in nero. Progetto un’escursione con un tracciato che
dalla forma sulla mappa appare come un otto in orizzontale, simile alla
“lemniscata” simbolo dell’infinito. Traccio con un pennarello color rosso sulla
mappa l’escursione, la fotografo e la invio a John: <<Che te ne pare? Ti
va di andare a costatare dal vivo?>> Yes! Risposta affermativa.
L’indomani si parte, sicuramente troveremo neve, quindi, adeguiamo con
l’equipaggiamento. Alle prime luci del mattino siamo nei pressi di Cavazzo, ci
inoltriamo con i rispettivi automezzi nella grigia e oscura valle che precede
le pendici del monte Piciat. Lasciamo gli automezzi presso uno spiazzo, poco
prima del bivio che conduce al ricovero “Al Pescatore. Fa un freddo boia, il
sole non filtra ancora a causa della copertura di alcuni bassi rilievi a
oriente. Ci mettiamo in marcia, seguendo il disegno sulla mappa. Poco prima del
bivio imbocchiamo una strada forestale che risale il fronte orientale del monte
Alz, e dopo alcuni metri di cammino adocchiamo il profilo del monte illuminato
dal sole. A prima vista la vetta appare fitta di arbusti, questa impressione
sarà in seguito confermata. Dopo alcune centinaia di metri sulla stradina,
imbocchiamo un sentiero a sinistra, l’istinto consiglia correttamente, è la
pista segnata a tratteggio sulla mappa. Il meraviglioso sentiero selvaggio si
sviluppa tramite molteplici diramazioni che si incrociano all’infinito lungo
l’ascesa. John percepisce il mio entusiasmo, il lupo che alberga in me è
svestito, e gode a intuire e perseguire le tracce. Sì, proprio le impronte di
un capriolo, di Artemide, l’amata divinità che da sempre mi accompagna quando
mi avventuro nella selva. I sentieri si susseguono, e per ognuno che ne
perdiamo altri cento ne avvistiamo, e tutti conducono al lato oscuro del monte,
quello posto proprio a nord, dove solo la dea osa avventurarsi. Con l’aumentare
della quota si alza sia lo spessore della neve che la ripidità del versante.
Dopo aver scalato un tratto molto ripido di costone, decidiamo di indossare le
ghette e i ramponi, malgrado la neve non sia tanto dura. La sicurezza è l’unica
compagnia che non limita la nostra libertà. Procediamo con brio, la traccia che
avevo ideato si perde negli schianti non previsti, decidiamo di salire e
superare l’ostacolo accostando un canalone, e la medesima idea l’ha avuta in
precedenza la deità, infatti ne scorgiamo le orme. Superiamo una crestina,
affilata e molto esposta, sul versante occidentale, e ci fermiamo ad ammirare
il paesaggio che esibisce la meravigliosa valle di Tolmezzo. L’Amariana, la
divinità dolomitica, domina la scena, e in essa, noi, per alcuni istanti ci
perdiamo, rapiti dalla sua bellezza. Superato il tratto ardito, siamo in
sicurezza, proseguiamo per il pendio con minor pendenza del precedente.
Cercando i passaggi migliori troviamo la massima elevazione (712 m.), sita
all’interno di un fitto bosco composto da esile vegetazione arborea, tra cui
spiccano le acacie e i faggi. Scegliamo un arbusto a cui dedicare la massima
quota, erigendo una croce con l’ausilio dei materiali di fortuna, a essa
alleghiamo un contenitore in vetro con all’interno un foglio con su stampata
un’aquila, il simbolo di un grande imperatore e spirito libero “Stupor Mundi”.
Fatte le dovute operazioni, proseguiamo l’avventura, prima scendendo di quota a
meridione, dove scorgiamo un’enorme ferita nella roccia, forse i segni di una
remota scorsa tellurica. Di seguito, vista l’impossibilità di proseguire a sud,
viriamo per la cresta, ascendendo l’ante-cima del monte (705 m.) e proseguendo
per il giocoso pendio di neve. Godimento totale! L’escursione non è mai
pericolosa, anzi, molto divertente, e tra le piste bianche ideate scendiamo
velocemente di quota, sino a trovare un sentiero vero e proprio. Lo seguiamo in
basso, esso conduce nella selletta posta tra i due monti, il monte Alz appena
scalato e lo Zouf che studiamo. Un canale d’acqua misto al sentiero attira la
nostra attenzione, esso, sul versante meridionale, ascende al monte Zouf,
tramite questa strana combinazione, finché il rigolo d’acqua svanisce lasciando
il proseguo a una vistosa e ampia mulattiera. La pesta sale con dolcezza, e non
ci par vero che conduca in alto. Rilevo dalla mappa che dovrebbe addirittura
spingersi sino in vetta. Ci lasciamo andare alla bellezza del dolce camminare,
finché scorgiamo un muro perimetrale, e di seguito la struttura dello Stavolo
Gadoria del Perar. John vorrebbe soprassedere l’esplorazione degli interni e
procedere per la vetta, ma io insisto, sono attratto e richiamato dal rudere.
Aggiriamo i cespugli di rovi che proteggono la casera trovando un varco da dove
accediamo. Ispeziono vivamente l’edificio: nel piano terra troviamo la stalla e
la cucina in modeste condizioni. Nel locale cucina è posto un camino con la
classica cappa e l’aggeggio per tenere il pentolone. Sulla cucina vera e
propria, a legna, troviamo: piatti, posate e pentole, come se i commensali si
fossero allontanati di fretta e furia durante la consumazione del pasto.
Qualcosa di strano e impiegabile sicuramente è successo. Nella stalla adiacente
trovo una pantofolina rossa, poggiata per terra, forse la giovane donna stava
badando agli animali quando è stata colta di sorpresa da qualcosa o qualcuno.
Il rosso è il colore del fuoco e della passione, lo stesso della fanciulla che
ho sognato. Non percepisco dolore, ma solo tanto eros, un rapimento passionale.
Ispezioniamo gli ambienti del piano superiore che confermano questa mia tesi.
Troviamo le camere da letto, e una di esse sembra portare i segni della furia
devastatrice dell’impeto passionale. Lasciamo questo luogo dove ancora avverto
la presenza umana. John sembra il più lesto nel ritornare sul sentiero, gli ho
confidato le mie suggestioni, con più crudezza di quanto consiglia lo scritto.
Riprendiamo il sentiero che ascende il monte Zouf, la mulattiera è ben marcata,
e con una serie di tornanti giunge fino alla cresta, dove troviamo solo un
esile traccia sulla neve. Seguiamo il filo di cresta, stavolta le impronte
della dea sono succedute da quelle di un nostro simile con ciaspole. Giungiamo alla
vetta, un’altra fitta faggeta, e su un arbusto lasciamo il segno del nostro
passaggio. Il cielo, di un azzurro turchese, filtra dalle fronde degli alberi,
esso è stato licenziato dal cinereo delle nubi. Seguiamo sempre la cresta a
occidente, e dopo una breve discesa in libera sul versante innevato incrociamo
il marcato sentiero percorso ancora dalle orme delle ciaspole dello stesso
omino che ci ha preceduto in vetta. Camminiamo con tranquillità per l’antico
selciato, che invita piacevolmente alla volta del piccolo borgo di Casera
Dueibis. Le nostre fatiche dovrebbero essere finite, togliamo i ramponi e le
ghette, e godiamo della bellezza degli stavoli. Dopo una breve sosta
continuiamo per la stradina asfaltata sino al borgo di Pusea, dove troviamo due
indigeni intenti a fabbricare qualcosa. Fraternizziamo, breve scambio di
battute, e proseguiamo per la nostra meta. La direzione è opposta a quella
della conquista dell’ascesa dei monti. Stiamo effettuando un anello in senso
antiorario, e ora continuiamo da occidente a oriente. Risaliamo la carrareccia
fino a quando improvvisamente si interrompe, proprio poco prima di un rigolo.
Superiamo l’asperità trovando stavolta un sentiero abbastanza ampio,
evidentemente quel tratto in passato deve essere franato. Procediamo lesti, ma John
mi arresta, la fame lo ha chiamato all’ordine, decidiamo di desinare,
adoperando gli zaini come comodi cuscini. La breve pausa scorre velocemente,
presto siamo pronti con gli zaini in spalle, e riprendiamo il passo. Non manca
molto a chiudere l’anello, il sentiero è davvero bello, antico, molto
affascinante rispetto alle note montagne che dominano la valle. Superiamo anche
un ponticello, e dopo siamo a ridosso dei prati che conducono al locale” Al
Pescatore”. Pochi metri ancora e siamo alle auto, l’escursione è finita,
fortunatamente senza intoppi. È stata una bella avventura. L’escursione, come è
consuetudine quando si è in compagnia, finirà in un bar per bere qualcosa. Ne
troviamo uno lungo la strada, semplice, con pochi tavoli e meno gente.
Fraternizziamo con il gestore e un avventore, commentando la sorprendente
escursione con una grappa e una cioccolata.
Malfa.
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