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giovedì 15 dicembre 2022

Un giorno con i miei fratelli afghani tra i monti di Kabul

Un giorno con i miei fratelli afghani tra i monti di Kabul

 

In un determinato periodo della mia vita mi ritrovo per lavoro in Afghanistan, insieme a me c’era un gruppo di alpinisti italiani, avevano il compito di addestrare i locali. C’eravamo incontrati in un locale di Kabul e rivisti in molteplici occasioni. Ho sempre la buona abitudine di portare al seguito una borsa con il materiale per disegnare e naturalmente l’immancabile reflex. Durante uno degli incontri occasionali, il capo team degli alpinisti notò il mio album da disegno e le mie caricature, mi chiese se fossi disposto a creare la sua. <<Certamente!>> Gli risposi, chiedendo in cambio di passare insieme a loro una giornata sui monti afghani e confidando che in Italia coltivavo la passione per la montagna. L’amico alpinista sorridendo acconsentì e dopo due giorni la sua caricatura fu pronta. Giunge il giorno prefissato per l’uscita, sono tesissimo per l’emozione, l’Afghanistan è un luogo magico e mi infonde adrenalina.

Arriviamo presto nella valle, i rilievi non sono eccessivamente alti, la quota del nostro calpestio è sopra i milleottocento metri. Rimango colpito dalla roccia, luccicante e dai colori vivaci che variano dai bruni agli azzurri, questo paese è noto anche per il lapislazzuli.

Mentre fotografo e gli amici preparano le corde, odo dei colpi sordi provenire dalle rocce in alto. Mi fermo, drizzando le orecchie nella direzione del suono, scorgo qualcosa muoversi tra i massi e poi venire giù. È un ragazzino, con un fagotto al seguito, intento in precedenza a spaccare pietre; gli uomini in questo paese lavorano sin dall’infanzia. Sceso velocemente dalle rupi, ha uno sguardo da furbetto, alla sua età ne ha viste di tutti i colori. Veste come un adulto, avvolto da un tipico foulard, lo stesso che adesso adopero anch’io in montagna. La valle racchiusa tra i monti è un via vai continuo di personaggi, l’attraversa un‘arteria principale, e al centro è solcata da un fiume (maleodorante dai colori giallognoli) proveniente da Kabul, metropoli popolata da più di tre milioni di abitanti.

Alcuni viandanti si fermano incuriositi a osservarci, e gli anziani con i loro turbanti sono affascinanti, somigliano a delle figure dipinte dal nostro Sommo pittore Caravaggio; se non fosse per il passaggio di centauri a bordo di moto sgangherate o di camion più decorati di un carretto siciliano direi di vivere nel medio evo.

Riesco a catturare gli istanti, ho il display della reflex orientabile, quindi, metto a fuoco il soggetto senza che si senta osservato. Nel frattempo, due pescatori attraggono la mia attenzione, l’anziano (il padre) sorride mentre il giovane adopera reti da pesca arcaiche, costruite con corde e sassi.

Un enorme brusio preannuncia una carovana di nomadi che attraversa la valle, essa è preceduta da un cane dal pelo nero e dall’aspetto vissuto, e il medesimo guida il gruppo, come un generale precede l’esercito al rientro dalla battaglia. Dietro lo seguono gli asinelli e le pecore, l’unica donna sta al centro ha delle sembianze mistiche. Non nascondo che mentre mi passava d’innanzi ho volto lo sguardo in basso per non imbarazzarla, in questi luoghi alcune regole non scritte germogliano spontanee. Ma avrei voluto vederlo quel viso, in questa terra se gli uomini sono belli le donne saranno divine. La carovana, silenziosamente come è apparsa, allo stesso modo lascia la valle. Mi avvicino all’argine del fiume, noto un pastorello, lo saluto, cerco di comunicare gesticolando, mi osserva incuriosito e divertito. Provo a comunicare come facevano in tutti i luoghi del mondo  i coloni con gli indigeni. Pronuncio il mio nome indicando contemporaneamente con il pugno racchiuso il mio petto, finché il ragazzo intuisce, all’inizio non è stato facile, ma ha compreso e mi ha detto il suo di nome che oggi non ricordo più. Nel frattempo, lo raggiungono il fratellino e la sorellina. Con gli stessi gesti di prima ci presentiamo, il fratello maggiore mi fa da interprete. Ho estratto dalla mia sacca il mio pasto e l’ho donato (pane, cioccolata e carne in scatola). Timidi all’inizio ho dovuto insistere, qualcosa hanno gradito (la cioccolata), la carne in scatola meno e anche l’uso delle posate di plastica non era tra le loro conoscenze. Più che con le parole dialogavamo con lo sguardo, tanta dolcezza è fiorita nel volto del mio piccolo amico. Mentre scherzo, pensavo che avrei voluto portarli a casa, in Italia, per farli studiare e dare  loro un futuro meno gravoso. I bimbi di tutto il mondo hanno un sorriso meraviglioso, diventeranno uomini, padri nonni, poi morranno. Non sento nessuna distanza con loro, anzi, avrei voglia di abbracciarli. Non ho avuto bisogno nemmeno di una lingua comune, adoperando solo gli occhi abbiamo trasmesso le emozioni. Un gesto dei miei amici alpinisti mi avverte che è tardi, dobbiamo rientrare, lo comunico ai bimbi  che è giunto il tempo di lasciarci, ma mento, li sto solo lasciando con il corpo, il mio cuore si spezzerà è rimarrà per sempre con loro, quei sguardi mi hanno rapito. Rientrando a Kabul trattengo le mie emozioni ai compagni di viaggio, sono sentimenti difficili da comunicare, ma uno dei miei compagni se ne accorge e dolcemente mi ha da una pacca sulla spalla.

Anche lui, chissà quanti volti ha visto nella sua vita girovagando per il mondo, il nostro lavoro è paragonabile alle nuvole, che passano rapidamente e si dissolvono, bagnando la terra di emozioni raccolte. Il giorno vissuto nella valle mi ha donato tantissimo, rientro a Kabul con quei volti impressi nella mente che non dimenticherò mai più.

Malfa.

 







































 

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