Alcune note sui nostri amici ometti, quel simpatico mucchietto di sassi che ci guida in montagna.
Malfa
Di Federico Zerbo
Segno di viaggio in
montagna, semplice, primitivo, simbolico: l’ ometto di pietra affascina per
forme e messaggi, che a volte contiene
Tutte le montagne ne
sono punteggiate, non esiste praticamente sentiero sul quale non ci sia la
possibilità di incontrarne uno: è l’ometto di pietra. Per chi non lo
conoscesse, l‘ometto di pietra è un semplice e primitivo sistema di
segnalazione in montagna, costituito da un mucchietto di sassi. Si incontrano
prevalentemente nei luoghi più selvaggi ed impervi, dove i classici segnavia
colorati dipinti sulle rocce o i cartelli che indicano la direzione da seguire,
vengono meno.
La costruzione
dell’ometto di pietra è affidata alla bontà di coloro che si fermano per pochi
minuti durante il proprio percorso, a realizzarne uno o semplicemente ad
aggiungere una pietra ad uno già esistente, a beneficio dei camminatori che
seguiranno. Un metodo semplice, primitivo, appunto, che va ben oltre un banale
mucchio di pietre.
Durante i miei tre
decenni sulle montagne, ne ho trovato di ogni forma e dimensione, a volte dei
veri e propri virtuosismi costruttivi, a volte quasi banali, ma fondamentali
per la buona riuscita di un’escursione. Mi è accaduto sovente, specie nei
selvaggi percorsi del cuneese, o sulle pietraie d’alta quota della Valle
d’Aosta, che da questi “silenziosi” abitanti delle montagne dipendesse il
successo di una camminata o il raggiungimento di una vetta.
UN COLLANTE SPECIALE…
Se ne trovano di
enormi, durevoli nel tempo, che diventano familiari da un anno all’altro; altri
seguono un “ciclo vitale”, vengono distrutti dai rigori invernali e
pazientemente ricostruiti nella primavera successiva. Non c’è cemento, non c’è
stucco, ma la loro resistenza dura da secoli, il collante è la passione di chi
li costruisce e vuole condividere con gli altri l’amore per la montagna.
MONUMENTI “NATURALI”
Alcuni ometti sono
posti sulle cime, come veri simboli del traguardo raggiunto, autentici
monumenti. Qualche anno fa mi è capitato di fare una lunga camminata nel
deserto roccioso di Marsa Alam, durante una vacanza in Egitto. L ‘escursione
raggiungeva una “vetta”, poco più di una collina a picco sul mare, e sopra ho
trovato un impressionante ometto di pietra. Più che di un ometto, si trattava
di un vero e proprio gigante di pietra.
Chi arrivava in quel
punto panoramico, era solito aggiungere una pietra, a memoria del proprio
passaggio; tanti piccoli sassi, tante mani di sconosciuti, avevano costruito il
monumento di quel luogo, rendendolo speciale.
RICONOSCENZA ALLA
MONTAGNA…
Fra le fessure degli
ometti di pietra mi è capitato a volte di trovare biglietti: ringraziamenti per
i meravigliosi luoghi visitati, a volte preghiere per chi non c’era più ed era
rimasto nel cuore di chi le aveva scritte, a volte lettere d’amore. Lettere per
amori presenti, lettere per amori finiti o che non si sarebbero mai realizzati,
gioie e sofferenze, ricordi e prospettive.
Storie di vita e di passione…perché in fondo la montagna è proprio questo.
ANTROPOLOGIA. Quegli
«ometti» dal cuore di pietra
E chi oserà più
definirli «un mucchio di sassi»? In effetti dopo due convegni, qualche libro
internazionale, una mostra, una bandiera e un monumento in piazza, è un po’
difficili chiamarli così: i cairn sono piuttosto celebrità internazionali, star
benemerite per la botanica e l’antropologia, presenze fisse nel panorama di
moltissimi luoghi e nella storia secolare di quasi tutti i popoli del mondo,
insomma sono realtà di una statura davvero planetaria. Mai sentiti nominare?
Beh, la cosa è già più comprensibile. In effetti, queste semplici costruzioni
coniche sono note sotto appellativi vari come le latitudini in cui sorgono:
bonhomme (Francia), inuksuk (Artide), steinmann (Germania), moledro
(Portogallo), ovoo (Mongolia), kummel (Svezia), mongioie (Piemonte), ometti in
Italia...Chiamiamoli «ometti», dunque: sono i mucchi di pietre accumulate ai
lati dei sentieri di montagna, piramidi atte a indicare la strada grazie alla
loro mole ben distinguibile anche attraverso le nebbie o sotto la neve. Di
questo simbolo della presenza umana in territori inospitali – uno lo incontrò
anche Livingstone nella selva africana – si occuperanno il pomeriggio del 29
giugno, durante il VII Festival di letteratura di montagna, viaggio e avventura
«Letteratura» di Verbania, Oriana Pecchio e Pietro Giglio con una dotta
conferenza intitolata appunto «Il cairn, ometto di pietre». Pollicino non ha
inventato nulla: se lui le pietruzze per segnare il cammino se le teneva in
tasca, e le spargeva dietro di sé passo dopo passo, l’uomo del Neolitico aveva
già pensato di ritrovare la strada del ritorno dalla caccia adoperando i sassi,
ma ben più voluminosi e solidamente accatastati a secco nei punti cruciali
della via. Un’abitudine talmente funzionale che i suoi eredi l’hanno mantenuta
sostanzialmente invariata per millenni fino ad oggi, che abitino il deserto del
Gobi o le cime del Tibet, la Cordigliera delle Ande o le distese ghiacciate
dell’Artide – un tipico cairn, a forma di uovo e con una lastra in mezzo come
due braccia, fa da emblema sulla bandiera del Nunawuk, territorio a nord del
Canada abitato dagli inuit. La prima meraviglia del cairn (il vocabolo è di
origine celtica) è infatti la sua onnipresenza, con piccole variazioni ma in
sostanza sempre uguale a se stesso nel tempo e nello spazio; prevalentemente in
ambiente montano – ma non solo: nei mari di Scandinavia montagnole di sassi
bianchi sono usate per segnalare le secche in prossimità delle coste. Oriana
Pecchio, medico e cultrice di alpinismo, se n’è appassionata fino a cercare di
rintracciarne l’origine: «I cairns sono nati molto semplicemente per segnare la
via di caccia, di guerra o di commercio, col materiale a immediata
disposizione; probabilmente furono inventati da popolazioni di cacciatori
nomadi o seminomadi del Neolitico. È difficile indicare una datazione per
quelli esistenti, ma certo ce ne sono di molto antichi: anche millenari. Altro
aspetto scientifico molto interessante è che costituiscono un microambiente, un
habitat particolare che permette a certi insetti o vegetali di sopravvivere
persino a grandi altezze; la prestigiosa “Nature” ha pubblicato l’esempio della
quercia delle alture del Golan (Israele) che ormai sopravvive solo vicina ai
cairns». Uno specialista della materia è l’americano David Williams, che l’anno
scorso ha pubblicato un volume dedicato proprio agli ometti «messaggeri di
pietra», testo in cui se ne esaminano la geologia, la datazione, i tipi, la
funzione...In effetti esistono anche «ometti» che assolvono a compiti speciali,
per esempio votivi o religiosi: i Galli e poi i Roman erano soliti erigere
colonne rituali di sassi sui valichi alpini o sui colli, sorta di are dedicate
per i primi a Bel e per i secondi a Giove (da cui la dizione dialettale
«montgioie») o a Mercurio; la tradizione cristiana dei «piloni» di pietre a
secco eretti lungo le mulattiere di montagna per il culto della Madonna o di
certi santi deriverebbe da questa abitudine pagana. Per qualcuno invece
costruzioni di questo genere sparse nei pascoli avrebbero funzione di
parafulmine ovvero di catalizzatori di energie telluriche, tipo menhir. Un
altro uso frequente dei cairns era quello di tombe, anzi era abitudine che ogni
viandante in segno di rispetto e devozione aggiungesse una nuova pietra al tumulo
per farlo sempre più alto. Più recentemente, le piramidi di sassi sono state
usate da certi esploratori come memoriali o segnali che si era arrivati fin lì
(magari celandovi all’interno un messaggio in bottiglia). Ma si tratta di
scelte particolari. In genere, l’«ometto» – il cui nome italiano deriva dalla
forma antropomorfa – si limitano ad assolvere l’umile compito di marcatori del
territorio; e non è poco. «Quante volte, per esempio allo sbocco di un
ghiacciaio, mi sono trovato in situazioni in cui il cairn è stato il segnale
che mi riportava alla civiltà...». Parla da guida alpina, Pietro Giglio: «In
tanti anni di frequentazione delle montagne del mondo li ho visti dappertutto,
dall’Himalaya all’Africa, e mi hanno sempre affascinato. Sono un segnavia
funzionale ed elegante, assolutamente ecologico, a "chilometro zero",
economico: altro che le vernici o i cartelli metallici usati per indicare i
sentieri di montagna!». Dalla natìa Valpelline, in effetti, Giglio ha iniziato
una campagna di tutela e di rilancio del simpatico «ometto»: l’anno scorso ci
ha organizzato sopra un convegno con tanto di antropologi e geografi, ed ha
persino promosso il primo monumento mondiale al cairn – che è poi quasi una
tautologia, essendo per l’appunto un cumulo di sassi altro tre metri. «L’ometto
segnavia ha una funzione ancora valida oggi e che potrebbe essere rivisitata,
perché la segnaletica montana moderna non sempre si sposa con l’ambiente.
Valpelline, col suo progetto SlowAlp, è disponibile ad organizzare manifestazioni
per studiarne un’eventuale evoluzione. Del resto, la Val d’Aosta (copiando un
progetto svizzero) già lo fa e ha integrato il cairn nell’ambito della
segnaletica unificata regionale, sia pure irrobustendolo col cemento. Mentre
già nasce una tendenza di escursionismo che – in contrasto con i camminatori
muniti di Gps – vuole reimparare a orientarsi solo grazie ad elementi
naturali». Ometti di tutto il mondo, avete un futuro davanti.
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