Il magico Brentoni.
Il monte
Brentoni era da tempo era in cantiere, esattamente dalla prima volta che fui nei
pressi di Casera di Razzo. Quel giorno
rimasi incantato, ed ogni volta che la raggiungo la località, chiudo gli occhi
un attimo, li riapro, e ascolto un fantasmagorico mago che con voce squillante
presenta il suo show: <<Vengano signori, vengano! Ecco a voi il più bello
spettacolo del mondo, sedetevi comodatamene e ammirate. Dalla vostra destra a
seguire potete ammirare: la bellissima creta di Mimoias, bella e dispettosa, la
Terza Grande, signora regale, essa è più grande delle sorelle e la più magnanima.
E di seguito l’arcigno Cornon con il suo
castello magico. I torrioni della Val d’Inferno e il suo custode Brentoni, Il
Pupera con i suoi canaloni selvaggi. E se non fosse ancora soddisfatti: alla
vostra sinistra Il Tudaio e il Tiarfin, dove potete ammirare gli ultimi carni e
la loro valle magica e infine Il
Clapsavon e il Bivera, che solo oggi, ripeto solo oggi, potete avere in omaggio
insieme a tutta questa meraviglia alla modica cifra di un tallero.>>
Richiudo e riapro gli occhi e la magia rimane, e lasciare il luogo è sempre
doloroso.
Approfittando
della nuova stagione invernale anomala, ho tirato fuori dal cassetto l’idea di visitare
il Brentoni, incoraggiato anche dal meteo favorevole.
Nello zaino
ho messo l’imbrago, il casco, ramponi e picca, preparandomi ad ogni evenienza.
Decido di lasciare a casa Magritte, consapevole che non sarebbe stata una
semplice passeggiata.
La mattina
partenza presto ma non troppo, per via delle basse temperature, coperto dentro
il giaccone affronto l’itinerario che mi porta a Tolmezzo, e successivamente
addentrandomi nella Val Pesarina. La temperatura è al di sotto dello zero, le
auto nei punti sosta sono ricoperte di ghiaccio, percorro con prudenza la
strada provinciale, percependo al passaggio dell’auto lo stridere del sale sparso sul manto stradale. Superato
il rifugio Fabbro, raggiungo il passo di Ciampigotto, pochi metri dopo in un
ampio spazio sulla destra della carreggiata posteggio l’auto. Zaino in spalle e
sogni al seguito, parto. Una serie di cartelli con le indicazioni per il parco
del Brentoni e la cima mi indicano la via da seguire. Percorro una vecchia
carrareccia che tra abeti rossi e vetusti larici si fa strada alle pendici del
colle Rementera, guadagnando presto un bellissimo pulpito panoramico. Il paesaggio è sublime, in basso il Col
Serenede e coperto da un bosco di abeti, sopra di esso la magnifica Cresta
gotica con le sue cattedrali: Il Pupera, Il Brentoni, i torrioni della Val di
Inferno.
Rimango
incantato, assorto, nel frattempo mi viene incontro un cacciatore di ritorno
dalla battuta di caccia, mi sorride ed esclama: << Bello, vero? Mai visto
un luogo così! Ci vengo spesso e rimango incantato, vedrai lassù troverai anche
caldo, e incontrerai due giovani.>> Gli sorrido, ha uno sguardo dolce,
buono, osservo i suoi occhi illuminati dalla bellezza del luogo e gli rispondo.
<<Sono incantato, vedi sono fermo, e trovo difficile camminare e
proseguire, starei qui in eterno, ma devo andare avanti, un caro saluto e buon
rientro.>> Congedatomi dal cacciatore proseguo fino alla fine della
carrareccia raggiungendo un vecchio pascolo (forcella Losco) ancora inerbito,
seguo le indicazioni sui cartelli CAI, lambendo da vicino i ruderi di una
vecchia malga. Mi addentro nell’antico bosco, popolato da arbusti magici,
alcuni di loro sono incantati, come se venissero dentro una fiaba. Uscito dal
bosco il sentiero raggiunge la forcella di Camporosso, dove i sentieri si
biforcano- Il 332 prosegue a destra per la forcella Valgrande, a sinistra il
228 prosegue per la forcella Starezza e il Brentoni. Seguo quest’ultimo
percorrendo una radura inerbita e ingiallita dal gelo. Il sentiero in
orizzontale con leggera pendenza taglia le pendici occidentali del Col Sarenede
guidandomi in breve sotto i bastioni rocciosi del Brentoni. Abbandono il
sentiero 228 che prosegue, e seguo il sentiero che zizzagando e indicato da
bolli rossi risale il pendio erboso portandomi alla base della parete rocciosa
del Brentoni.
Presso un
grosso masso il sentiero si biforca. Presto attenzione ai bolli rossi: a
sinistra si va per la via normale, mentre
a destra per la variante, seguo quelli di sinistra.
Il percorso
è accidentato tra le rocce, mi fermo spesso ad ammirare le cuspidi e le pareti
bianche. Tra le rocce con piccoli salti raggiungo il fianco destro di un
canalone dove è sito il primo tratto attrezzato. Sento dei rumori venire
dall’alto, e subito dopo vedo sbucare i due giovani descritti dal cacciatore.
Sono attrezzati fino ai denti, casco, ramponi, addirittura numerosi rinvii,
picche e corde, in un primo momento penso che abbiano scalato una nuova via
alpinistica, chiedo a loro delle delucidazioni. Mi rispondono che hanno
percorso il Brentoni, salendo a oriente e per cresta scendendo a occidente. Si
rassicurano che io abbia i ramponi al seguito, perché la neve è tanto dura, confermo
di averli e ci salutiamo. Indossati i ramponi, casco e imbrago mi concentro sul
proseguo, visto che lo zaino pesa, decido di liberarmene, lasciandolo un
cantuccio tra le rocce. Estraggo dallo zaino la mini-sacca, e in stile “Malfa”,
con lo stretto necessario proseguo per gli ultimi duecentocinquanta metri di
dislivello.
Poco dopo
tra la neve raggiungo l’esile forcella Brentoni, do uno sguardo al versante
settentrionale totalmente imbiancato. Una piccola cengia mi porta alla base del
lungo dietro. Trovo un chiodo e le prime attrezzature, con i ramponi confesso
che arrampicarmi sulla roccia lo trovo difficoltoso, ma il dado è tratto,
quindi, senza se e senza ma, si sale.
Il diedro è
abbastanza inclinato e spesso il cavo non è di aiuto, non segue la via
naturale, dove si trovano più appigli e appoggi, così mi tocca spesso, per non
scivolare, usare la forza delle braccia. A metà attrezzatura trovo una paretina
di due metri di secondo grado e sopra di esse il cavo che si inabissa sotto la
neve, per riprendere tre metri sopra. Con peripezia mi isso sopra di essa,
sganciando i moschettoni, e aiutandomi con la picca mi porto alla sinistra per
superare il tratto di neve e riguadagnare il cavo. Confesso che senza imbrago
non sarei salito, avrei rinviato l’appuntamento in estate. Riguadagnate le
attrezzature, ma seguendo la via adiacente di arrampicata guadagno il pulpito,
dove i cavi si interrompono. Mi rimangono ancora cento metri di dislivello da
percorrere sul nevaio, mi sposto a sinistra seguendo le orme di chi mi ha
preceduto, tenendomi sotto le rocce. Picca e ramponi e ramponi e picca,
raggiungo l’innevata cresta. Emozione! Gli ultimi metri, e in molti sanno cosa
significa, sono quelli che fanno dimenticare i pericoli e la fatica appena
compiuti. Ultimi metri, ultimi passi e vedo qualcosa per cui vale la pena
morire. Un paesaggio stupendo, ma non mi devo fermare ancora. Picca e ramponi e
ramponi e picca, scorgo come un miraggio
alla mia sinistra la piccola croce, percorro l’esile cresta innevata e la
raggiungo. L’adrenalina accumulata è allo stato puro, non ho paura passeggiando
sul baratro come un funambolo sulla fune sospesa. Ammiro tutto intorno, sono letteralmente
affascinato da cotanta magia. Non dimentico che mi aspetta la discesa ma ci
penserò dopo.
Questa
meraviglia potrebbe essere l’ultima cosa che percepisco in questa vita e me la
voglio godere. In lontananza si vedono le dolomiti di Cortina, non cito i nomi,
perché sono tutte belle, tutte quante! È magnifico, ora, mentre trascrivo l’esperienza
ho le lacrime agli occhi, come vorrei essere ancora lassù!
Nell’immaginifica
rivisitazione sono ancora lassù. Ficco la picca nella dura neve, poggio il
casco su un paletto, dove è sito un contenitore di libro di vetta. Faccio delle
riprese e tante foto, sono tutte belle, perché è il soggetto a renderle tali.
Scruto dentro il contenitore del libro di vetta, c’è solo una dedica di una
figlia per il papà che ha raggiunto il cielo. Non scrivo nulla, lascio una foto
mia e di Magritte insieme, oggi spiritualmente era con me. Non ci sono parole
per descrivere quello che vedo, e nessuno mai le troverà, bisogna venire quassù
per capire. Non guardo l’orologio, non so a che ora ho raggiunto la cima, il
tempo qui ha perso la sua logica; sto cavalcando l’eternità e lo scorrere degli
attimi si ferma finché rimango in vetta. Ma come ben sanno tutti i solitari,
non si è mai veramente soli, si è sempre in due: lo spirito ribelle, (il lupo),
e la coscienza (lo spirito saggio). Quest’ultimo prende il sopravvento e spinge
l’altro a lasciare la libertà, tirandolo a sé con forza. Così riprendo il
cammino verso il ritorno, con molta prudenza, tanta! Passo dopo passo, picca e
ramponi e ramponi e picca, scendo giù e il diavolo ci mette lo zampino. In
questo caso nulla di preoccupante, tutto superato con intuito. Poco prima del
cavo, in una posizione esposta, mi si è sganciato un rampone, senza farmi
prendere dal panico, ho ficcato la piccozza nella dura neve, e con uno dei
moschettoni ho fatto autoassicurazione. Ho sistemato il rampone e ripreso la
discesa. Durante la calata, a metà diedro sul punto delicato, dopo aver ripreso
il cavo mi sono calato stridendo i ramponi sulla roccia, ho sentito un odore di
bruciato causato dall’attrito delle punte dei ramponi. Esperienza interessante.
Con calma raggiungo la base del diedro, dove finalmente effettuo una sosta. Ho
accumulato tanta adrenalina, sentivo la tensione. Tolgo il casco, lo pongo
accanto, e dalla piccola sacca estraggo i viveri, consumo solo una banana e mi
disseto. Osservo il paesaggio, faccio
delle foto, una al casco con le sue stelline, segno delle ferrate che ho fatto.
Muovendo un piede, accidentalmente e inavvertitamente, do un calcio al casco
che rotola giù seguendo la cengetta, e di seguito, per un tragico scherzo del
destino, lo vedo sparire nel dirupo sottostante. Prima di cadere nel vuoto ho
avuto la percezione che si fosse fermato una frazione di secondo, come per
dirmi: << Addio Malfa, addio amico mio!>> E poi giù nell’infinito
vuoto. Ho solo osservato la sua fine, e urlato uno straziante :<<NOOOOO!!!>>
Di seguito, dopo ripresomi dallo sconforto, e con calma, mi sono alzato,
preparandomi per il rientro. Affacciatomi sul dirupo non scorgo nessun segno,
esso è sparito nel bianco, e forse così
voleva finire la sua esistenza. Come dargli torto! È svanito, come noi tutti,
amanti della montagna, vorremmo! Una fine gloriosa dopo aver compiuto in pieno
il suo dovere di caschetto protettivo ed essersi gloriato con le stelle,
simbolo delle cime raggiunte. Immagino gli altri caschi, quelli sfortunati, che
finiscono al mercatino dell’usato o nella differenziata, una fine ingloriosa
dopo una lunga esistenza accanto a colui che ha protetto dai pericoli . Addio
amico mio, mi mancherai! Sarà duro indossare il tuo sostituto, ma devo, mi
mancherai, lieve ti sia la terra, addio! Dopo la triste perdita riprendo il
cammino, fino alle attrezzature in basso, dove mi spoglio dell’imbrago e dei
ramponi. Ripongo tutto il materiale nello zaino, ho la fame bloccata dalle
emozioni, sono ancora elettrizzato dalla tensione. Riprendo il passo in
verticale, all’inizio è difficile, ma ben presto scendendo per la serpentina
sul pendio erboso mi riconcilio con il mondo orizzontale. Rientro, osservando i
monti a meridione, nel bosco scorgo una figura venirmi incontro, una signora di
mezza età con un iPhone in mano, ci salutiamo, ha un viso strano, mi volto
indietro ed è sparita, volatizzata! Era una strega, è la prima volta che ne
incontro una. Le megere sono come
sempre, state all’avanguardia, sanno adoperare le ultime tecnologie, e questa
mi sa che è proveniente da qui vicino, sicuramente dal Pian delle Streghe. Così
per sentiero d’andata raggiungo l’auto. Metto in moto, tolgo gli scarponi e
pian piano mi sposto sul piano di Casera Razzo. Mi fermo a osservare i raggi
infuocati del sole che tingono di rosso le cime, un ultimo saluto al paradiso
in terra, e rientro per la Val Pesarina. Ho fame, finalmente l’appetito prende
il posto della tensione. Mentre guido, nutrendomi di panino e agrumi,
attraverso la Carnia, felice di aver fantasticato, con un sogno realizzato in
più e purtroppo, un casco in meno.
Malfa.
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