Monte Pianina
2019 m.
Note
tecniche.
Avvicinamento:
Montereale-Barcis-Val Pentina- punto
partenza difronte la zona adibita a picnic guadando il torrente tramite piccolo
ponte. Cartello CAI.
Punto di Partenza:
Di fronte la zona adibita a picnic
Dislivello:
1500 m.
Dislivello
complessivo: 1547 m.
Distanza
percorsa in Km: 10,8 km.
Quota minima
partenza: 540 m.
Quota
massima raggiunta: 2019 m.
Difficoltà: Escursionisti
Esperti.
Segnavia: CAI
972- Bolli e segni dell’Alta Via n° 7
Tempo
percorrenza totale: 7 ore.
Fonti
d’acqua: Solo alla partenza e nel tratto iniziale un torrente.
Attrezzature:
Nessuna
Cartografia
consigliata. Tabacco 012.
Periodo
consigliato: maggio-ottobre
Condizioni
del sentiero: Ben segnato, non marcato.
Data: venerdì
29 luglio 2016
Relazione.
L’escursione sul monte Pianina è stata sorprendentemente
dura e faticosa, nella mappa avevo letto che è lunga, ma relativamente facile, evidentemente
l’ho sottovalutata. È stata un’autentica via crucis per piedi e ginocchia.
Questa uscita l’avevo da tempo in cantiere, desideravo silenzio e spazi immensi,
difficile trovare bipedi su questo versante. Partenza come sempre alle prime
ore del mattino, direzione lago di Barcis. Viaggio a velocità moderata, mi
aiuta a capire chi sono, da dove vengo e dove vado. Le solite domande
esistenzialiste a cui mi sottopongo da anni! Arrivato nei pressi del lago di Barcis
seguo le indicazioni per Piancavallo, percorrendo un ponticello ardito che vola
sul lago e supera la diga attraverso una galleria. Così mi ritrovo sul versante
opposto del lago, alle pendici del Ciastelat, proseguendo verso Val Pentina. la
carrozzabile si inoltra nella valle costeggiando il torrente Pentina. Nei
pressi di uno spiazzo adibito per i picnic svolto a destra passando su un
ponticello che mi collega sulla sponda opposta del torrente, da dove risalgo a
sinistra per alcuni metri fino a un cartello che segnala divieto di transito. Poco
prima è posto un cartello CAI con indicazione per il sentiero 972 e piccola
piazzola per l’auto. Zaino in spalle e
sogni al seguito si parte. Seguo le indicazioni del cartello, guado il torrente
asciutto fino a trovare degli ometti, Il sentiero è intuitivo: costeggiando il
piccolo torrente si inoltra nella valle guadando a più riprese il rio. Nei
primi metri a causa dell’erba alta e la vegetazione fitta ho l’impressione di
essere Indiana Jones, non mi resta che proseguire alla ricerca “dell’arca
perduta”. Illuso vado avanti immaginando un lunghissimo sentiero che dolcemente
mi porta in cima. Cascate d’acqua e
ruscelli come un’orchestra riempiono di suoni armonici la piccola valle, è un “eden”.
Ben presto giungo sotto le ripide pareti del monte Angelo, un ultimo guado mi
porta sulla sponda sinistra del torrente dove inizia il tratto più impegnativo
dell’escursione. Il sentiero 972 accompagnato da segni CAI risale il ripido costone
boschivo, senza darmi sosta, spesso osservo tra le fronde per trovare luce,
qualche raggio di sole che mi illuda che l’azzurro sia vicino. Niente,
l’ombroso bosco di faggi sembra interminabile, la mente è assorta da mille
pensieri. Finalmente i raggi del sole filtrano la boscaglia, esco allo scoperto
in un ampio catino popolato da mughi. Una pia illusione di aver finito le
fatiche, osservo le cime circostanti, non riesco a intuire nulla, solo il
sentiero che tracciato tra i rovi effettua una piccola ansa risalendo per zolle
l’erto pendio. I colori del paesaggio sono meravigliosi, il verde smeraldo
della vegetazione contrasta con il bianco scintillante delle rocce. Punto al
vertice seguendo i radi segni. Passare tra i mughi è una sofferenza, come
rosolarsi dentro il microonde. Il ripido
sentiero mira alla base di un costone roccioso, seicento metri di sentiero
ripido tra le ghiaie e balze erbose cercando i radi segni o qualche sparuto
ometto. Questo tratto mi ricorda le sofferenze che pativano i pellegrini per
espiare le pene, manca solo che indosso il cilicio e che mi cospargo il capo di
ceneri. Il caro amico Andrè mi ha consigliato una forma più hard, ovvero salire
in ginocchio, non era un’idea cattiva. Sembra a tratti un gioco dell’indovino,
indovina dove ho nascosto il segno? Nessuna traccia da seguire, si sale puntando
ai bastioni nord occidentali del Sestier. Gli ultimi segni mi avvisano che la
pendenza si fa più dolce, quasi in piano. Il manto erboso cede il passo ad un
teatro di massi di grandi dimensioni (macereto) da attraversare con attenzione mirando
allo spigolo Nord -Ovest di uno sperone roccioso. Il percorso è divertente, bisogna fare
attenzione a incastrare lo scarpone con l’annesso piede tra i massi. Superato
l’ennesimo ostacolo il sentiero lambisce le pareti dello sperone roccioso,
erroneamente vengo ingannato da una falsa traccia. Ravvedendomi dopo che mi ero
arrampicato, dall’alto scorgo un paletto e qualcosa che somiglia ad una
traccia, in diagonale mirando all’obbiettivo la interseco, trovata! Devo stare
attento, l’erba alta e lo stato di abbandono del terreno giocano brutti
scherzi. Un altro macereto popolato da
sassi mi attende, lo aggiro risalendo il pendio erboso sul fianco sinistro, i
segni sono occultati dalla vegetazione, e questo mi fa perdere tanto tempo. Nel
frattempo il sopraggiungere di nuvoloni grigi mi avverte che sto superando il
limite di tempo a disposizione concesso, consigliandomi di affrettare l’ascesa
alla forcella di Piana. Alcuni squarci di
azzurro nella nebbia mi mostrano il monte Muri, che era l’obiettivo principale.
La stanchezza e il meteo mi fanno desistere all’idea, passando al piano B,
ovvero monte Pianina. Risalgo per il faticoso ghiaione, avvistando un camoscio
curioso, mi guarda come a dire:<< Poveretto, ma non sa che questo è un
posto per camosci e monaci pellegrini? >> Risalgo la base della lunga
parete rocciosa, gli ultimi metri misti a balze erbose sono i più faticosi.
Arrivo sull’esposta e ventosa forcella, sgancio lo zaino e con voracità mi
butto sulla borsa viveri, facendo una strage del contenuto. Le nuvole (birichine) avvolgono a sprazzi i
profili dei monti. Decido nello stile Malfa di lasciare lo zaino alla forcella,
estraendo da esso la mini sacca e portando con me lo stretto necessario. Devo
averlo imparato dagli astronauti dell’”Apollo Undici”, che prima di allunare
sganciarono il modulo lunare dal razzo, sicuramente molto più leggero per
ammarare sulla Luna. Lo so! Sto fantasticando, evidentemente sono a corto di
ossigeno ma no di fantasia. Dopo aver fagocitato la scorta viveri parto per la
cima, che non è molto distante, avverto una sensazione di leggerezza, passare da
nove chilogrammi di zaino a pochi grammi di sacca non è poco. Il paesaggio che
mi si posta davanti è fantastico, seguo l’esile traccia risalendo la cresta
esposta. Noto una doppia serie di segni differenti, quelli CAI e quelli
dell’Alta Via numero sette (colore azzurro). Adoro camminare sul filo di cresta,
ai margini del versante dirupato, adoro le creste perché percorro due mondi
opposti come un funambolo. Notte e giorno, vita e morte, racchiudono per alcuni
aspetti il senso della vita. Risalgo la cresta attraverso un tratto dove la
roccia è frantumata in mille scaglie ed esposta a occidente. Mi perdo in questo
mare dolomitico, per poi fare ritorno sul versante inerbito da mughi. Cavalco
la cresta, da essa scorgo l’anticima e la cima in sequenza. Raggiunta la vetta
con lo sguardo proseguo a meridione, ammirando per quanto le nuvole mi lasciano
intravedere l’affilata cresta del monte Sestier. Le nuvole continuano a giocare, non ho paura,
anzi ne sono affascinato! Percepisco una sensazione severa, il mondo degli
umani è lontano, con le sue falsità, le apparenze, i pregiudizi. Quassù non ci
sono “opportunisti Topo Gigi”, mi sento libero su questa cima, sconosciuta alla
massa. Nessun libro di vetta, ne croci, ne simboli, solo un cumulo di sassi che
tra la nebbia scompare come avvolto da un sogno. In fondo l’escursionista
solitario è un eremita, un asociale per antonomasia che mal sopporta il genere
umano, che ama confrontarsi solo con la natura. Egli chiede consiglio solo ai suoi
scarponi, alla vista, all’orientamento, all’intuito. Sarò ripetitivo ma è così,
da soli si moltiplica tutto: gioie, dolori, vittorie, sconfitte. Se in discesa
dovessi inciampare volando nel vuoto, sicuramente morirei da solo, senza il
conforto di nessuno, nemmeno del mio cane, nessuno con cui dividere le ferite e
gli ultimi istanti di luce, nessuno. Si nasce soli, si muore soli e si vive da
soli, malgrado qualcuno tema questo e cerchi di drogarsi con le false compagnie.
La montagna in solitaria porta alla meditazione, ad un’acuta riflessione. Paradossalmente
nella società posso apparire loquace, un buffone di corte, ma è solo un timido
modo per non denudarmi. Da solo incontro la morte e riconosco la sua gelida
mano, per questo non capisco gli esseri umani che tradiscono gli amici, che
sono razzisti, cattivi, invidiosi, che non si rendono conto che fanno schifo pure
alla morte stessa. Così disgustosi che ella li fa vivere più a lungo possibile
per punirli, unendoli in compagnia dei loro simili. È giunta l’ora del rientro, sono sereno, non
ho paura, anzi, mi sento solo triste perché rientro nella civiltà, tra i pagliacci,
i simulatori, gli imitatori da quattro soldi. Recuperato lo zaino ridiscendo
ripercorrendo i millecinquecento metri di dislivello. Che delizia! Metro per
metro, filo d’erba per filo d’erba, ciottolo per ciottolo, mi conforta la
visione dei numerosi camosci. Arrivo al bosco avendo quasi esaurito la scorta
d’acqua, sorseggio l’ultima goccia della borraccia, cosa c’è di più essenziale
dell’acqua? Essa è vita! Cerco di pensare ad altro per non sentire la sete.
Scendo per il ripido spallone, essendo un po’ sordo udirò in ritardo lo
scroscio del torrente. Di tanto in tanto mi fermo sperando di udirne il suono, scendo
ancora di molti metri. Si! Ora ascolto chiaramente la dolce musica, percepisco
il torrente sottostante. Ultimi metri
tra i faggi e scorgo il rio, odo le sue acque fragorose che rinfrescano
l’ambiente e mi deliziano. Guado il ruscello e sgancio lo zaino, mi avvicino alle
umide pietre dove zampilla l’acqua munito di borraccia, la riempio fino all’orlo,
bevendone immediatamente la metà. Buona, fresca, che sensazione di appagamento,
felicità. Riempio anche il Camel back e riprendo il cammino. Indiana Jones rientra dall’impresa, avendo
conquistato l’arca, dove ha trovato risposte ai suoi quesiti. Oggi è stata
dura, un viaggio lungo come una catarsi, ma mi sento libero, appagato. La
montagna sconosciuta e meno appariscente mi ha donato serenità.
Il vostro “Forestiero Nomade”
Malfa.
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