Monte Santo da
Lestans
Un giorno non
precisato di novembre, mentre scorrevo l’indice sulla mappa del territorio di
Castelnovo del Friuli, leggo Monte Santo, un colle posto a quota 471 metri sul
livello del mare, il più alto del comune in cui è ubicato.
La giornata che segue
sarà l’ideale per l’escursione, partirò a piedi direttamente da casa. Il
mattino seguente, zaino in spalle e sogni al seguito, lascio l’abitazione
mirando a nord, verso i colli di Castelnovo del Friuli.
È seducente camminare
senza l’ausilio meccanico del mezzo di trasporto. Attraverso i vicoli di
Lestans, mentre le massaie sono ancora intente nelle loro operazioni
quotidiane, dalla scuola elementare provengono le grida giocose dei bimbi, e la
temperatura frizzantina aiuta a far nascere i propositi più positivi, specie se
si viaggia protetti da indumenti caldi e morbidi.
Dalla periferia di
Lestans, con un passo lesto, mi dirigo a nord, per una stradella di servizio
che passa dietro il dismesso cementifico.
Quest’ultimo appare
come un gigante dormiente, una autentica cattedrale nel deserto, nei decenni
trascorsi fu causa di lotte politiche tra coloro che lo volevano dismettere
(comunità di Lestans) e altri che si opponevano; vinsero i primi, e tra i
fautori della vittoria mi viene in mente il nome della Dirce, una gran bella
persona, una pasionaria, che ho avuto l’onore di conoscere e ritrarre.
Subito dopo il
cementificio è un bel vedere, attraverso una singola frazione. Un gigantesco
olmo regna solitario, e la sua ombra mi indica la periferia del borgo di Molevana
in basso. Il passo ora è lento, delicato, sento il latrare di un cane, fiocchi
rosa appesi a una recinzione di un’abitazione manifestano che in quella casa
una nuova vita cattura le delicate attenzioni degli occupanti. Le sapienti
pietre sagomate delle costruzioni mi fanno sognare, rivivendo odori, colori,
suoni e volti di una civiltà contadina mai vissuta, e che perdura malgrado il
progresso tecnologico.
Aggiro a oriente le
ultime abitazioni, voglio ritrovare per il solo piacere di ammirare, una coppia
di anziani di cui mi sono innamorato. Al mio passaggio loro non sono nel
cortile, ma dall’interno dell’abitazione, da dove provengono dei suoni, tra cui
riconosco quello della lavatrice. Questo breve tratto di sentiero remoto mi ha
sempre emozionato, eretto con i sassi strappati alla terra, e adesso coperto
dalla lucente e profumata vegetazione, ed esso mi conduce a Pontic, il vetusto
ponte edificato dai Legionari Romani.
Anche oggi la sua
costruzione risulta ardita, vola leggiadra sopra l’impressionate forra del
Torrente Cosa, solo pochi metri da percorrere, ma incute tanto rispetto.
Oltrepassato il ponte sono a ridosso del bosco nord-occidentale di Castelnovo
del Friuli, mi inoltro nell’ombroso e gelido vallone, seguendo dei cartelli,
posti dagli appassionati di mountain bike lungo una dismessa carrareccia.
La percorro in una
faticosa salita e mi ritrovo a ridosso di una forcella. Proseguo per un
sentiero ben battuto, e dopo alcuni saliscendi abbastanza problematici (per via
del terreno viscido e sabbioso) mi ritrovo a ridosso del primo rudere della
frazione di Gai. L’edificio, costruito con sapiente maestria (ricoperto da
smeraldina edera), resiste ancora al tempo, ne visito l’interno, alla ricerca
di rivelazioni che prendo da piccoli particolari. Continuo il cammino,
raggiungendo il più corposo raggruppamento di stavoli, pochi metri dopo una
piccola cappella, restaurata e con all’interno dipinta una graziosa madonnina.
In uno stavolo (mal
ridotto dall’incuria e dallo scorrere del tempo), trovo appeso all’anta in
legno dell’ingresso, un singolare elenco di nomi di una famiglia, adesso
emigrata in Francia. Questa testimonianza mi provoca tristezza e tenerezza, e
mi fa pensare. Tutti vaghiamo in questo mondo: in cerca di lavoro, libertà,
sogni, ma, purtroppo, c’è sempre qualcuno che non vuol comprendere. Rispettoso
della testimonianza cartacea, osservo alcuni particolare, un vecchio bibigas,
il numero civile ancora leggibile e posto su un architrave. Avverto una sorta
di melanconia e desolazione, molto dolorosa, come se questo luogo mi
appartenesse da generazioni, come se fosse stato il mio luogo natio, la mia
casa. Proseguo per il sentiero, che stavolta si fa aereo, anche se protetto
dalla vegetazione. Cammino su questa bella cresta che divide la valle del Cosa
dai colli di Castelnovo. Percorro sentieri ben battuti, visito grotte che
diedero rifugio ai partigiani, respiro l’aroma della natura selvaggia. Vago,
cammino, sono libero e son vivo.
Decido di lasciare il
sentiero che prosegue in direzione della vecchia frazione di Molevana, per
cavalcare la cresta, sino alla Forca. Ho modo di ammirare a meridione il bel
torrione del castello di Vigna, da esso si dominano tutti i colli di Castelnovo
del Friuli. Sono stregato dal paesaggio sublime, e chissà quante storie
custodiscono i borghi di questi rilievi. Un’autentica enciclopedia di quasi due
millenni di intenso vissuto umano.
Con peripezia e
intuito, sempre per selvaggia cresta, pervengo sino alla forca, successivamente
percorrendo per pochi metri la rotabile interna del comune, per dirigermi alla
frazione di Faviz e Rez (cartelli con indicazioni).
Questi colli sono
composti quasi interamente di granuli, ma anche di fanghi e di ghiaie, i
prodotti dell’erosione erano trasportati verso meridione da torrenti e fiumi
che, intorno a dieci milioni di anni fa, li abbandonavano nelle zone
pianeggianti. Sabbie e argille erano dunque abbandonate in una tranquilla baia
deltizia dove si accumulava periodicamente anche dello sfasciume vegetale. Il
sito di Castelnovo del Friuli, attraverso i suoi sedimenti e rocce, racconta di
un iniziale ambiente di baia deltizia che in seguito è stato sommerso dal
sollevamento del mare. Mare che, all’inizio del proprio innalzamento, ha
raccolto e accumulato un esiguo spessore di ghiaie abbandonandole lungo la
locale spiaggia. Quando di lì a poco il livello marino si è stabilizzato, gli
apporti fluviali hanno costruito un delta che nel tempo ha preso ad avanzare
muovendosi verso la stessa zona di Castelnovo del Friuli.
Quanta emozione mi trasmette
il poter leggere la geologia del luogo, e ogni fazzoletto di territorio serba
informazioni che arricchiscono il mio sapere. Non manca nulla per poter
abbinare l’erudizione al piacere della natura.
Percorro la stradina
asfaltata di servizio, e poco prima della frazione di Rez, vengo morso a un
polpaccio da un cagnetto lasciato imprudentemente libero. Ho sentito i dentini
sulla carne, però non hanno forato i pantaloni, ma avverto uno strano bruciore.
Mi disinfetto la gamba dove la bestiola ha lasciato i segni dei canini,
ripeterò l’operazione subito dopo in vetta al monte Santo. Presso un tornante,
termina la strada asfaltata, proseguo per quella campestre, che inizia proprio
di fianco ad una abitazione sorvegliata da un pastore tedesco molto vigile. Il
tratto di percorso è breve, presso il seguente tornante, un cartello mi invita
a lasciare la strada campestre e percorrere il sentiero che porta alla località
Celante. Seguo la marcata traccia per pochi metri, finché, raggiunta la
forcella in cresta, lascio il sentiero per proseguire a destra, lungo il
crinale. Trovo qualche segno di passaggio, ma l’itinerario è intuitivo, mancano
solo 50 metri di dislivello alla vetta. Senza particolari patemi,
destreggiandomi nella vegetazione selvaggia, raggiungo il vertice,
materializzato da uno splendido e gigantesco castagno. Fatta! Monte Santo
conquistato. È davvero selvaggio l’ambiente che trovo a 471 metri di quota, la
visuale è ostruita dalla vegetazione. Malgrado sia il colle più alto, non si
scorge nulla del paesaggio circostante, solo i ricci delle castagne per terra.
Anche lo stesso cielo è ostruito dalle fronde degli alberi, sembra un ambiente
che non conosce la presenza dell’uomo. In un incavo ricavato dalle varie
diramazioni dei tronchi del castagno, trovo l’alloggiamento per il contenitore
del libro di vetta. Mi piace abbracciare questo vecchio signore (il castagno),
esso oggi rappresenta la meta, e aggiunge atmosfera fiabesca all’escursione.
Sono rapito da questo luogo che sa tanto di foresta di Sherwood. Gioisco della
bella giornata donata, della sensazione di infinità libertà che dà la montagna.
Rientro per lo stesso sentiero dell’andata. Presso la frazione di Vigna devio
per una remota variante che mi riporta a Molevana nuova. Cammino deliziato dai
raggi solari del meriggio, di tanto in tanto mi volto indietro per contemplare
i colli che ho appena percorso. È magia pura la località di Castelnovo del
Friuli, un eden per chi ha un animo folle, libero, sincero, sensibile e
d’artista, e giorno dopo giorno, anno dopo anno, questo luogo lo sento sempre
più mio.
Il Forestiero Nomade.
Malfa
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