Monte
Riquini da Illegio
Localizzazione: Alpi tolmezzine orientali: Gruppo Sernio-Grauzaria-
Dorsale Sernio Palasecca.
Avvicinamento:
Lestans-Pinzano-Cornino- Interneppo-Cavazzo-Tolmezzo- Illegio- Poco fuori il
borgo percorrere pochi metri lungo la stradina che conduce agli stavoli Palons-
superata una cappella votiva-ampio spiazzo sulla sinistra della carrareccia
presso un tornante.
Regione:
Friuli -Venezia Giulia
Provincia
di: UD
.
Dislivello:
708 m.
Dislivello
complessivo: 708m.
Distanza percorsa in Km: 10
Quota minima partenza: 590 m.
Quota
massima raggiunta: 1267 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 5 ore senza neve.
In:
solitaria
Tipologia Escursione: panoramica- naturalista- ricerca
di remoti sentieri
Difficoltà:
Escursionisti Esperti atti a operare in ambiente selvaggio privo di tracce e
radi segni (rosso-blu)
Tipologia
di sentiero affrontato: Carrareccia-sentiero CAI- remoto sentiero ridotto a
traccia di animali selvatici segnata con bolli rosso-blu.
Ferrata-
Segnavia:
CAI 443
Fonti
d’acqua: si
Impegno
fisico: medio
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
no
Croce di vetta: creata
croce minimalista
Ometto di vetta: si,
molto corposo
Libro di vetta:
lasciato barattolino spiriti liberi
Timbro di vetta:
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 013
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: primavera – estate.
3)
4)
Da
evitare da farsi in:
Condizioni del
sentiero:
Consigliati:
Data: giovedì 03
febbraio 2022
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Non
c’è due senza tre, infatti, rispettando il famoso detto, al terzo tentativo
sono riuscito a scalare il selvatico Monte Riquini, piccola elevazione posta tra
il versante meridionale del Monte Palavierte e quello settentrionale del Monte
Amariana.
Queste
numerose e sconosciute montagne, sono poco ambite dalla massa, sia per le
piccole dimensioni e il nome non rinomato, quindi, non gratificano chi ha
bisogno di monti di un certo rilievo per esaltare la propria immagine, e sia, e
penso che sia il motivo principale, per il difficile raggiungimento, a causa
delle scarse o non più esistenti via di accesso, e la carente manutenzione delle
stesse. Quale è il vantaggio che offrono le suddette elevazioni selvatiche?
Semplice! Donano libertà di movimento, in ambienti naturali integri, e uno
stimolo alle abilità di orientamento e di adattamento in un contesto non
comune. In questi ultimi anni, più che la concatenazione di vette, cerco la
singola esplorazione. Penso, che anticamente, nel territorio intorno alle vette,
si sviluppassero piccole comunità. La gente di montagna nasceva, cresceva e
moriva nello stesso stavolo, o in quelli delle valli adiacenti. Se si osservano
gli stavoli dal punto di vista architettonico, hanno più o meno la medesima
configurazione e divisione degli spazi: in basso da un lato l’ambiente della
cucina e ripostiglio, dall’altra parte la stalla. Nel piano di sopra: da un
lato le camere da letto e nell’altro il fienile. Spesso il destino del
nascituro era segnato, almeno che non volesse lasciare il luogo, e cercare
fortuna altrove. Una vita piena di stenti, sacrifici, che per molti aspetti mi
ricorda i racconti di Giovanni Verga. Gente con il destino segnato, e spesso
ignorati dai cittadini, o dal contado che operava nella bassa, che della
montagna conoscevano solo il nome e le leggende. Per questo amo vagare per i luoghi
dimenticati da Dio, per scoprire una civiltà scomparsa tramite i ruderi o le
impronte serbati dalla montagna, e purtroppo destinati a un inesorabile oblio.
Sono al terzo tentativo, tutti con partenza da
Illegio: al primo mi arenai al Cuei di Giai, oltre la vetta c’era troppa neve,
avrei fatto tardi. Al secondo tentativo, provai di fare un sentiero segnato in
nero sulla mappa, a nord del Cuei di Giai, scoprii in seguito una frana che mi
rese ardimentosa l’ascesa alla cresta, costringendomi a cambiare meta, e
ritornare indietro. Stavolta scelgo una via sicura, il sentiero CAI 417 che da
Illegio conduce a Campiolo.
La
partenza come al solito, dalla caratteristica frazione di Illegio. Lascio
l’auto subito dopo la cappella che precede un’ampia ansa. Una volta pronto mi
avvio per la valle solcata dal torrente Frondizzon. La temperatura è gelida, e
il versante settentrionale che sto percorrendo non aiuta per via dell’ombrosità.
Dell’asfalto della strada rimane ben poco, visto che è quasi tutto ricoperto di
ghiaccio. Ancora non è presto per indossare i ramponi, quindi, mi districo, sui
margini della strada forestale dove la neve è meno dura e pericolosa. Seguo una
serie tornanti, mirando spesso con lo sguardo a sud, per scrutare i rilievi del
monte di Giaideit e di Monte Oltreviso (conquistate appena alcune settimane
prima), viste da un’altra prospettiva. Raggiunto il cartello CAI con su segnato
il numero 417, abbandono la strada ghiacciata per iniziare il sentiero. Il
cammino è comodo, i primi 150 metri di dislivello sono una serie di anse che
creano una serpentina ben marcata nel ripido pendio, per poi percorrere la mulattiera
che con comoda pendenza mi guida fino alla Sella di Dagna. Nulla da segnalare
di particolare lungo questo tratto di cammino, il fitto bosco copre la visuale
sulla bella cresta prossima al monte Palavierte. Dalla vegetazione al margine
del sentiero ammiro le figure antropomorfe create dagli schianti dei faggi.
Raggiunta facilmente la sella, mi guardo intorno, intuisco che il sentiero 417
segue oltre la strada forestale. Procedo per poche decine di metri, finché
scorgo nella vegetazione, e tinto su una corteccia di d’abete, un segno
circolare rosso-blu.
Percepisco,
visto che si trova sulla direttiva dell’arcaico sentiero segnato in nero sulla
mappa, che si tratta della traccia che cercavo per ascendere la vetta del Monte
Riquini.
Dalla
precedente esplorazione in zona, e dalle curve di livello, ho intuito che sarà
un’escursione all’insegna del ravanare su un ripido tratto. Da lontano il monte
appare come un cono con la punta rivolata in alto, ora mi accerterò di persona
della reale pendenza. La prima tratta del sentiero non è difficile, a volte
assume le sembianze di mulattiera, la stessa quota 1066 metri si biforca. Seguo
i segni sulle cortecce, esse aggirano il monte in senso antiorario, da
occidente a oriente. Pochi metri e la traccia diviene esile, circumnavigando il
versante meridionale del monte, spesso con ardite cenge esposte sul ripido
inerbito, e con alcuni tratti smottati. Con molta cautela ne supero alcuni, ben
cosciente che sotto i piedi ho ben 600 metri di ripido precipizio che mi separa
dal sottostante Torrente Vartola. Questa
è la parte più impegnativa dell’intero percorso, per fortuna ho già calzato i
ramponi, quindi mi affido a loro. Sono
cosciente, che i segni e la traccia cambieranno a breve direzione, iniziando a
risalire l’erto pendio, ma nell’attesa mi tocca ancora districarmi sulla cengia
che appare infinita. Finalmente i segni portano in alto, mi fermo e constato.
Ora mi trovo sempre sull’erto pendio, ma è meno ripido, anzi invitante ed esposto
al sole. La traccia mira alla forcella posta tra la cima (quota 1267 m.) e
l’ante-cima (quota 1110 m.) L’istinto mi consiglia di mirare dritto alle rocce
sommitali, sicuro che tra esse troverò il varco. Infatti, con la forza della
spinta delle gambe e con l’aiuto di qualche ramo su cui mi ergo di braccia,
miro alla vetta, transitando tra le rocce, con passaggi a volte esposti, ma che
mi permettono di conseguire il vertice del monte. Raggiunta la prossimità della
cima, come è mio solito fare, rallento, mi preparo al tratto finale, il più emozionante.
Districandomi tra i faggi di cresta, cerco quello posto più in alto, finché,
dal biancore della neve sbuca un corposo e inconfondibile segno, un ometto di
sassi. Fatta! Monte Riquini è stato sedotto, e a parte la fatica dell’ultimo
tratto, l’ascesa non è stata molto impegnativa. Do un ‘occhiata all’ora, è ancora
presto, così presto, che calcolando nel tempo anche gli imprevisti degli
imprevisti, ho ancora tante ore di luce a disposizione. Mi cambio la maglia
tecnica, asciugo il sudore, mi do un aspetto degno di una cima regale, dopodiché
mi dedico alle mie abituali operazioni post-conquista.
Il
paesaggio è occultato dalla fitta vegetazione, per vedere oltre mi devo
allontanare dall’ometto. Decido, prima di procedere nelle consuete operazioni, di
studiare da dove dovrò scendere per proseguire il cammino. Poco dopo la vetta,
a nord, i segni portano a un ripido pendio completamente innevato; a primo
acchito mi fa impressione, quindi, ci penserò dopo. Ritorno all’ometto,
installo il barattolino degli spiriti liberi, e di seguito, mi dedico alla contemplazione
di quel poco che mi concede il monte. Passo una buona mezzora a gironzolare,
finché mi decido a riprendere il cammino. Indossato lo zaino, mi sistemo il foulard
che mi cinge le tempie, e riprendo il passo. Dalle tracce sulla neve leggo che sono
transitati solo ungulati, mi fido di loro, ne seguirò le orme, che stranamente ricalcano
i segni. Coadiuvato dai ramponi, scendo per l’erto pendio, man mano che perdo
quota, forse sarà l’abitudine all’esposizione, divento più sicuro, tanto che mi
diverto nell’affondare gli scarponi nella neve, trovando spesso un naturale
freno. Qualche passaggio è ripido, ma in breve raggiungo un avvallamento, dove
incrocio un altro remoto sentiero, lo seguo fino a un cartello che mi avvisa
che per il monte Riquini devo seguire a ritroso la traccia e i segni rosso-blu,
in sintesi, il sentiero che ho appena percorso in discesa. Visto che la traccia si biforca, devo
scegliere tra: l’andare a sinistra e percorrere una pista che mi appare
impossibile, ma che mi riporta in breve al sentiero 417, o proseguire a destra
per un lunghissimo sentiero fino al sentiero 412. Non ho dubbi, sciolgo l’enigma,
scelgo la soluzione più ardita e breve. Mi affaccio da un dirupo, e vedo che la
traccia scende di pochi metri dentro un fronte assai dirupato, per poi risalire
su un’ardita cengia, che una volta sopra si rivelerà meno impegnativa.
L’emozione non manca, con cautela mi calo di pochi metri, e una volta sulla
cengia, sto attento ai tratti ghiacciati. Raggiunto il vertice della stessa via
esposta, mi concedo il lusso anche di fermarmi in bilico, tra il pieno e il
vuoto, evidentemente ci ho preso gusto all’esposizione. La traccia continua a circumnavigare
il monte, stavolta da nord a occidente, sempre in senso antiorario. Cammino all’interno
dell’alveolo della remota mulattiera, fino a quando pervengo a quella percorsa
in precedenza, così chiudo il cerchio. Una volta raggiunto il sentiero 417,
procedo a ritroso, e subito dopo la sella, mi fermo su un’ampia zolla d’erba
priva di neve per togliere i ramponi. Ho fame, e visto che il peggio è passato,
mi concedo alla lauta pausa. Peccato che la visuale sia sempre coperta dalle
fronde dei faggi, avrei preferito avere un altro film da ammirare durante la
pausa. Ripreso il cammino, procedo con calma, cercando di scoprire nelle forme
antropomorfe delle radici dei faggi divelti, delle figure fantastiche. Quando
sono ispirato, e ultimamente lo sono spesso, trovo anche l’indefinibile in una
foglia secca. Poco prima di raggiungere la carrareccia, incrocio un simpatico
cane da caccia, e pochi metri dopo il suo amico a due zampe. Instauro una
simpatica conversazione con il nativo di Illegio, in brevi frasi riscontro
tanto sapere, e io sono bramoso di imparare. Il compagno di conversazione è un
giovane, dalla faccia buona, e sicuramente dal cuore grande. Dopo attimi
passati in armonia, mi congedo dall’amico e riprendo il cammino, il suo cane mi
scorta per un po', poi mi saluta anch’esso.
Il tratto finale sino all’auto scorre tranquillamente, io cammino lentamente,
spesso chiudendo gli occhi e ispirando profondamente per inebriarmi
dell’ambiente. Vorrei fermarmi a un locale di Illegio, ma come sempre, e quando
sono solo, penso: << Sarà per un'altra volta!>> Effettivamente e ultimamente
gravito spesso a Illegio, e quindi la prossima volta mi fermo in una birreria, per
consumare qualcosa e scambiare de conversare con un saggio nativo.
Il
Forestiero Nomade.
Malfa
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