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mercoledì 10 agosto 2016

Monte Pianina 2019 m.

 
                               Monte Pianina 2019 m.

                                      Note tecniche.

Localizzazione: Dolomiti - Prealpi - Prealpi Venete - Gruppo Col Nudo Cavallo

Avvicinamento: Montereale-Barcis-Val Pentina-  punto partenza difronte la zona adibita a picnic guadando il torrente tramite piccolo ponte. Cartello CAI.

Punto di Partenza: Di fronte la zona adibita a picnic

Dislivello: 1500 m.

Dislivello complessivo: 1547 m.

Distanza percorsa in Km: 10,8 km.

Quota minima partenza: 540 m.

Quota massima raggiunta: 2019 m.

Difficoltà: Escursionisti Esperti.

Segnavia: CAI 972- Bolli e segni dell’Alta Via n° 7

Tempo percorrenza totale: 7 ore.

Fonti d’acqua: Solo alla partenza e nel tratto iniziale un torrente.

Attrezzature: Nessuna

Cartografia consigliata. Tabacco 012.

Periodo consigliato: maggio-ottobre

Condizioni del sentiero: Ben segnato, non marcato.

Data: venerdì 29 luglio 2016

 

 
Relazione.

 L’escursione sul monte Pianina è stata sorprendentemente dura e faticosa, nella mappa avevo letto che è lunga, ma relativamente facile, evidentemente l’ho sottovalutata. È stata un’autentica via crucis per piedi e ginocchia. Questa uscita l’avevo da tempo in cantiere, desideravo silenzio e spazi immensi, difficile trovare bipedi su questo versante. Partenza come sempre alle prime ore del mattino, direzione lago di Barcis. Viaggio a velocità moderata, mi aiuta a capire chi sono, da dove vengo e dove vado. Le solite domande esistenzialiste a cui mi sottopongo da anni! Arrivato nei pressi del lago di Barcis seguo le indicazioni per Piancavallo, percorrendo un ponticello ardito che vola sul lago e supera la diga attraverso una galleria. Così mi ritrovo sul versante opposto del lago, alle pendici del Ciastelat, proseguendo verso Val Pentina. la carrozzabile si inoltra nella valle costeggiando il torrente Pentina. Nei pressi di uno spiazzo adibito per i picnic svolto a destra passando su un ponticello che mi collega sulla sponda opposta del torrente, da dove risalgo a sinistra per alcuni metri fino a un cartello che segnala divieto di transito. Poco prima è posto un cartello CAI con indicazione per il sentiero 972 e piccola piazzola per l’auto.  Zaino in spalle e sogni al seguito si parte. Seguo le indicazioni del cartello, guado il torrente asciutto fino a trovare degli ometti, Il sentiero è intuitivo: costeggiando il piccolo torrente si inoltra nella valle guadando a più riprese il rio. Nei primi metri a causa dell’erba alta e la vegetazione fitta ho l’impressione di essere Indiana Jones, non mi resta che proseguire alla ricerca “dell’arca perduta”. Illuso vado avanti immaginando un lunghissimo sentiero che dolcemente mi porta in cima.  Cascate d’acqua e ruscelli come un’orchestra riempiono di suoni armonici la piccola valle, è un “eden”. Ben presto giungo sotto le ripide pareti del monte Angelo, un ultimo guado mi porta sulla sponda sinistra del torrente dove inizia il tratto più impegnativo dell’escursione. Il sentiero 972 accompagnato da segni CAI risale il ripido costone boschivo, senza darmi sosta, spesso osservo tra le fronde per trovare luce, qualche raggio di sole che mi illuda che l’azzurro sia vicino. Niente, l’ombroso bosco di faggi sembra interminabile, la mente è assorta da mille pensieri. Finalmente i raggi del sole filtrano la boscaglia, esco allo scoperto in un ampio catino popolato da mughi. Una pia illusione di aver finito le fatiche, osservo le cime circostanti, non riesco a intuire nulla, solo il sentiero che tracciato tra i rovi effettua una piccola ansa risalendo per zolle l’erto pendio. I colori del paesaggio sono meravigliosi, il verde smeraldo della vegetazione contrasta con il bianco scintillante delle rocce. Punto al vertice seguendo i radi segni. Passare tra i mughi è una sofferenza, come rosolarsi dentro il microonde.  Il ripido sentiero mira alla base di un costone roccioso, seicento metri di sentiero ripido tra le ghiaie e balze erbose cercando i radi segni o qualche sparuto ometto. Questo tratto mi ricorda le sofferenze che pativano i pellegrini per espiare le pene, manca solo che indosso il cilicio e che mi cospargo il capo di ceneri. Il caro amico Andrè mi ha consigliato una forma più hard, ovvero salire in ginocchio, non era un’idea cattiva. Sembra a tratti un gioco dell’indovino, indovina dove ho nascosto il segno? Nessuna traccia da seguire, si sale puntando ai bastioni nord occidentali del Sestier. Gli ultimi segni mi avvisano che la pendenza si fa più dolce, quasi in piano. Il manto erboso cede il passo ad un teatro di massi di grandi dimensioni (macereto) da attraversare con attenzione mirando allo spigolo Nord -Ovest di uno sperone roccioso.  Il percorso è divertente, bisogna fare attenzione a incastrare lo scarpone con l’annesso piede tra i massi. Superato l’ennesimo ostacolo il sentiero lambisce le pareti dello sperone roccioso, erroneamente vengo ingannato da una falsa traccia. Ravvedendomi dopo che mi ero arrampicato, dall’alto scorgo un paletto e qualcosa che somiglia ad una traccia, in diagonale mirando all’obbiettivo la interseco, trovata! Devo stare attento, l’erba alta e lo stato di abbandono del terreno giocano brutti scherzi.  Un altro macereto popolato da sassi mi attende, lo aggiro risalendo il pendio erboso sul fianco sinistro, i segni sono occultati dalla vegetazione, e questo mi fa perdere tanto tempo. Nel frattempo il sopraggiungere di nuvoloni grigi mi avverte che sto superando il limite di tempo a disposizione concesso, consigliandomi di affrettare l’ascesa alla forcella di Piana.  Alcuni squarci di azzurro nella nebbia mi mostrano il monte Muri, che era l’obiettivo principale. La stanchezza e il meteo mi fanno desistere all’idea, passando al piano B, ovvero monte Pianina. Risalgo per il faticoso ghiaione, avvistando un camoscio curioso, mi guarda come a dire:<< Poveretto, ma non sa che questo è un posto per camosci e monaci pellegrini? >> Risalgo la base della lunga parete rocciosa, gli ultimi metri misti a balze erbose sono i più faticosi. Arrivo sull’esposta e ventosa forcella, sgancio lo zaino e con voracità mi butto sulla borsa viveri, facendo una strage del contenuto.  Le nuvole (birichine) avvolgono a sprazzi i profili dei monti. Decido nello stile Malfa di lasciare lo zaino alla forcella, estraendo da esso la mini sacca e portando con me lo stretto necessario. Devo averlo imparato dagli astronauti dell’”Apollo Undici”, che prima di allunare sganciarono il modulo lunare dal razzo, sicuramente molto più leggero per ammarare sulla Luna. Lo so! Sto fantasticando, evidentemente sono a corto di ossigeno ma no di fantasia. Dopo aver fagocitato la scorta viveri parto per la cima, che non è molto distante, avverto una sensazione di leggerezza, passare da nove chilogrammi di zaino a pochi grammi di sacca non è poco. Il paesaggio che mi si posta davanti è fantastico, seguo l’esile traccia risalendo la cresta esposta. Noto una doppia serie di segni differenti, quelli CAI e quelli dell’Alta Via numero sette (colore azzurro). Adoro camminare sul filo di cresta, ai margini del versante dirupato, adoro le creste perché percorro due mondi opposti come un funambolo. Notte e giorno, vita e morte, racchiudono per alcuni aspetti il senso della vita. Risalgo la cresta attraverso un tratto dove la roccia è frantumata in mille scaglie ed esposta a occidente. Mi perdo in questo mare dolomitico, per poi fare ritorno sul versante inerbito da mughi. Cavalco la cresta, da essa scorgo l’anticima e la cima in sequenza. Raggiunta la vetta con lo sguardo proseguo a meridione, ammirando per quanto le nuvole mi lasciano intravedere l’affilata cresta del monte Sestier.  Le nuvole continuano a giocare, non ho paura, anzi ne sono affascinato! Percepisco una sensazione severa, il mondo degli umani è lontano, con le sue falsità, le apparenze, i pregiudizi. Quassù non ci sono “opportunisti Topo Gigi”, mi sento libero su questa cima, sconosciuta alla massa. Nessun libro di vetta, ne croci, ne simboli, solo un cumulo di sassi che tra la nebbia scompare come avvolto da un sogno. In fondo l’escursionista solitario è un eremita, un asociale per antonomasia che mal sopporta il genere umano, che ama confrontarsi solo con la natura. Egli chiede consiglio solo ai suoi scarponi, alla vista, all’orientamento, all’intuito. Sarò ripetitivo ma è così, da soli si moltiplica tutto: gioie, dolori, vittorie, sconfitte. Se in discesa dovessi inciampare volando nel vuoto, sicuramente morirei da solo, senza il conforto di nessuno, nemmeno del mio cane, nessuno con cui dividere le ferite e gli ultimi istanti di luce, nessuno. Si nasce soli, si muore soli e si vive da soli, malgrado qualcuno tema questo e cerchi di drogarsi con le false compagnie. La montagna in solitaria porta alla meditazione, ad un’acuta riflessione. Paradossalmente nella società posso apparire loquace, un buffone di corte, ma è solo un timido modo per non denudarmi. Da solo incontro la morte e riconosco la sua gelida mano, per questo non capisco gli esseri umani che tradiscono gli amici, che sono razzisti, cattivi, invidiosi, che non si rendono conto che fanno schifo pure alla morte stessa. Così disgustosi che ella li fa vivere più a lungo possibile per punirli, unendoli in compagnia dei loro simili.  È giunta l’ora del rientro, sono sereno, non ho paura, anzi, mi sento solo triste perché rientro nella civiltà, tra i pagliacci, i simulatori, gli imitatori da quattro soldi. Recuperato lo zaino ridiscendo ripercorrendo i millecinquecento metri di dislivello. Che delizia! Metro per metro, filo d’erba per filo d’erba, ciottolo per ciottolo, mi conforta la visione dei numerosi camosci. Arrivo al bosco avendo quasi esaurito la scorta d’acqua, sorseggio l’ultima goccia della borraccia, cosa c’è di più essenziale dell’acqua? Essa è vita! Cerco di pensare ad altro per non sentire la sete. Scendo per il ripido spallone, essendo un po’ sordo udirò in ritardo lo scroscio del torrente. Di tanto in tanto mi fermo sperando di udirne il suono, scendo ancora di molti metri. Si! Ora ascolto chiaramente la dolce musica, percepisco il torrente sottostante.  Ultimi metri tra i faggi e scorgo il rio, odo le sue acque fragorose che rinfrescano l’ambiente e mi deliziano. Guado il ruscello e sgancio lo zaino, mi avvicino alle umide pietre dove zampilla l’acqua munito di borraccia, la riempio fino all’orlo, bevendone immediatamente la metà. Buona, fresca, che sensazione di appagamento, felicità. Riempio anche il Camel back e riprendo il cammino.  Indiana Jones rientra dall’impresa, avendo conquistato l’arca, dove ha trovato risposte ai suoi quesiti. Oggi è stata dura, un viaggio lungo come una catarsi, ma mi sento libero, appagato. La montagna sconosciuta e meno appariscente mi ha donato serenità.

 Il vostro “Forestiero Nomade”

Malfa.























































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