Monte Pelf 2502 m.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Dolomiti - Dolomiti - Alpi
Dolomitiche - Gruppo Vette
Feltrine
Avvicinamento: Longarone-
frazione di Faè- indicazioni per la carrozzabile per Casera Cajada (q. 1157m)
Punto di Partenza Casera Cajada
(q. 1157m)
Dislivello:
1350 m.
Dislivello
complessivo: 1400 m.
Distanza
percorsa in Km: 14 m.
Quota minima
partenza: 1157 m.
Quota
massima raggiunta: 2502 m.
Tipologia di
escursione: Selvaggio.
In:
Solitaria.
Difficoltà: EE - A - I+ - F+. Escursionisti Esperti, passaggi di primo grado
superiore: poco prima la cima una paretina di 20 metri esposta.
Segnavia: CAI
505; 511: Bolli rossi sbiaditi, radi ometti.
Tempo
percorrenza totale: 7 ore.
Fonti
d’acqua: Nessuna.
Attrezzature:
Nessuna.
Cartografia
consigliata. Tabacco 024-025.
Periodo
consigliato: giugno-ottobre
Condizioni
del sentiero: Ben segnato e mercato fino il bivio per il 511, dopo si prosegue
con difficoltà alla ricerca dei segni.
Data: 27
agosto 2016.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa.
Relazione.
Monte Pelf 2502 m.
Molte delle mie
escursioni nascono per caso, senza una logica ben precisa, questo spiega il
loro variegare nel territorio, dall’
Austria alla Slovenia, dal Friuli al Veneto, questo girovagare mi fa conoscere
luoghi nuovi, ampliando di escursione in escursione la mia conoscenza e il
desiderio di libertà. Monte Pelf ben
rappresenta le caratteristiche appena descritte. Da tempo sul tavolo di lavoro
tenevo una copia della rivista “Meridiani Montagna” dedicata alle Dolomiti Bellunesi.
Per caso in settimana ho sfogliato le pagine, soffermandomi sul massiccio “La
Schiara – Pelf”, che domina dall’alto Belluno fino a Longarone. Mi ha colpito
molto, anche perché associo la città di Belluno e la montagna “La Schiara” allo
scrittore, artista e giornalista Dino Buzzati, artefice di alcuni scritti tra i
più belli sulla montagna, e autore del famoso libro “Il deserto dei Tartari. Durante
la settimana mi dedico allo studio, mappe in mano, relazioni, ecc. ecc. Il
massiccio La schiara-Pelf non sono di facile avvicinamento, molti escursionisti
consigliano di dormire al rifugio “7° Alpini”, escludo subito questa ipotesi,
sono per natura uno stacanovista. Il mio dubbio è se effettuare entrambe le
cime in giornata o una alla volta, in più riprese. Studio l’ipotesi di farle
insieme, naturalmente una volta sul posto, valuterò l’evolversi dell’escursione.
Quella più plausibile è di partire dalla Casera Cajada (q. 1157 m.)
raggiungibile dalla frazione Fae, presso Fortogna, a pochi chilometri da
Longarone. Sveglia prima del solito, alle 03:30 sono giù dal letto, colazione e
riflessioni, mi appronto per l’escursione. Non sono ancora le 04:30 che guido
in una notte illuminata dalle stelle.
Incontro numerosi banchi di nebbia a Barcis e nella valle del Vajont,
tutto questo crea un’atmosfera surreale, le belle anime dormono sogni profondi
e gli spiriti liberi percorrono le strade con cavalli di metallo.
Attraversare la
valle del Vajont fa sempre pensare, la galleria dopo la diga mi ricorda
l’immane tragedia di 53 anni fa. Superato Longarone, cerco la piccola frazione
di Feu, di non facile individuazione, con l’aiuto della mappa individuo la
carrareccia che dalla frazione appena citata con una serie di tornanti risale
il ripido costone boschivo del Col de la Sperlonga, aggettante sulla val
Desedan. Molti cartelli scritti a mano mi invitano a moderare la velocità e
suonare il clacson; effettivamente la stradina aerea taglia il fianco del monte
con alcuni passaggi davvero arditi. Finito il tratto asfaltato la strada forestale
si inoltra nel bosco, superando un prato con stavoli (casera Cajada) e continua
per un centinaio di metri fino a raggiungere una radura attrezzata con tavoli,
panche in legno e ampio parcheggio. Tutto intorno è un fitto bosco. Zaino in
spalle e sogni al seguito inizio l’avventura. Ancora non ho ben deciso l’itinerario
definitivo, questo mi costa un peso maggiore dello zaino, approntato per la
ferrata. Una tabella CAI posta al bivio tra due piste mi invita a seguire
l’itinerario a destra per andare al rifugio del 7° Alpini, numerato 505. Per
moderata pendenza seguo il sentiero adombrato da un fitto bosco di pini
silvestri e abeti rossi. la pendenza è costante, dalle fronde cerco di
individuare i profili dei monti. La sterrata lascia il passo a una mulattiera che
risale il fianco boschivo. Le prime guglie dolomitiche fanno la loro apparizione
alla mia destra, mi fermo spesso ad ammirarle, sono rapito dalla bellezza dei
loro profili. Dentro di me balena l’idea di mettere da parte la ferrata per “La
Schiara” e dedicarmi al monte Pelf, così rallento il passo per potermi godere
queste meraviglie. Il sentiero 505 assume ora un aspetto selvaggio, è ben
segnato, e la traccia fin ora è ben marcata, ma il paesaggio è stupendamente impervio.
Le cime di Cajada alla mia destra catturano la mia fantasia, sembrano castelli da
fiaba, le disegno, fantasticando mi ci arrampico, le amo, ne rimango stupito. È
spiacevole procedere, non fermarsi ad ammirare questo sogno. Proseguo, mi consolo
all’idea che il bello deve ancora venire. Raggiunti i ruderi della Casera
Caneva, supero un secco impluvio, subito dopo è posto un cartello CAI con le
indicazioni a destra per la forcella col Torond. Procedo a sinistra per il 505,
entrando per pochi metri nel bosco, per poi uscire allo scoperto risalendo un
ripido pendio tra radi larici. L’attenzione è rapita dalla bianca e portentosa
parete del Sass del Mel, una cattedrale di roccia che si erge in questo
paradiso, come un gigante monolito da adorare. Fa molto caldo, la fatica si fa
sentire, causa anche lo zaino pesante. A metà pendio ricevo la gradita visita
di un camoscio solitario, mi passa davanti, per poi soffermarsi in una lunga
osservazione, gli ricambio la cortesia accompagnandola con un reportage
fotografico. Ripreso il cammino penso che per essere solo all’inizio dell’escursione
è già un bel programma. La traccia si inerpica nello stretto canalone posto tra
le pareti meridionali del Sass del Mel e quelle settentrionali della cima
Tanzon. I segni CAI mi aiutano a superare i passaggi più ostici, non è
difficile, solo qualche salto da effettuarsi con l’aiuto delle mani. In alto
scorgo l’inerbita forcella Caneva (quota 1849 m.) che raggiungo, concedendomi
un attimo di pausa. Splendida visione sul versante occidentale, dove spiccano
le dolomiti a sud della “La Schiara”. Il sentiero solca il manto erboso, abbassandosi
di quota di una cinquantina di metri, fino al greto di un impluvio. Qui trovo
una tabella arrugginita con le indicazioni per il rifugio 7° alpini, a destra
una debole traccia che prosegue a meridione. Intuisco che è il sentiero 511,
che porta sulla cima del Pelf. Porta? È
d’obbligo usare il condizionale, mi porterebbe per l’esattezza, perché da
questo bivio inizia un bellissimo sentiero selvaggio. Sin dai primi metri
bisogna abbandonare l’idea di essere presi per mano e condotti. Bisogna tirare fuori
lo spirito libero, avventuroso, cosa c’è di più bello? l’autostima te la fai
quando vai da solo se ti orienti da solo, farsi condurre non è da spirito
libero. Due ometti ti dicono, vieni figliolo, poi tutto scompare, aguzzo la
vista e mi lascio guidare dall’istinto. Dopo essermi arrampicato sul costone
ritrovo la traccia e alcuni ometti. Già, “ometti”, ho esagerato a chiamarli ometti,
quando il più corposo di loro è composto da tre sassi e di piccole dimensioni,
li chiamerei” sassi” o mini nucleo. Stento
a capire se sono indicazioni o combinazioni fortuite. Per fortuna la giornata è
lunga, così ho tutto il tempo che voglio e poi la mia meta è lassù. Con qualche
difficoltà individuo la traccia che mi porta per ghiaie sotto le pareti dirupate
del Sass del Mel. In alto, non lontano scorgo i verdi prati, ripidissimi, la
cima non è in vista, occultata dall’anticima. Aggirando un tratto roccioso con
grandi macigni mi ritrovo alla base del ripido pendio, devo solo mirare alla
cresta sommitale, le tracce mi aiutano soprattutto in salita, trovando i punti
di maggiore progressione. Il panorama è fantastico, mi cattura, ogni due passi scatto
una foto. La labile traccia aggira alcuni affioramenti rocciosi, il caldo afoso
si fa sentire. Un branco di camosci attraversa il pendio, è uno spettacolo. Ben
presto raggiungo l’affilata cresta esposta a settentrione sugli impressionanti
dirupi del circo del Fontanon. Il sentierino sembra una corda da funambolo
sospesa tra il vuoto e i verdi prati a meridione. La paura del vuoto contrasta
con la curiosità, percorro la cresta fino a raggiungere tra gradoni di dolomia la
parete poco sotto l’anticima. Tutto intorno è un fiorire di stelle alpine, mai
viste così tante. Un vero paradiso, la cima ancora non è a vista, percorro l’anticima
fino a raggiungere l’affilata selletta che mi porta ad un impervio salto. Una
parete verticale mi sbarra il passo, mi avvicino studiando l’ostacolo. Un grosso
masso con segni rossi sbiaditi precede la parete, che appare a primo acchito insuperabile.
Il primo pensiero è di rientrare, abbandonando l’impresa, il secondo pensiero mi stimola a ragionarci su. Rifletto! La
prima decisione è di lasciare lo zaino sulla forcella e procedere con la mini
sacca, così evito di portarmi peso che potrebbe sbilanciarmi nella salita. Analizzo la parete, alta 20 metri circa, con
passaggi di primo grado e primo grado superiore. Un bollo rosso, sbiadito, posto
a settentrione mi invita a risalire, ma se scivolo da lì è finita, sotto ci
sono almeno 700 metri di vuoto; a meridione è pur sempre esposta, ma ho solo un
canalone sotto, con dell’infido ghiaino. Tasto la roccia e decido di salirla
per gradoni nella parte centrale, dopo pochi metri di arrampicata scopro di
aver dimenticato nello zaino la reflex, bene, ridiscendo. Presa la reflex, la
metto al collo e risalgo, portandomi dal centro a sinistra su un esile cengia, noto
anche dei bolli bianchi, evidentemente mi trovo sulla strada giusta. Con passaggi
di primo grado raggiungo la sommità dell’ostacolo, dove un bel ometto sembra
dirmi: <<Eh bravo! C’è l’hai fatta, ora ti voglio vedere al
ritorno!>>, Penso che questo è l’unico ometto che merita tale titolo “nobiliare”,
bello corposo, più che un indicatore, sembra un provocatore. Da sotto mi
sfidava; << Se sei bravo, raggiungimi!>> Trovatomi sulla bella
cresta finale mi appresto a conquistare la cima. Ancora pochi metri e avvisto i
resti di quello che fu una croce di vetta, stroncata da un maramaldo fulmine a
dir poco blasfemo. La vista sulle dolomiti è straordinaria, una nuvola gioca
con il Pelmo, con il teleobiettivo della reflex osservo la vicina “La Schiara”,
noto un escursionista intento a leggere il libro di vetta, un altro spirito
solitario? Tutto intorno è l’azzurro, che domina il paesaggio, solo poche
nuvole, ma che nascono dal basso, sicuramente dovute allo sbalzo termico delle
ore più calde. Una strana cassetta in legno è posta vicino l’ex croce, come una
matrioska ne contiene un’altra in metallo, mi aspetto di trovarci il libro di
vetta. Anche quello incenerito dal fulmine di prima? Solo fogli raccolti dentro
una busta di plastica. La bellissima cima è spartana, come dovrebbero essere le
vette dolomitiche. Guardo il prosieguo della cresta, si intravvedono
camminamenti esposti, e La Schiara è a tre ore di cammino, sarà per un’altra
volta. Mi godo l’attimo, l’intenso attimo di libertà, sprigionando i miei sogni
e portando nel mio cuore chi ama questi luoghi, donando a loro la mia vista. Il
tempo trascorso in cima è volato, mi appronto al rientro, mi aspetta il “simpatico
ometto” e la parete con passaggi alpinistici in discesa. Raggiunto il punto cruciale, scendo con calma,
sapendo bene che la fretta non gioca a mio favore. Arrivato a metà parete noto
sulla cengia dopo l’anticima due escursionisti incuriositi dalla mia discesa,
penso tra me:<< Se volo giù, avrò due spettatori;>> raggiungo con
gli ultimi passaggi sulla roccia la forcella. Il più è fatto, mi avvicino ai
due escursionisti, hanno al seguito un simpatico cagnetto, fraternizzo. Il loro
aspetto è molto punk: petto nudo, pantaloncini, un mini zaino in due, taglio
capelli modello cherokee, tatuaggi a gogò, e naturalmente orecchini di ogni
forgia. I due baldi amici hanno certamente non sono assidui frequentatori di
oratorio. Leggo eccellenti sentimenti dentro il loro spirito, due novelli “Castore
e Polluce o Achille e Patroclo”. Incontrare gente così in montagna mi riempie
il cuore. La loro meta è la cima del Pelf, ma non se la sentono di salire da
dove sono sceso. Nel salutarci, scopro che sono due milanisti, li accompagno
nell’impresa sventolando la maglietta dell’Inter, con ovvio scambio di
simpatiche battute. Osservando il loro procedere ne approfitto per fare una
breve sosta e mettere qualcosa nello stomaco. Sento il loro vociare, il
muoversi delle ghiaie, ma non li vedo, non capisco!
Di colpo spuntano,
arrampicandosi come camosci sulla parete meridionale del Pelf, scelta originale,
in breve raggiungono la cima. Provo una sana invidia, rappresentano l’essenza
dello spirito libero, nessuna regola, solo libertà. Con un cenno della mano ci
salutiamo, non ci siamo nemmeno presentati. Con la loro immagine giocosa
impressa nella mente lascio l’anticima per il rientro. Per ripido pendio,
intraprendo la discesa, dall’alto si domina tutto, farei un tuffo nell’erba per
accorciare il percorso, ma non si può. Scendo, ammiro, fotografo: roccia,
verde, azzurro, fiori, un’esplosione di colori. In basso, incontro un gruppo in
salita (tre uomini e una donna), procedono verso il Pelf, spiego loro il passaggio
più difficile, penso che sono partiti un po’ tardi per l’escursione, ma la
libertà è anche questa. Lungo il canalone, sento il crepitio dei sassi, mi
volto indietro, un escursionista solitario è in discesa, nel frattempo su una
roccia noto un Tampax tenuto fermo da due sassi, stamattina non c’era, i
camosci di ultima generazione sono proprio screanzati! Non ci sono più i
camosci di una volta. Il solitario escursionista mi raggiunge, un ragazzo
vicentino, che dopo la levataccia ha affrontato questa escursione, con tre ore
e passa di auto per arrivare al punto di partenza. Come non ammirarlo! Si
conversa insieme per l’ultimo tratto dell’escursione, variando gli argomenti, una
volta arrivati ci diamo appuntamento per un'altra cima. Poco dopo Castore, Polluce
e cagnetto rientrano sani e salvi, ero in pensiero per loro. Il tragitto del
ritorno come sempre è dolce, la fiacca dovuta all’escursione è pericolosa, sto
attento lungo la strada. La stanchezza accompagnata dalla soddisfazione spesso rasenta
l’estasi, la beatitudine. Passando per Longarone, risalgo per Erto, un rombare
di moto accompagna il mio passaggio nella galleria. Tanta gente visita la
nefasta diga, interi nuclei familiari. La valle del Vajont è festante, e così
anche la valle del Cellino, tanti bagnanti sulla riva del torrente, una festa,
un tripudio di colori. Rientro nella pianura friulana portando il ricordo di un
amore appena conquistato.
Il vostro
“Forestiero Nomade”
Malfa.
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