Una gita tra
spiriti liberi sul monte Prat.
Viene il
tempo in cui due lupi solitari e amanti delle vette delle montagne, le cosiddette
cime, si riuniscono, per poter commentare, come per voler scrivere un libro di
parole che si perdono nel soffio gelido del vento. Così, con questo spirito
ritrovato di ex giovani temerari, Paolo e io, ci ritroviamo per bissare la
magnifica esperienza nella Val Tramontina. Stavolta la nostra meta è il Monte
Prat e il delizioso Bivacco Tamars. Paolo conosce benissimo le cime del
Pordenonese, tutta la cresta del Cavallo e in toto l’ambiente selvaggio della
Valle Cimoliana, ma ignora molte località della Destra Tagliamento, quindi, eccomi
a fare da novello Cicerone, cercando con la visione di far sognare l’amico. La
fresca giornata invernale è baciata dal sole, e addirittura i raggi caldi di
sua maestà rendono di un dolce tepore l’ambiente. Nella piazzola adibita a
posteggio di una trattoria dell’altopiano lasciamo l’auto, non la chiudiamo
nemmeno, visto e risaputo, che in zona degli autoctoni si dilettano a fare
vandalismo con le auto degli escursionisti. Una volta pronti partiamo con un passo
lento tipico di chi ama lasciarsi inebriare anche dai piccoli particolari.
Paolo è già sedotto dalla località, e siamo solo all’inizio. Gli confido che un
amico che pubblica nel nostro gruppo, Giannino, ha percorso mille volte questa zona
e continua a scovare nuovi sentieri. Pochi metri dopo la località siamo
distratti da un edificio e dal suo portone, effettivamente al suo interno serba
in murale del periodo fascista, la
palazzina è un ex latteria. Continuiamo il passo, stavolta miriamo a conversare
con una signora di mezza età immersa nelle sue attività quotidiane, oggi siamo
loquaci, instauriamo una conversazione tipica dei viandanti curiosi. Il dialogo
è piacevole, e ogni breve lasso di tempo è una finestra sul sapere per noi
affamati della conoscenza. Mentre dialoghiamo (la signora dal suo balcone e noi
dal confine del suo giardino) si avvicina una cagnetta ruffiana di nome
Trottola, che si prende una buona porzione di coccole, mie e di Paolo. Lasciamo
con un mandi la donna, e proseguiamo lungo la strada forestale fino a imboccare
uno sterrato sulla destra che attraverso il rado bosco ci conduce alla casera.
Il tratto è in lieve pendenza, e dopo alcune centinaia di metri un cartello
spartano ci inviata a lasciare il tratturo per prendere un breve sentiero che conduce
alla casetta delle favole. Il bivacco è irreale, da fiaba, per quanto sia
piccolino e munito di tutto ciò che sia utile a un viandante per sognare. Sin
dall’aspetto esterno, con panche, campanelle e oggetti strani, e chi più ne ha più ne metta. Oserei pensare che Walt Disney
si sia ispirato a questa deliziosa casetta per disegnare quella del noto
cartone animato “Biancaneve”. L’interno è ordinato e munito di tutto: cucina a
legna Zoppas, perfettamente funzionante, una cassa che fa da legnaia, tavolo
con comode panche, delle credenze con tutto l’occorrente per passare una
deliziosa serata, e tramite una scaletta si accede al piano notte, ideale per
ospitare una coppia che ha voglia di sognare. Noi accediamo un fuocherello
attivando la cucina, nel frattempo che la legna prenda, ci dedichiamo a una
piacevole esplorazione, intervallando la pausa con un buon infuso bollente al
gusto di frutti di bosco. Iniziando una piacevole conversazione, viene fame, e
stavolta niente trattoria, si ritorna all’antico, riversando sul tavolo tutte
le letizie alimentari trasportate nei nostri zainetti. Panini alla mortadella e
al salame, birra, mandaranci, clementine, e Pocket Coffee come caffè. Durante il
pranzo rimembriamo le cime fatte in passato e altro ancora. Mi diletto (mentre
ascolto l’amico) a disegnare su un blocco schizzi che porto al seguito, l’ora
del pasto passa deliziosamente, finché giunge il momento di lasciare la casetta
delle fiabe. Diamo un’ordinata al locale, ripristiniamo la legna consumata e un’ovvia spazzata
per terra. Una volta che ci siamo assicurati che la brace non dà segni di vita,
lasciamo il riparo, con un piccolo magone, simile a quello che si prova quando
bisogna lasciare qualcosa che ci ha fatto stare bene. Il tempo trascorso
assieme dovrebbe definirsi concluso, ma la magnifica giornata invita i nostri
passi ad ammirare il paesaggio circostante, con l’inconfondibile mole del Monte
Cuar. Si va a prendere un caffè nella trattoria antistante lo spiazzo dove
abbiamo lasciato l’auto. La locanda, pare chiusa, ma non lo è, entriamo e siamo
avvolti da un eccellente odore di cibo e attratti dalla mobilia che sa di
Friuli antico. Conversiamo con l’ostessa, prenotando un pranzo di gruppo a base
di cucina friulana. Una volta in auto, dovremmo ritornare all’ovile, ma ho
voglia di far vedere a Paolo gli stavoli di Ledrania di Cornino, e il famoso
specchio di Narcisio. Percorrendo in auto la stretta carrozzabile, e perdendo costantemente
quota, ci abbassiamo sul versante orientale, e in pochi minuti raggiungiamo gli
stavoli sopra citati. Lasciamo l’auto sul bordo della strada, mentre degli
operai stanno lavorando all’interno del piccolo gruppo di stavoli. Mentre ci
aggiriamo tra i deliziosi edifici di memoria montana, riconosco uno dei due operai
che in azione, è il padre di una nostra conoscenza montana, Marina. L’ho chiamiamo,
e mentre salutiamo nel frattempo spunta il fratello. Anche questo incontro sa di fiaba, e vado a
descriverlo. Il primo potente impatto è la loro carica di energia, hanno
superato da tempo i settanta anni, ma sembrano due folletti, con un sorriso
stampato sul volto e un’energia tale da alimentare tutte le lampadine di una
città come Udine. Ti coinvolgono, con il loro sapere, e più li ascolti e più chiedi, e loro
gentilmente rispondono, alimentando la conversazione, come un caminetto dove il
tiraggio del cammino è potente e arde di
legna di faggio lasciata essiccare più anni. I due fratelli, Enrico, il babbo
di Marina e lo zio Alido, sono due vulcani in continua eruzione. La loro
energia è manifesta nella piccola frazione, stanno restaurando di tutto e di
più, e solo con la loro passione. Pozzi, abitazioni, fosse, stavoli e stalle.
Nei loro racconti emerge l’antica civiltà montanara, i sacrifici degli uomini
di un tempo, specie le donne, come la loro mamma Elvira, che nella gerla, la
nota cesta in legno, trasportava più volte al giorno, provenendo da Somp
Cornino: figli, galline, legna e cibarie. La povera donna accumulava tanto
dislivello da fare invidia alle portatrici carniche.
I due simpatici
amici sono in abbigliamento libero e di lavoro, quasi se ne vergognano, non
sapendo che noi li ammiriamo, sia per la fantasia che per la rarità della loro
magnifica personalità. Tante storie vengono fuori dalla memoria, e in una
mezzora abbiamo riempito un volume, come quella dell’astuta volpe che in un
solo giorno rubò loro ben due galline, e fu inutile inseguirla. Lasciamo a
malincuore la simpatica compagnia, e prima di rientrare conduco Paolo al bel
belvedere che è posto poco sotto la località, e si aggetta sul versante
orientale del monte Prat, proprio sopra il lago di Cornino. I raggi argentati
del Tagliamento catturano lo sguardo dell’amico, mentre il sole si appresta a
tramontare oltre le cime del Cavallo. Stavolta rientriamo sul serio, e durante
il tragitto del ritorno abbiamo modo, colmi di beatitudine, di commentare la
recente e ancora viva esperienza. È stato un bel giorno, passato con amicizia e
nella serenità della natura e del genere umano.
Malfa.
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