Monte Celant da
Tramonti di Sotto: storia di partigiani, capretti e guanti persi e ritrovati.
Racconto.
Continuo
l’esplorazione della Val Tramontina, alla ricerca del tempo perduto. Per questa
uscita come meta ho scelto il monte Celant, l’avevo adocchiato nella precedente
escursione dal monte Mulon. Da tempo non venivo in questo angolo della Val Tramontina,
ricordo che tempo fa partecipai alla manutenzione della sentieristica che porta
al borgo di Palcoda e alla successiva inaugurazione della campana.
L’arrivo in mattinata
nella Val Tramontina è accompagnato dalla gelida visione della brina che copre
l’intera valle. l’acqua nel bacino del lago di Redona è scesa
considerevolmente, le cime circostanti sono innevate. Raggiunta la frazione di
Tramonti di Sotto mi dirigo al centro della valle solcata dal torrente Tarceno,
lasciando l’auto nella piazzola accanto ai ruderi della casera Comesta.
Anche in
quest’avventura mi fa da compare Magritte, impiego un po’ di tempo ad
approntarmi per la partenza, coprendomi bene e indossando le ghette, dovrei
trovare neve in prossimità della cresta. Pronti, si parte, percorrendo la
strada forestale che risale la valle.
Un bel murales dipinto
sul muro di contenimento della strada attira la mia attenzione: Le figure umane
sono dipinte con tonalità di grigio mentre lo sfondo ha colori rosso fuoco. Il
dipinto raffigura una coppia di giovani (lui con lo zaino e lei con la bici)
nell’atto di osservare il passato, rappresentato da coloro che combatterono
(gruppi di partigiani armati) per conquistare la libertà. Qualcuno, sicuramente
uno scellerato, ha imbrattato con una scritta parte del murales, dimostrando
nel vile gesto tutta la sua inciviltà.
È un bel inizio di
escursione, mi fa pensare positivo e apprezzare quello che ho nel tempo in cui vivo grazie a chi si è sacrificato
tempo fa.
Malfa.
Proseguo, notando dei
cartelli appesi a dei tronchi d’albero, leggo in essi che un capretto si è smarrito
e il suo fattore (afflitto) lo cerca amorevolmente. È proprio vero il detto che
cita:” Paese che vai, usanze che trovi”. Ad Andreis il capretto veniva in dato
in pasto alle volpi e abbandonato morente come il barbaro Galata, a Tramonti il
capretto lo si cerca disperatamente, come se sì forse smarrito un cucciolo
d’uomo. Volevo scrivere (ironicamente) sulla tabella” Non vi preoccupate, l’ho
trovato io! firmato “La Volpe”.
Anche dei fiocchetti
rossi messi come segni attirano la mia attenzione, finalmente raggiungo il
guado ed evitando una scivolata sulla lastra di ghiaccio mi porto sull’altra
sponda, dove inizia il sentiero 831.
Abbandonato l’asfalto
do sfogo all’incedere degli scarponi, anche oggi porto quelli vecchi, prossimi
alla fine, per il loro “canto del cigno”.
La mulattiera che mi
porta ai ruderi della frazione Tamar è ben marcata e segnata, con una lunga
diagonale attraverso il bosco e raggiungo i ruderi del borgo che sono
preannunciati da muri a secco e ricoperti da muschio. Mi addentro nei resti del
borgo dove trovo la prima neve. I fantasmi che popolavano il villaggio stanno
affacciati alle finestre, un viottolo costruito tra due file di sassi mi guida
fino all’edificio principale della frazione. Due giganteschi abeti rossi
montano di guardia ai resti della rovina, di cui rimane solo lo scheletro e le
mura da dove si aprono le finestre e quello che rimane del camino. Mancano del
tutto le imposte e dalle finestre intravedo i nuovi abitanti, i faggi, che
protendono i rami al cielo per catturare le nuvole.
Cerco un edificio
adibito a bivacco che prende il nome da chi abitò in precedenza la frazione, un
certo “Guglielmo Varnerin”. Cercando la struttura adibita a riparo incappo in
una adibita ad abitazione, dove ho il piacere di incontrare, in carne e ossa,
il discendente diretto del Varnerin, ovvero Renato Miniutti, che è alle prese
con la manutenzione. Lo saluto, effettuo una breve visita al bivacco (posto
all’interno di un cortile a cui si accede passando per un arco) dove apporto la
firma sul libro dei visitatori, per poi procedere per il monte Celant. Prima di
lasciare il borgo, mappa alla mano, chiedo delucidazioni a Renato sul percorso
che mi appresto a fare.
Proseguendo per la
cima Celant, attraverso lo spiazzo sottostante la frazione, dove scorgo dei
simpatici cerbiatti costruiti adoperando tronchi di legno. Una lunga strada
forestale sarà il mio prossimo percorso, essa è inizialmente innevata a
chiazze, nel corso del cammino sarà progressivamente coperta, fino raggiungere
i trenta centimetri di spessore nel tratto di cresta.
Il percorso è noioso,
la stradina innevata effettua lunghe diagonali, distraggo la mente osservando
il paesaggio che scorgo solo al diradarsi della faggeta. Magritte fa da
apripista, la neve amplifica la sua natura selvatica, osservandolo rivivo
l’atmosfera dei racconti di Jack London e il fido appare come un novello Buck.
Durante l’ascesa impieghiamo il tempo a giocare, Magritte esegue esercizi di
equilibrismo ma con scarso entusiasmo.
Presso la cresta,
intravedo un cartello CAI che mi indica di lasciare il percorso artificiale per
proseguire per il sentiero, i segni mi guidano dentro la faggeta. Pochi metri
di bosco e raggiungo la cresta, innevata anche sul versante meridionale. La
consistenza della neve, mi permette di camminare facilmente e senza l’ausilio
dei ramponi. Percorro il filo del crinale ammirando il paesaggio e alcuni faggi
dalle forme tortuose.
Una coltre di nubi
ingrigisce il cielo, irrigidendo la temperatura. Percepisco la vicinanza della
vetta, i segni Cai proseguono all’interno del versante settentrionale mentre io
preferisco il margine tra i due versanti, che benché esposto non è mai
pericoloso, anzi mi dona l’emozione del vuoto, come se corressi sopra nuvole
bianche. I faggi di cresta, vista l’esposizione alle intemperie hanno un
aspetto sofferente e allo stesso tempo dinamico, essi mi fanno compagnia fino
alla vetta, materializzata da due cartelli e un ometto sormontato da un
crocifisso dove la scultura del Cristo è rovinata.
La temperatura
continua a scendere, il paesaggio a nord è ostruito dalla vegetazione, mi godo
quello che riesco a intravedere. Magritte nel sostare presso l’ometto si è
infreddolito, trema, quindi mi appresto a rientrare per lo stesso percorso
dell’andata.
Mi sono accorto di
aver smarrito il guanto sinistro, proprio dove ho il dito incidentato,
l’abbassamento repentino della temperatura mi crea fastidio. Ritorno sui miei
passi, percorrendo nella neve la scia che ho creato in precedenza, sono
convinto di ritrovare l’oggetto smarrito giù al borgo di Tamar, mi deve essere
caduto mentre estraevo dalla tasca della giubba la mappa.
Raggiunto il borgo,
non faccio in tempo a cercare il guanto che odo provenire da dentro un edificio
una voce calda: <<Guarda che hai perso un guanto, ti avevo chiamato, ma
eri già lontano. Gradisci un caffè?>>. È la voce di Renato e l’invito mi
giunge gradito, rispondo acconsentendo. L’amico esce dall’edificio dove stava
operando e mi viene incontro, aprendo un altro locale preposto a cucina. Da una
moca (ancora calda) mi versa il gradito caffè, si conversa. Renato intuisce che
sono un tipo loquace, scusandosi si allontana per riprendere il lavoro che ha
lasciato in sospeso.
Rientro nel piccolo
bivacco, apporto la firma sul libro di via, rassicurando (chi eventualmente nel
frattempo si fosse preoccupato della mia sorte e quella di Magritte) che siamo
rientrati sani e salvi.
Ripreso il cammino del
ritorno, con calma e sempre per lo stesso sentiero dell’andata raggiungo il
punto di partenza, scrivendo la parola fine a questa nuova avventura.
Soddisfatto dell’escursione e della cima conquistata, rientro a valle con una
nuova storia da raccontare.
Malfa
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