Anello del Monte Cuzzer, quando la
neve rende il tutto più avventuroso.
Sono passate
appena tre settimane dall’ultimo tentativo sul monte Cuzzer, il pensiero è
rimasto fisso sull’immaginaria cresta, e oggi spero in un esito positivo, apprestandomi
ad un altro tentativo.
La mappa è
la stessa, l’itinerario definitivo lo deciderò all’ultimo, e non ho preparato
nessun piano B, voglio il Cuzzer e il Cuzzer sarà.
Giunge il
sabato mattino, il meteo mette variabile, ma non è prevista la pioggia,
approntato il materiale all’inseparabile amico a quattro zampe si parte in
direzione Gemona. La strada che da Lestans porta a Gemona è una delle
direttrici che percorro spesso per andare in montagna. Dopo la frazione di
Pinzano transito sul Tagliamento tramite il famoso ponte storico, ed è un bel
vedere: le acque azzurre disegnano fluide lingue tra le bianche ghiaie e i monti in lontananza
sono la giusta cornice. Attraverso in sequenza una serie di piccoli borghi,
ammirando il sole nascente che lambisce con i suoi raggi gli antichi borghi di
San Daniele, Osoppo, mentre in lontananza le Prealpi Giulie, dominate
dall’inconfondibile mole del Chiampon specchiano la luce sulle cittadine sottostanti.
Benché sia
desto sogno ad occhi aperti, sorrido e saluto tutte le cime nominandolo a una a
una. Nello spettacolare caleidoscopio della magnifica annovero alcune elevazioni,
tra cui riconosco il Chiampon, il Brancot, il San Simeone, l’Amariana, il Plauris,
il Pisimoni e lo Zuc dal Bor, remote conquiste con vividi ricordi. Magritte come
sempre durante il tragitto è silenzioso, chissà cosa pensa il mio compagno di
viaggio? In settimana andando a ritroso nell’album dei ricordi e segnando le
escursioni in sua compagnia, ho fatto la piacevole scoperta che ha raggiunto un
numero considerevole di cime come conquiste. È tanto eroico quanto commovente il
lupetto., il mio inseparabile amico, tanti sogni ed emozioni condivise assieme.
Per entrambi la montagna è libertà, ne sentiamo il richiamo, è più forte di
qualsiasi altra emozione, difficile da spiegare a lettere se non la si prova.
Giungiamo nella Val Resia alle prime ore del mattino, mentre nel cielo azzurro
si alternano le nuvole bianche giocando a nascondino con le cime dei monti. La
prima immagine non è scoraggiante anche sui
versanti settentrionali persiste ancora molta neve. Mi spingo oltre la località
di Tigo, risalendo la rotabile che si addentra nella valle di Uccea, per studiare
meglio il monte Cuzzer dal versante meridionale. La visione mi conforta, la
neve persiste solo a sprazzi e sulla cresta, il dado è tratto, si va in cima!
Trovo parcheggio poco dopo il ponticello in località Tigo, indosso subito le
ghette, zaino in spalle e Magritte al seguito, si parte.
Superata la
simpatica passerella sul torrente Resia, si gira a sinistra seguendo le
indicazioni per la località “Case Gost” sentiero CAI 707. Il piccolo sentiero
perde quota rasentando il letto del torrente e dopo aver superato una colata
detritica inizia a guadagnare quota dentro il boschetto fino a raggiungere la
piccola località di Gost.
Una
fontanella è posta ai margini di una carrareccia che percorrerò solo per poche
centinaia di metri. Una panchina in legno e un piccolo spiazzo inerbito sono
l’inizio del sentiero che mi porterà sul Cuzzer. Abbandonata la carrareccia inizia
il tratto faticoso. Dopo aver superato un piccolo impluvio continuiamo per il
sentiero dedicato all’alpinista e finanziere “Claudio Vogric” dal gruppo “I
Ghiri di Resia” (Targa commemorativa posta su un grande masso). La pendenza è sin
da subito sostenuta e non dà tregua. Si risale il ripido pendio boschivo con un
interminabile serie di tornanti. Breve sosta panoramica sulla piccola forcella e lo sguardo vola alla catena montuosa
dominata dal Zuc del Bor. Ripreso il cammino continuo per il ripido spallone
raggiungendo il sito che tre settimane fa mi bloccò. Ora è sgombro da neve,
osservandolo il tratto esposto mi rendo conto che la retroattiva scelta di
rientrare fu azzeccata. Un’esile cengia supera due volte lo stesso impluvio
(attrezzato con cavi malandati) e la stessa aggirando il costone sempre molto esposta
risale fino alla faggeta (altri cavi e passamano). Re sole illumina il
sentiero, che con piccole svolte solca la ripida faggeta fino ad arrivare sulla
cresta, dove mi aspetta un paesaggio dissestato: alberi brulli, molti schianti,
proseguiamo seguendo le rade tracce
risalendo la cresta boschiva. Dopo alcune centinaia di metri compare la prima
neve, la sua visione oggi non mi è gradita. Il cammino diventa più articolato,
seguo i segni sugli alberi e sui massi, ascendendo sul versante occidentale il
lungo crestone che prende il nome di “Scarbina Grande”. Di tanto in tanto, in lontananza,
affiora tra la fitta vegetazione la vetta del Cuzzer. Giunto poco sotto la cima,
vengo tratto in inganno da un adrenalinico traverso su un ampio nevaio, dopo
averlo superato e con qualche patema perdo la pista. Non mi perdo d’animo, e passando dalla
modalità escursionista a quella modalità di lupo, conquisto una crestina aiutandomi con i mughi,
scoprendo di aver la vetta del Cuzzer alle spalle. Non mi perdo d’animo, ritorno
indietro ripercorrendo le mie orme, sino all’ultimo segno CAI scorso in precedenza, per osservarmi intorno. Dopo
alcuni istanti trovo la via d’uscita, sopra di me vi è un ripido ed esposto nevaio, in
alto scorgo un segno biancorosso, assicuro bene a me Magritte tramite
guinzaglio e sì procede. La neve ha del tutto sepolto l’erto sentiero, devo assolutamente
risalirlo, non vi sono altre soluzioni. A furia di colpi con le punte degli scarponi
scavo degli incavi sulla parete verticale ghiacciata fino a guadagnare il vertice del nevaio.
L’adrenalina è costante, vista l’esposizione il cuore mi batte a mille, risalendo
in modo alpinistico e con l’aiuto dei mughi l’intero camminamento innevato mi porto sotto
la cupoletta settentrionale del Cuzzer; a
quest’ultima mi collega un’esile e innevata cengia, esposta d’ambo i lati sui
vertiginosi versanti. Il suo aspetto verticale m’incute timore, il sentiero è anche
completamente sepolto dalla neve. Sfrutto i radi mughi e qualche spigolo
roccioso per arrampicarmi sulla parete esposta a settentrione, evitando l’adiacente
piano verticale, una scivolata mi sarebbe fatale.
L’idea anche
se ardita si rivela la più sicura e vincente, preso dalla delicata operazione raggiungo
con il batticuore la cresta sommitale, percorrendo con cautela gli ultimi tratti di sentiero che mi separano
dall’enorme croce in ferro, prima di
raggiungere il vertice mi fermo alcuni istanti per rifiatare e scaricare la tensione.
Improvvisamente giungono gelate folate di vento non mi faccio mancare nulla), mi copro velocemente a dovere e così raggiungo e tocco la croce di ferro, fatta! Metà impresa
è fatta, prima di pensare alla discesa scatto molteplici foto, compresa la rituale di
vetta. Dal pulpito panoramico il paesaggio
è stupefacente. A meridione ammiro il versante settentrionale della catena dei
Musi. Riconosco tutte le cime, dal Cadin allo Zaiavor, e sono tanti i ricordi e le emozioni che mi
richiamano alla mente. A oriente osservo il regale Canin avvolto dalle nuvole e
parzialmente innevato. Il cielo si va oscurando, mi affretto per il rientro, la
complessa e articolata cresta del Cuzzer
mi aspetta. Scendo dalla cima principale percorrendo il sentiero sul versante
meridionale, percorso agevole malgrado l’esposizione a sud. Aggiro una cima
intermedia fino a raggiungere l’ante-cima, dove mi aspetta un passaggio di
primo grado con l’ausilio di un cavo in metallo. Sorrido, osservando che il
tratto descritto come il più rischioso da molte relazioni, per il sottoscritto
si rivela il più facile. Superato quest’ultimo sembrava che le fatiche possano
dichiararsi finite, invece e inaspettata una cattiva sorpresa mi attende. Dietro
l’angolo mi ritrovo un insormontabile
muro di neve che rasentava il ciglio della cengia, lasciandomi solo un
paio di centimetri per fluire, per poi immettersi in un grande nevaio esposto a
nord e assai ripidissimo. Ho un attimo di panico, mi fermo a riflettere:
<< Indietro non torno di sicuro, mi studio l’ostacolo.>> Penso
dapprima di calzare i ramponi, tirare fuori la picca e continuare di traverso,
ma riflettendoci la neve fradicia non reggerebbe una mia caduta, allora passo a
una azione estrema. Risalgo il muro di neve, aiutandomi con i mughi che adopero
come corde, camminando sopra il muro di neve, e sfruttando gli spazi vuoti tra
la roccia e la neve per rifiatare. L’idea, benché sia ardita, funziona! Avanzo
per un centinaio di metri sul nevaio, fino a intravedere il catino noto,
esposto sì ma non più pericoloso. E Magritte? Era rimasto indietro, inforcando
occhiali da sole e godendosi il paesaggio, un mio fischio imperativo e perentorio
lo ha ricondotto al suo ruolo di fedele e indivisibile paggio. Mentre sfilo per un attimo i guanti, e
studiare il successivo percorso, una
dolce e lieve voce femminile mi sussurra:
<< Ciao Malfa, bentornato, come stai? Rivelo che sei il solito caparbio,
non molli mai! Bello quel paio di guanti, me lo regali?>> Un po’
nervosetto, ma poi con un sorrisetto malizioso le rispondo. <<Buongiorno, signora Artemide,
sto bene anche se surgelato. Come ha ben visto, non mi sono arreso, ma ti
diverti così tanto a crearmi ostacoli? Sai bene che trovo il lato positivo in
tutto, anche in quest’ultima esperienza. Non mollo, mi conosci bene, e come cantava
John Lennon” non ci sono problemi, ma solo soluzioni”, quindi, proseguo. I
guanti? Mah, oggi non li meriteresti, ma come si fa a dire di no ad una bella
signora, anche se bella e capricciosa. Va bene , te li lascio sulla roccia, proprio
sopra i due segni Cai. A presto!>> Tra me penso, che la montagna è risaputo, che
a volte da e a volte prende e oggi mi tocca pagare pegno. Congedatomi dalla dea
prosegui, anche perché il meteo tende ad un peggioramento. <<A presto mia
signora!;>> Cosi dicendo mi congedo dalla montagna, affrontando il catino
innevato e raggiugendo la cupoletta sommitale dell’ante-cima. Effettuo una breve
sosta, mi riprendo dallo stress, e mi gusto il paesaggio. Il mio caro amico
riposa un attimo, dormendo sopra una piazzola d’erba. Magritte è stanco ma
beato, chissà se ha sentito la voce della montagna? Trascorsa la breve ma
salutare sosta riprendo lo zaino per affrontare la seconda parte dell’escursione.
Una lieve traccia scende a meridione attraversando il bosco di faggi e di seguito raggiungendo la forca di Tasacuzzer,
materializzata da cartelli divelti, con indicazioni CAI. La mia meta è a
oriente, seguo il sentiero 707 con indicazioni per il borgo Lischiazze. Dalla
forca mi calo nel canalone, un ripido sentiero che nel primo tratto percorre il
letto innevato di un secco impluvio, e successivamente perdendo quota guadagna
la base di un costone. Ambiente selvaggio, unico in cui perdersi per sentirsi
per una volta liberi e primordiali. Di fronte mi fanno compagnie le verticali
pareti settentrionali dei Musi che paiono
sempre più vicine e con il naso all’insù proseguo per un’esile cengia che taglia parallelamente le dirupati pareti
meridionali del Cuzzer, e di
seguito, transitando attraversando un
tratto di macereto, per poi rientrare nel fitto bosco. Ora il sentiero è comodo
e adombrato dalle foglie dei faggi, continuo la discesa per il versante, innestandosi
sul sentiero proveniente da destra con numerazione 703. I colori del bosco sono
intensi, la traccia è ben marcata, in breve dopo aver superato un tratto di vegetazione
con affioramenti carsici, guado un secco impluvio, ritrovandomi sulla vecchia
carrareccia che si innesta dopo poche centinaia di metri sulla rotabile che
dalla val Resia porta alla Valle dell’Uccea. Procedo con un passo lento, spesso ammirando le cime e il piccolo borgo di
Lischiazze. Un latrare di cani e lo sguardo di alcuni vallegiani scandisce il
tempo del nostro passaggio. Le fatiche volgono
al fine, e ripensandoci, non abbiamo ancora desinato. Deviando per una
diramazione, dopo alcuni saliscendi, raggiungiamo il borgo di “Case Gost”, dove ci aspetta una panchina che adibiamo a refettorio.
Io e il mio compagno siamo esausti, ci accomodiamo sulla panca. Estraggo dallo
zaino la sacca con i viveri. Do la precedenza al lupacchiotto. Penso: <<
Ho effettuato questo enorme giro soltanto con un fico secco nello stomaco, e Magritte nemmeno quello.>> Breve pausa,
e dopo esserci rifocillati, si riprende
il cammino per l’ultimo quarto d’ora di cammino che ci separa dall’auto. Nel
frattempo, incrociamo un anziano boscaiolo, intento a spaccare legna, lo saluto,
ricambia. Mi riconosce, è lo stesso di alcune settimane fa, mi chiede se ho raggiunto
la cima! Gli rispondo di sì e che l’escursione meritava. Gli chiedo quanti anni
ha. Mi risponde: << Quanti me ne dà?>>
Provo a indovinare, e sparo 85 anni, sperando di compiacerlo. Non l’avessi mai detto!
Il Suo volto si contorce in una smorfia di dolore, mi risponde che ne ha solo 70,
mentre l’ascia che impugna rotea pericolosamente nella mia direzione. Mi congedo
dal non “tanto anziano” boscaiolo, sperando che dimentica in fretta la mia
gaffe. Questo episodio mi serva da lezione:
come con le gentil signore, spesso e per compiacerle, convien sparare c….
ed essere degli adulatori nell’abbassare gli anni, più tosto che rischiare la
vita pronunciando la cruda e nuda verità.
Percorrevo gli ultimi metri di sentiero, attraversando il ponticello sul
torrente Resia da vincitore, in egual modo Giulio Cesare e le sue legioni entravano da vincitori ad
Alesia, e come gli antichi romani, immagino che la struttura sia un arco di
trionfo, percependo, chissà come delle trombe che intonano l’ouverture dell’Aida.
Anche oggi io e il mio prode abbiamo vissuto una nuova avventura, e una storia
da raccontare.
Malfa
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