Col dei S’ciòs, un sogno nella magica neve.
Col dei S’ciòs (colle delle lumache) è il toponimo della
meravigliosa località del Cansiglio, raggiungibile tramite un bellissimo
sentiero arcaico con partenza dalla località di Coltura. Approfittando della
bellissima giornata di sole e della compagnia dell’amico “John” si procede alla
volta di Coltura. Fin ora tutte le escursioni fatte insieme si sono rivelate
remunerative e magiche, siamo reciprocamente l’uno il talismano dell’altro.
Giungiamo nel piccolo borgo di Coltura alle prime ore del mattino, la giornata
è luminosa e il cielo è terso come non lo si vedeva da giorni, la temperatura è
primaverile; questa stupenda visione riempie i cuori di gioia, rendendoci
trepidanti sin dalla partenza.
Il sentiero ha inizio dall’albergo Da Stale (in abbandono),
lasciamo l’auto presso il tornante della strada che porta al borgo di
Mezzomonte (q.340 m.). Ci approntiamo per l’escursione con tutto il necessario,
armati fino ai denti, compresi ramponi e
ciaspole.
Percorriamo un breve tratto posto all’interno dell’area
dell’edificio, seguendo le indicazioni su un cartello CAI, all’inizio del
percorso il primo tratto ha due numerazioni, 981 e 982.
Superato il rifugio ci troviamo immediatamente sul bel
sentiero, passando accanto a una grotta rocciosa (Crep di Landre). Lambiamo le
pareti dei fondali preistorici, ammirando i sassi cementati dalla primordiale
sabbia.
Il tracciato è un’evidente mulattiera lastricata che collega
il borgo alle casere superiori. La fatica dei malgari persiste nel tempo, ne
ripercorriamo i ciottoli con doveroso rispetto. Dopo alcune centinaia di metri
il sentiero si biforca (cartelli CAI q 494 m.), noi scegliamo quello di destra
numerato 982 che ci porta direttamente alla casera Busa Bernart, risalendo per
il fitto bosco la Val del Landre. Gli alberi di nocciolo stanno a testimoniare
che stiamo attraversando le pendici meridionali dell’altopiano. Si percepisce
sulla pelle l’assolato versante, sono lontani i giorni in cui imperversava il
Burian, e se non fossimo saggi staremmo già in maglietta.
Veniamo raggiunti da un turista belga che porta sulle spalle
il suo frus (bimbo) dai bellissimi occhi azzurri, lo rincontreremo in discesa
poco sotto la forcella. Con entusiasmo e gioia percorriamo la bella mulattiera,
a tratti è pianeggiante. Poco dopo giungiamo in un terreno aperto dove si erge
un riparo artificiale chiamato La Lobia (termine arcaico che significa loggia )
posto a q.805 m.
Effettuiamo una breve sosta che ci permette di spaziare con
lo sguardo sulla pianura friulana; il sole ci scalda, l’azzurro ci ammalia mentre
l’apparire di una sparuta nuvoletta ci preoccupa.
Proseguiamo, dopo un breve tratto ripido ci immettiamo in un
lunghissimo traverso che taglia la parte superiore della valle. Gli arbusti
lasciano il passo ai cespugli, e l’azzurro è più ampio. Presso la fonte Buset
incontriamo un gruppo di escursionisti, che soprannominiamo “Gli Scoiattoli
dell’INPS di Pordenone”. Fraternizziamo, loro sono intenti a bere per adempiere
al loro rito sacro direttamente alla
fonte, io e l’amico ne approfittiamo per consumare il nostro classico
energetico. Riprendiamo il passo, e avendo al seguito i nuovi amici,
percorriamo il bellissimo sentiero a tratti aereo, ammirando le bastionate
rocciose del Torrione.
Finalmente incontriamo la prima neve, che con l’aumentare di
quota si fa più consistente, dopo una breve serie di tornanti raggiungiamo gli
abeti al limite della forcella.
Ci fermiamo presso una panca, anch’essa ricoperta di neve,
per munirci di ciaspole e proseguire il cammino.
Aggirando a destra l’abetaia seguiamo le orme dei nostri
amici, fino ad attraversare una delle numerose carrarecce che percorrono il
monte; pochi metri dopo scendendo nella cavità naturale (dolina) ci ritroviamo
al cospetto della casera Busa Bernart, naturalmente chiusa ai viandanti.
Raccogliamo l’invito degli scoiattoli dell’INPS, scherziamo,
registrando il tutto con un paio di autoscatti. Loro, dopo la sosta rientrano a
valle e noi proseguiamo per la nostra meta.
Confortati dalle provvidenziali ciaspole tagliamo per il
boschetto in direzione nord sino a incontrare la carrareccia che corre
parallela alla casera. A illustrarlo sembra facile, ma quanto ho citato è
totalmente ricoperto da neve. La carrareccia dopo un centinaio di metri
raggiunge un bivio, un cartello indica la località di Piancavallo a destra, noi
proseguiamo a sinistra e dopo pochi metri gli abeti svaniscono, donandoci un
paesaggio incantato, tale da lasciarci a bocca aperta.
Delle antipatiche nuvole si divertono ad apparire e svanire,
svelando a volte un cielo azzurro di un blu intenso che contorna il paesaggio
dove gli innevati colli ricordano un deserto dalle dune bianche.
Con lo sguardo e mappa alla mano scrutiamo il paesaggio
tentando di intuire il nostro colle. <<È quello dietro? No, quell’altro
di seguito ancora a destra! >><< Non si vede un (…) dai, andiamo
avanti e valutiamo.>>
Usciamo dalla carrareccia mirando al primo colle rimanendo
in quota, poi un secondo e un terzo ancora, così percorriamo le creste e la
suggestione ha il sopravvento sulla fatica. Tra le dune riconosciamo i giochi
di uno scialpinista, anch’egli si è diretto sulla nostra meta. Ci fermiamo
spesso per fotografare, ogni scatto è pura magia. Immortalo John, lo immagino
come il “Primo uomo sulla Luna”, la sua sagoma complementare al bianco avanza.
Sparuti, eroici e solitari alberelli sfidano il silenzio, donando poesia al
candido paesaggio. Mi emoziono osservando l’amico che ricerca il sogno. Siamo i
viandanti, gli spiriti liberi per eccellenza, uomini che hanno lasciato a valle
le famiglie, le abitudini, i pensieri, per inseguire una chimera, l’eterna
illusione che noi chiamiamo Libertà.
Avvistiamo la nostra meta, un ometto di pietre sormontato da
una piccola croce spartana legata con fil di ferro per concertina, ci siamo,
percorriamo la cresta, rallentiamo, quasi ci fermiamo, è un istante magico.
L’amico aspetta che io lo raggiunga, per un nobile accordo mai verbalizzato,
quello di toccare la meta assieme e nel medesimo istante. Come i cavalieri
medievali, conficchiamo le nostre spade (bastoncini telescopici) nella neve e
poco sotto l’ometto; ci abbracciamo, togliamo i guantoni volgendo lo sguardo e
il sorriso all’orizzonte.
Se fossimo vissuti nel Medio Evo, John e io, saremmo stati
sicuramente due cavalieri dai nobili sentimenti, le nostre azioni nascono
spontanee, spesso comunichiamo con il solo sguardo.
Mentre John apporta il nostro passaggio sul libro di vetta,
io fotografo il paesaggio e infine eseguo l’autoscatto che immortala il magico
momento. Finite le operazioni di prassi,
ci abbandoniamo alla meditazione. La cima del Col di S’ciòs appare come un
tumulo, simile a una tomba di un nobile guerriero,
la stessa domina dall’alto il paesaggio, spaziando dalle vicine vette di
Piancavallo alle lontane dolomiti friulane.
Dalla vetta avvistiamo in basso una malga, si tratta della
casera di S’ciòs, che noi erroneamente scambiamo per Casera Busa Gravin (ce ne ravvediamo
successivamente). Decidiamo di dirigerci alla casera, per poi proseguire per la
carrareccia più a nord. In questo breve tratto di percorso ho avuto la
sensazione di sognare: nel biancore della neve ho perso completamente la
tridimensionalità dello spazio, sono stato immerso nella luce e le sporadiche
velature della nebbia hanno amplificato tale sensazione. Raggiunta la
carrareccia proseguiamo a meridione, ma qualcosa non ci convince, l’intento era
quello di compiere l’anello ma il sentiero che porta a casera Costa Cervera è
totalmente ricoperto di neve. Non ci sono segni sugli alberi, quindi, dietro
front e proseguiamo per la casera Col dei S’ciòs, per poi riprendere le nostre
tracce e rientrare a casera Busa Bernart.
La fatica inizia a farsi sentire e con essa anche la fame e
le gambe reclamano potassio. E noi? Silenti e con spirito stoico procediamo. I
folli presenti in questo altopiano non siamo solo noi, ne avvistiamo uno che
scende dal colle adiacente a quello dei S’cios, per poi svanire nel nulla, un
altro ci viene incontro per la carrareccia. Trattasi di un simpatico veneto,
dal sorriso coinvolgente, e che con la sua mountain bike ha osato sfidare la
neve. La sua bici ci appare come un
ronzino che l’audace cavaliere conduce a piedi nella bianca valle. Ci salutiamo
augurandoci un reciproco buon cammino e tanta fortuna.
Ritrovate le nostre orme, volgiamo lo sguardo indietro,
rimanendo incantati da una magica visione. Da uno squarcio tra le nubi filtra
un raggio di sole che illumina la meta odierna, essa appare di un bianco
luminoso e spirituale che spicca contrastando con il paesaggio circostante,
dove la bianca vetta si stacca dal grigio dei colli e l’azzurro del cielo. Ci
fermiamo a contemplare quel miracolo, chiedendoci reciprocamente, l’uno con l’altro,
la conferma di quello che intravediamo.
Riprendiamo il cammino, le nostre impronte ci riconducono alla Casera Busa
Bernart, aprendoci un varco nella recinzione mobile per poter effettuare la
meritata sosta; usufruiamo del tavolo con panche posto all’esterno
dell’edificio e riparato dalla tettoia.
Come spesso ci accade, dalla magia passiamo al momento
ludico. Tolte le ciaspole, dagli zaini estraiamo come prestigiatori dal
cilindro, le cibarie, riempiendo il tavolo di delizie: panini di diversa foggia
e contenuto, frutta, vino, persino il dolce. Non siamo né ipertecnologici e né
puristi, le abbiamo provate tutte, ma la barretta energetica discorda con la
magia del luogo, più idonee sono il panino con la frittata o con la mortadella
che sposati al rosso cabernet danno sapore e regalità alla seducente
giornata.
Saziata la fame, proseguiamo l’escursione per il tratto
finale. Sostituiamo le ciaspole con i ramponi, siamo coscienti che sarà solo
per un breve tratto, ma non abbiamo nessuna intenzione di rischiare brusche
cadute. Lungo la discesa avvistiamo un gruppo di capre selvatiche dall’aspetto
demoniaco, ben mimetizzate con il bianco, questo tocco di natura è la ciliegina
sulla torta di una splendida giornata che volge al termine. Presso la fonte del
Buset ci disarcioniamo dagli ramponi per proseguire per la pianura. Il sentiero
è ancora lungo e tortuoso, la conversazione lo renderà breve e dolce. Giunti
all’auto ci approntiamo per il rientro, cercando lungo la strada del ritorno un
locale ideale per festeggiare con una bevuta l’escursione; lo troveremo in
località Grizzo, presso Montereale Valcellina.
Davanti a uno spritz e un caffè, commentiamo l’escursione
odierna progettando le future. Termina così la nostra avventura, con una
montagna vissuta e un’altra storia da raccontare.
Malfa.
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