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lunedì 19 dicembre 2022

Alcune note sui nostri amici ometti...

Alcune note sui nostri amici ometti, quel simpatico mucchietto di sassi che ci guida in montagna.

Malfa

 


Di Federico Zerbo

Segno di viaggio in montagna, semplice, primitivo, simbolico: l’ ometto di pietra affascina per forme e messaggi, che a volte contiene

Tutte le montagne ne sono punteggiate, non esiste praticamente sentiero sul quale non ci sia la possibilità di incontrarne uno: è l’ometto di pietra. Per chi non lo conoscesse, l‘ometto di pietra è un semplice e primitivo sistema di segnalazione in montagna, costituito da un mucchietto di sassi. Si incontrano prevalentemente nei luoghi più selvaggi ed impervi, dove i classici segnavia colorati dipinti sulle rocce o i cartelli che indicano la direzione da seguire, vengono meno.

La costruzione dell’ometto di pietra è affidata alla bontà di coloro che si fermano per pochi minuti durante il proprio percorso, a realizzarne uno o semplicemente ad aggiungere una pietra ad uno già esistente, a beneficio dei camminatori che seguiranno. Un metodo semplice, primitivo, appunto, che va ben oltre un banale mucchio di pietre.

Durante i miei tre decenni sulle montagne, ne ho trovato di ogni forma e dimensione, a volte dei veri e propri virtuosismi costruttivi, a volte quasi banali, ma fondamentali per la buona riuscita di un’escursione. Mi è accaduto sovente, specie nei selvaggi percorsi del cuneese, o sulle pietraie d’alta quota della Valle d’Aosta, che da questi “silenziosi” abitanti delle montagne dipendesse il successo di una camminata o il raggiungimento di una vetta.

UN COLLANTE SPECIALE…

Se ne trovano di enormi, durevoli nel tempo, che diventano familiari da un anno all’altro; altri seguono un “ciclo vitale”, vengono distrutti dai rigori invernali e pazientemente ricostruiti nella primavera successiva. Non c’è cemento, non c’è stucco, ma la loro resistenza dura da secoli, il collante è la passione di chi li costruisce e vuole condividere con gli altri l’amore per la montagna.

MONUMENTI “NATURALI”

Alcuni ometti sono posti sulle cime, come veri simboli del traguardo raggiunto, autentici monumenti. Qualche anno fa mi è capitato di fare una lunga camminata nel deserto roccioso di Marsa Alam, durante una vacanza in Egitto. L ‘escursione raggiungeva una “vetta”, poco più di una collina a picco sul mare, e sopra ho trovato un impressionante ometto di pietra. Più che di un ometto, si trattava di un vero e proprio gigante di pietra.

Chi arrivava in quel punto panoramico, era solito aggiungere una pietra, a memoria del proprio passaggio; tanti piccoli sassi, tante mani di sconosciuti, avevano costruito il monumento di quel luogo, rendendolo speciale.

RICONOSCENZA ALLA MONTAGNA…

Fra le fessure degli ometti di pietra mi è capitato a volte di trovare biglietti: ringraziamenti per i meravigliosi luoghi visitati, a volte preghiere per chi non c’era più ed era rimasto nel cuore di chi le aveva scritte, a volte lettere d’amore. Lettere per amori presenti, lettere per amori finiti o che non si sarebbero mai realizzati, gioie e sofferenze, ricordi e prospettive.
Storie di vita e di passione…perché in fondo la montagna è proprio questo.

 

ANTROPOLOGIA. Quegli «ometti» dal cuore di pietra

 

E chi oserà più definirli «un mucchio di sassi»? In effetti dopo due convegni, qualche libro internazionale, una mostra, una bandiera e un monumento in piazza, è un po’ difficili chiamarli così: i cairn sono piuttosto celebrità internazionali, star benemerite per la botanica e l’antropologia, presenze fisse nel panorama di moltissimi luoghi e nella storia secolare di quasi tutti i popoli del mondo, insomma sono realtà di una statura davvero planetaria. Mai sentiti nominare? Beh, la cosa è già più comprensibile. In effetti, queste semplici costruzioni coniche sono note sotto appellativi vari come le latitudini in cui sorgono: bonhomme (Francia), inuksuk (Artide), steinmann (Germania), moledro (Portogallo), ovoo (Mongolia), kummel (Svezia), mongioie (Piemonte), ometti in Italia...Chiamiamoli «ometti», dunque: sono i mucchi di pietre accumulate ai lati dei sentieri di montagna, piramidi atte a indicare la strada grazie alla loro mole ben distinguibile anche attraverso le nebbie o sotto la neve. Di questo simbolo della presenza umana in territori inospitali – uno lo incontrò anche Livingstone nella selva africana – si occuperanno il pomeriggio del 29 giugno, durante il VII Festival di letteratura di montagna, viaggio e avventura «Letteratura» di Verbania, Oriana Pecchio e Pietro Giglio con una dotta conferenza intitolata appunto «Il cairn, ometto di pietre». Pollicino non ha inventato nulla: se lui le pietruzze per segnare il cammino se le teneva in tasca, e le spargeva dietro di sé passo dopo passo, l’uomo del Neolitico aveva già pensato di ritrovare la strada del ritorno dalla caccia adoperando i sassi, ma ben più voluminosi e solidamente accatastati a secco nei punti cruciali della via. Un’abitudine talmente funzionale che i suoi eredi l’hanno mantenuta sostanzialmente invariata per millenni fino ad oggi, che abitino il deserto del Gobi o le cime del Tibet, la Cordigliera delle Ande o le distese ghiacciate dell’Artide – un tipico cairn, a forma di uovo e con una lastra in mezzo come due braccia, fa da emblema sulla bandiera del Nunawuk, territorio a nord del Canada abitato dagli inuit. La prima meraviglia del cairn (il vocabolo è di origine celtica) è infatti la sua onnipresenza, con piccole variazioni ma in sostanza sempre uguale a se stesso nel tempo e nello spazio; prevalentemente in ambiente montano – ma non solo: nei mari di Scandinavia montagnole di sassi bianchi sono usate per segnalare le secche in prossimità delle coste. Oriana Pecchio, medico e cultrice di alpinismo, se n’è appassionata fino a cercare di rintracciarne l’origine: «I cairns sono nati molto semplicemente per segnare la via di caccia, di guerra o di commercio, col materiale a immediata disposizione; probabilmente furono inventati da popolazioni di cacciatori nomadi o seminomadi del Neolitico. È difficile indicare una datazione per quelli esistenti, ma certo ce ne sono di molto antichi: anche millenari. Altro aspetto scientifico molto interessante è che costituiscono un microambiente, un habitat particolare che permette a certi insetti o vegetali di sopravvivere persino a grandi altezze; la prestigiosa “Nature” ha pubblicato l’esempio della quercia delle alture del Golan (Israele) che ormai sopravvive solo vicina ai cairns». Uno specialista della materia è l’americano David Williams, che l’anno scorso ha pubblicato un volume dedicato proprio agli ometti «messaggeri di pietra», testo in cui se ne esaminano la geologia, la datazione, i tipi, la funzione...In effetti esistono anche «ometti» che assolvono a compiti speciali, per esempio votivi o religiosi: i Galli e poi i Roman erano soliti erigere colonne rituali di sassi sui valichi alpini o sui colli, sorta di are dedicate per i primi a Bel e per i secondi a Giove (da cui la dizione dialettale «montgioie») o a Mercurio; la tradizione cristiana dei «piloni» di pietre a secco eretti lungo le mulattiere di montagna per il culto della Madonna o di certi santi deriverebbe da questa abitudine pagana. Per qualcuno invece costruzioni di questo genere sparse nei pascoli avrebbero funzione di parafulmine ovvero di catalizzatori di energie telluriche, tipo menhir. Un altro uso frequente dei cairns era quello di tombe, anzi era abitudine che ogni viandante in segno di rispetto e devozione aggiungesse una nuova pietra al tumulo per farlo sempre più alto. Più recentemente, le piramidi di sassi sono state usate da certi esploratori come memoriali o segnali che si era arrivati fin lì (magari celandovi all’interno un messaggio in bottiglia). Ma si tratta di scelte particolari. In genere, l’«ometto» – il cui nome italiano deriva dalla forma antropomorfa – si limitano ad assolvere l’umile compito di marcatori del territorio; e non è poco. «Quante volte, per esempio allo sbocco di un ghiacciaio, mi sono trovato in situazioni in cui il cairn è stato il segnale che mi riportava alla civiltà...». Parla da guida alpina, Pietro Giglio: «In tanti anni di frequentazione delle montagne del mondo li ho visti dappertutto, dall’Himalaya all’Africa, e mi hanno sempre affascinato. Sono un segnavia funzionale ed elegante, assolutamente ecologico, a "chilometro zero", economico: altro che le vernici o i cartelli metallici usati per indicare i sentieri di montagna!». Dalla natìa Valpelline, in effetti, Giglio ha iniziato una campagna di tutela e di rilancio del simpatico «ometto»: l’anno scorso ci ha organizzato sopra un convegno con tanto di antropologi e geografi, ed ha persino promosso il primo monumento mondiale al cairn – che è poi quasi una tautologia, essendo per l’appunto un cumulo di sassi altro tre metri. «L’ometto segnavia ha una funzione ancora valida oggi e che potrebbe essere rivisitata, perché la segnaletica montana moderna non sempre si sposa con l’ambiente. Valpelline, col suo progetto SlowAlp, è disponibile ad organizzare manifestazioni per studiarne un’eventuale evoluzione. Del resto, la Val d’Aosta (copiando un progetto svizzero) già lo fa e ha integrato il cairn nell’ambito della segnaletica unificata regionale, sia pure irrobustendolo col cemento. Mentre già nasce una tendenza di escursionismo che – in contrasto con i camminatori muniti di Gps – vuole reimparare a orientarsi solo grazie ad elementi naturali». Ometti di tutto il mondo, avete un futuro davanti.

 

 























 

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