Un giorno con i miei
fratelli afghani tra i monti di Kabul
In un determinato
periodo della mia vita mi ritrovo per lavoro in Afghanistan, insieme a me c’era
un gruppo di alpinisti italiani, avevano il compito di addestrare i locali.
C’eravamo incontrati in un locale di Kabul e rivisti in molteplici occasioni.
Ho sempre la buona abitudine di portare al seguito una borsa con il materiale
per disegnare e naturalmente l’immancabile reflex. Durante uno degli incontri
occasionali, il capo team degli alpinisti notò il mio album da disegno e le mie
caricature, mi chiese se fossi disposto a creare la sua.
<<Certamente!>> Gli risposi, chiedendo in cambio di passare insieme
a loro una giornata sui monti afghani e confidando che in Italia coltivavo la
passione per la montagna. L’amico alpinista sorridendo acconsentì e dopo due
giorni la sua caricatura fu pronta. Giunge il giorno prefissato per l’uscita,
sono tesissimo per l’emozione, l’Afghanistan è un luogo magico e mi infonde
adrenalina.
Arriviamo presto nella
valle, i rilievi non sono eccessivamente alti, la quota del nostro calpestio è
sopra i milleottocento metri. Rimango colpito dalla roccia, luccicante e dai
colori vivaci che variano dai bruni agli azzurri, questo paese è noto anche per
il lapislazzuli.
Mentre fotografo e gli
amici preparano le corde, odo dei colpi sordi provenire dalle rocce in alto. Mi
fermo, drizzando le orecchie nella direzione del suono, scorgo qualcosa
muoversi tra i massi e poi venire giù. È un ragazzino, con un fagotto al
seguito, intento in precedenza a spaccare pietre; gli uomini in questo paese
lavorano sin dall’infanzia. Sceso velocemente dalle rupi, ha uno sguardo da
furbetto, alla sua età ne ha viste di tutti i colori. Veste come un adulto,
avvolto da un tipico foulard, lo stesso che adesso adopero anch’io in montagna.
La valle racchiusa tra i monti è un via vai continuo di personaggi, l’attraversa
un‘arteria principale, e al centro è solcata da un fiume (maleodorante dai
colori giallognoli) proveniente da Kabul, metropoli popolata da più di tre
milioni di abitanti.
Alcuni viandanti si
fermano incuriositi a osservarci, e gli anziani con i loro turbanti sono
affascinanti, somigliano a delle figure dipinte dal nostro Sommo pittore
Caravaggio; se non fosse per il passaggio di centauri a bordo di moto
sgangherate o di camion più decorati di un carretto siciliano direi di vivere
nel medio evo.
Riesco a catturare gli
istanti, ho il display della reflex orientabile, quindi, metto a fuoco il
soggetto senza che si senta osservato. Nel frattempo, due pescatori attraggono
la mia attenzione, l’anziano (il padre) sorride mentre il giovane adopera reti
da pesca arcaiche, costruite con corde e sassi.
Un enorme brusio
preannuncia una carovana di nomadi che attraversa la valle, essa è preceduta da
un cane dal pelo nero e dall’aspetto vissuto, e il medesimo guida il gruppo,
come un generale precede l’esercito al rientro dalla battaglia. Dietro lo
seguono gli asinelli e le pecore, l’unica donna sta al centro ha delle sembianze
mistiche. Non nascondo che mentre mi passava d’innanzi ho volto lo sguardo in
basso per non imbarazzarla, in questi luoghi alcune regole non scritte germogliano
spontanee. Ma avrei voluto vederlo quel viso, in questa terra se gli uomini
sono belli le donne saranno divine. La carovana, silenziosamente come è
apparsa, allo stesso modo lascia la valle. Mi avvicino all’argine del fiume,
noto un pastorello, lo saluto, cerco di comunicare gesticolando, mi osserva
incuriosito e divertito. Provo a comunicare come facevano in tutti i luoghi del
mondo i coloni con gli indigeni.
Pronuncio il mio nome indicando contemporaneamente con il pugno racchiuso il
mio petto, finché il ragazzo intuisce, all’inizio non è stato facile, ma ha
compreso e mi ha detto il suo di nome che oggi non ricordo più. Nel frattempo,
lo raggiungono il fratellino e la sorellina. Con gli stessi gesti di prima ci presentiamo,
il fratello maggiore mi fa da interprete. Ho estratto dalla mia sacca il mio pasto
e l’ho donato (pane, cioccolata e carne in scatola). Timidi all’inizio ho
dovuto insistere, qualcosa hanno gradito (la cioccolata), la carne in scatola
meno e anche l’uso delle posate di plastica non era tra le loro conoscenze. Più
che con le parole dialogavamo con lo sguardo, tanta dolcezza è fiorita nel
volto del mio piccolo amico. Mentre scherzo, pensavo che avrei voluto portarli
a casa, in Italia, per farli studiare e dare
loro un futuro meno gravoso. I bimbi di tutto il mondo hanno un sorriso
meraviglioso, diventeranno uomini, padri nonni, poi morranno. Non sento nessuna
distanza con loro, anzi, avrei voglia di abbracciarli. Non ho avuto bisogno
nemmeno di una lingua comune, adoperando solo gli occhi abbiamo trasmesso le
emozioni. Un gesto dei miei amici alpinisti mi avverte che è tardi, dobbiamo
rientrare, lo comunico ai bimbi che è
giunto il tempo di lasciarci, ma mento, li sto solo lasciando con il corpo, il
mio cuore si spezzerà è rimarrà per sempre con loro, quei sguardi mi hanno
rapito. Rientrando a Kabul trattengo le mie emozioni ai compagni di viaggio,
sono sentimenti difficili da comunicare, ma uno dei miei compagni se ne accorge
e dolcemente mi ha da una pacca sulla spalla.
Anche lui, chissà
quanti volti ha visto nella sua vita girovagando per il mondo, il nostro lavoro
è paragonabile alle nuvole, che passano rapidamente e si dissolvono, bagnando
la terra di emozioni raccolte. Il giorno vissuto nella valle mi ha donato tantissimo,
rientro a Kabul con quei volti impressi nella mente che non dimenticherò mai
più.
Malfa.
Nessun commento:
Posta un commento