Monte
Gialinut
Anteprima
di una splendida e selvatica escursione, seguirà relazione con un ampio
reportage.
Localizzazione: Prealpi Bellunesi- Catena Cavallo-Visentin - Gruppo Col Nudo-Cavallo -Sottogruppo del Col Nudo.
Avvicinamento:
Lestans- Maniago- Montereale -Val Cellina- Barcis-Valle del Cellina- Lasciare
l’auto all’imbocco della Val Feron (strada sterrata)
Regione:
Friuli-Venezia Giulia
Provincia
di: PN
.
Dislivello:
1250 m.
Dislivello
complessivo: 1300 m.
Distanza percorsa in Km: 16 Km.
Quota minima partenza: m. 504 m.
Quota
massima raggiunta: 1755 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 6 ore
In:
solitaria
Tipologia
Escursione: Panoramica-selvatica
Difficoltà:
escursionisti esperti atti ad agire in ambienti che richiedono spiccate
altitudini di orientamento.
Tipologia sentiero o
cammino: Carrareccia e sentiero fino alla casera Feron-Dalla casera alla
forcelletta poco sotto la cima del Gialinut sentiero escursionistico. Dalla
forcelletta alla vetta del Gialinut un
oceano di mughi ( per fortuna ho trovato alcuni tagli).
Ferrata-
Segnavia:
CAI 901-903
Fonti
d’acqua: sì e provvidenziali
Impegno
fisico: alto
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
no
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: si
Libro di vetta: Trovato
barattolino in vetro con alcune firme dei radi frequentatori, ho curato il
contenuto aggiungendo fogli e penna.
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 021
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: primavera - autunno
3)
4)
Da
evitare da farsi in: condizioni di scarsa visibilità o persistenza di terreno
gelato.
Condizioni del
sentiero:
Consigliati: ramponi da erba
Dedicata a: a chi ama
andare in solitaria
Data: 20 maggio 2022
Data di pubblicazione
della relazione: mercoledì 09 novembre 2022
N° 612
Tutte le volte che
attraverso un periodo particolare della mia esistenza ho bisogno di stare solo con
me stesso, e la montagna è il luogo ideale dove posso vagare e perpetrare
questa filosofia. La valle del torrente Cellina si presta a questa saggezza, dove diviene facile perdersi con sé stessi,
basta dispiegare una mappa topografica e cercare il luogo adatto.
Per le difficoltà
oggettive e soggettive, è il regno ideale
degli spiriti solitari, quindi, basta solo decidere la valle, un sentiero o e
una cima per adempiere a questa sublime catarsi.
Per questa avventura
ho scelto il monte Gialinut e con avvio dal versante più selvaggio, ossia la
Val Feron.
Il mattino
dell’escursioni alle prime luci dell’alba sono già a ridosso del lago di Barcis.
Adoro fermarmi, accostando l’auto presso il ponte in legno e farmi inebriare dalle
atmosfere da sogno del magico lago.
Percorro con calma la
lunga valle fluviale, fino all’imbocco della stessa, dove viro a sinistra per
la selvaggia Val Feron.
L’ascio subito l’automezzo dopo il divieto di transito,
anche se potrei andare più avanti, ma non ho proprio voglia di contaminare l’ambiente con il mezzo
meccanico.
Come sempre sono
emozionato, soprattutto quando devo realizzare qualcosa di nuovo. È la prima
volta che mi avvio per questa valle, quindi, dall’emozione non sto nella pelle.
Mi allesto in poco
tempo, calzando di urgenza gli scarponi e lo zaino, come se avessi paura che il monte si sposti, penso
che con questo modo di agire ansioso sia rimasto un fanciullo.
Inizio a percorrere la
lunghissima carrareccia che nel primo tratto è comoda, tenendo spesso il naso all’insù con lo
sguardo rivolto alla selvaggia cresta che da Croda Pineda sale sino al monte
Frugna. Una
magnifica fonte sulla destra della carreggiata delizia la mia attenzione. Ho
sempre trovato miracoloso scoprire la fonte
d’acqua, da essa zampilla la vita, pare una banale costatazione ma è, come il
sorgere del sole alla base della nostra esistenza.
Nelle trasparenti gocce che colano
rifletto il mio volto e il mio spirito avventuriero, mirando con i
desideri a ponente. Lasciata la carrareccia grazie a dei provvidenziali e brevi
tratti di sentiero, continuo il viaggio all’ombra delle fronde del fitto bosco,
finché, un’intensa fonte di luce rischiara la scena e il mio cuore.
Sono fuori dalla macchia boschiva e al
cospetto di un’opera d’arte, un acquerello che raffigura uno dei più bei
dipinti naturalistici che abbia mai visto.
Sul lato destro dell’immagine è tinta
una casera con il tetto a spiovente e una deliziosa palizzata. A centro
dell’opera spicca un prato alpino che riflette un intenso color verde che sa di
smeraldo, mentre a sinistra sopra i selvaggi colli si erge in tutta la sua maestà
la mole gigantesca del Col Nudo, l’autentico signore del luogo.
Solo questa immagine basta a dare un senso
alla vita, in uno scatto è racchiuso il contenuto del creato. Rimango
incantato, emozionato e silenzioso, in questi frangenti non avrei gradito la
presenza umana, mi sarebbe parso un sacrilegio.
Mi avvicino alla casera Feron, è chiusa,
ma all’esterno, sulla soglia di una finestra, un'anima pia ha lasciato un bambolotto
che rappresenta un frate, e con esso una busta trasparente al cui interno è
serbato un quaderno e due penne, tutto l’occorrente per lasciare il segno del
passaggio del viandante.
Per un attimo il mio pensiero vola alle
anime impure che sovente amano distruggere il lavoro altrui, costoro non sono
cacciatori, ma semplicemente degli imbecilli a cui non è stato donato l’uso del
cervello.
Lascio il segno del mio passaggio, e mi
preparo a lasciare un mondo idilliaco per iniziare quello dell’oscura fatica. Da dietro il riparo, a settentrione,
diparte una traccia, ben marcata ma ripida, nominata dal CAI 903.
Sono ben 600 metri di
ripido dislivello sul versante meridionale, fortunatamente
adombrato dall’infinita faggeta dove
sovente si incontrano presenze misteriose.
Mentre cammino scorgo
una salamandra, in lei riconosco il grande generale punico, il genio in
assoluto per la strategia marziale, si proprio è lui, Annibale. Rimane sorpreso
come lo abbia riconosciuto sotto le
spoglie dell’anfibio urodelo. Gli confesso che anni fa sono stato nella città
di Tiro, nella sua terra di origine, e da allora possiedo questa capacità di
riconoscere a primo acchito i fenici. Mentre
discorriamo, proprio accanto a esso, scorgo
uno dei suoi leggendari elefanti con cui ha valicato le Alpi. Il pachiderma
rientra dalla medesima fonte dove io stesso ho riempito la borraccia. Il grande
condottiero con la sua voce calda e flebile mi fa delle raccomandazioni sul
sentiero a venire, avvertendomi dei pericoli che avrei incontrato e dell’immane
lotta che avrei affrontato poco prima della vetta con gli indomiti mughi. Prima di congedarmi mi fa un’ultima
raccomandazione:<< Caro Malfa, la mia battaglia l'ho combattuta da
guerriero errante, con i miei colori e i miei sogni, tanto da renderla dolce e
gradevole, lo stesso fai tu…>>
L’ho
ringraziato con rispetto, ed egli dal
mio sguardo ha compreso quanto sia alta la mia stima nei suoi confronti. Lascio
colui che da autentico spirito libero ha reso possibile l’impossibile.
Riprendo il cammino, mentre il suo
elefante si muta in faggio, per rendersi riconoscibile solo agli spiriti liberi.
Il lungo cammino all’interno
del bosco è intervallato da una fugace uscita in un’ansa prativa pensile, dove
lo spirito si libra al sole prima di riprendere il viaggio introspettivo tramite un traverso
che aggira il versante orientale del monte.
Finalmente scorgo le
rocce sommitali, sono stratificate come fogli di un libro vissuto, mentre il
sentiero continua ad aggirare l’elevazione. In un tratto mi è concesso di
ammirare le cime che circondano a oriente la valle del Vajont, tra cui
riconosco perfettamente lo Zerten (Certen).
La sempre minore presenza di alti fusti e
l’aumento costante degli arbusti mi fa intuire che mi sto avvicinando alla
sella. I regali larici, gli autentici signori del luogo, fanno da segnavia in
questo frangente. Raggiungo una forcelletta posta al termine del ripido pendio
che conduce al Gialinut. Fatte le dovute valutazioni decido di privarmi del
peso superfluo, alleggerendomi il carico sulle spalle e lasciando il resto
dentro lo zaino e occultato tra i mughi, con me porterò lo stretto necessario
dentro una piccola sacca. La mia meta, ossia Il monte
Gialinut, è lassù, a circa 125 metri dislivello, ma tra me ed essa vi è una
fitta immensità di impenetrabili e combattivi mughi da superare. Scorgo un
ometto e un taglio all’inizio della forcella, mi addentro nella selva oscura e
sin da subito perdo la pesta. Imperterrito traccio idealmente una direzione e miro a essa,
e superati alcuni salti con l’aiuto degli stessi mughi, trovo dentro il
labirinto un agognato varco. Con caparbietà e adoperando tutti e quattro gli
arti, e anche i denti, cerco di guadagnare quota, metro dopo metro, la lotta si
fa dura. In alcune confluenze, dove la compattezza dei mughi lenisce, lascio un
evidente segno visivo, sarà utile al rientro. A volte mi tocca strisciare sotto
i mughi, mentre altre volte gli cammino sopra come quell’illustre rivoluzionario
ebreo che 2000 anni fa camminò sulle acque. La lotta è dura, Annibale mi aveva
avvertito, ma non mollo. Quasi sotto cresta la traccia si ampia e i mughi divengono
umili paggi che umilmente si adoperano ( forse per farsi perdonare) come corrimano.
Ci sono! Percepisco la vetta. Sopra di me solo la volta azzurra. Una cupoletta
di sassi disgregati dalle intemperie, una strana antenna e un corposo ometto
sono il chiaro indizio di aver raggiunto il capolinea. Dai miei lineamenti è
manifesta l’emozione di aver raggiunto la vetta. Fatta! Sono strafelice,
abbraccio il cielo blu cobalto, e spazio come una trottola sulla sacra
superfice avendo lo sguardo attratto dall’infinita magnificenza delle dolomiti.
Tra i sassi dell’ometto posto a quota
1755 metri scovo un barattolo, lo apro. All’interno sono serbati dei foglietti
con poche firme, alcuni dei viandanti li conosco per fama. Aggiungo la mia modesta
sigla al breve elenco, e richiudo con cura il contenuto dentro il barattolo. È
spettacolare l’ambiente che posso ammirare da questo pulpito, è vero che ogni
cima è un trono e da essa si domina il mondo. In questo momento il re sono io,
e mi godo bramosamente tutto il reame. Ispeziono alcuni versanti della cima,
sono tutti proibitivi, tranne quello verde smeraldo dei mughi da cui sono
asceso. Come sempre giunge l’ora di indossare lo zaino per rientrare tra i
mortali. Un ultimo sguardo all’ometto di vetta e muovo il primo passo,
iniziando un’altra lotta con i mughi. Per fortuna sono dotato di un buon
orientamento, e riprendere il cammino a ritroso non è un problema. Anche se
talvolta i mughi indisponenti si divertono a fare dispetti, come nel catturarmi
il foulard nero che cingo alle tempie. Una volta sbucato fuori dall’oceano
verde sono felicissimo e protendo il braccio al cielo con le dita a V in segno di
vittoria. Prima di riprendere il materiale occultato mi studio il
territorio circostante per future le escursioni, dopodiché, indosso lo zaino
ripristinato nella sua naturale funzione e inizio la discesa.
Il sentiero da
percorrere è il medesimo dell’andata e non ho nessun intoppo lungo il cammino.
Raggiunta la bucolica casera
Feron decido finalmente di desinare. Mi accomodo placidamente su una delle panche
poste all’esterno del rifugio, e con lo sguardo rivolto al Col Nudo inizio a
banchettare. Ho così tanta fame che divoro tutto il vettovagliamento in un
baleno, mentre l’operazione è deliziata dall’identica magica visione del
mattino ma con un tono crepuscolare. Ripreso il cammino, durante il rientro
sino all’auto e avvertita la notevole temperatura ambientale, ho modo di
limitare la calura bagnandomi la chioma
in alcuni affluenti del torrente Feron. Raggiungo, felicemente e placido, il
punto di partenza. Anche oggi Artemide mi è stata amante, deliziandomi e
viziandomi con il suo universo, e io le
sarò eternamente grato. Durante il rientro guido con calma ammirando il sole che
si avvia al crepuscolo, soddisfatto dell’avventura vissuta e con una nuova
storia da ricordare.
Il Forestiero Nomade.
Malfa
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