Cresta
dei monti Ciade- P. ta Croda Spissa- P. ta De Sep da Claut.
Localizzazione: Prealpi Carniche - Catena Chiarescons- Cornaget- Resettum- Dorsale Cornaget-Caserine
Avvicinamento:
Lestans- Maniago- Montereale Valcellina- Barcis- Claut. Al centro della
cittadina ampio parcheggio.
Regione:
Friuli-Venezia Giulia.
Provincia
di: PN
.
Dislivello:
900 m.
Dislivello
complessivo: 900 m.
Distanza percorsa in Km: 10
Quota minima partenza: 538 m.
Quota
massima raggiunta: 1331 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 5 ore
In:
solitaria
Tipologia
Escursione: panoramica- naturalista-
Difficoltà:
Escursionisti Esperti atti a operare in ambiente selvaggio privo di tracce e
segni
Tipologia sentiero o cammino:
carrareccia-mulattiera- sentiero di cresta-
Ferrata-
Segnavia:
CAI 384;
Fonti
d’acqua: si
Impegno
fisico: medio- alto
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
no
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: no
Libro di vetta:
Istallato sulla vetta più alta il barattolino degli spiriti liberi.
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 021
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: primavera -autunno
3)
4)
Da
evitare da farsi in: condizioni di sentiero ghiacciato
Condizioni del
sentiero:
Consigliati: Ramponi per erba per via della ripidezza dei versanti.
Data: venerdì 28
gennaio 2022
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Anello
della Punta de Sep, la selvaggia e impervia cresta che domina e protegge il
comune di Claut. Tempo fa alla ricerca di qualcosa di nuovo da fare, durante la
consueta ricerca sulle carte topografiche, notai questo crinale, ignorando
quello adiacente e ben più noto che prende il nome di Creste di San Gualberto. Effettuando
la gita sull’ultimo crinale citato, ne studiai la morfologia ideando un
progetto d’ascesa. Sin dall’avvicinamento a Claut notai la forma particolare
della cresta, soprattutto il tratto terminale, La Punta de Sep, che balza all’occhio
per il ripido versante che si eleva di ben 130 metri di dislivello rispetto alla
stessa cresta del monte Ciade. Un’altra costante che notai fu il boschivo
versante occidentale, che nasconde all’occhio il naturale andamento della
cresta. Mi par di aver visto qualcosa in merito, di Andrea Spinelli, grande
spirito libero. ma una relazione vera e propria non l’ho trovata, quindi mi
prodigo con i miei modesti mezzi, per prepararmi e di seguito conoscere e
descrivere questo misterioso crinale. Il venerdì che segue alla ricerca effettuata
il meteo mette sul bello, quindi vado di sicuro. Il mattino dell’escursione
sono di buon’ora nella valle del Torrente Cellina, gelata più che mai, come se
il sole non le avesse mai fatto una visita di cortesia. Raggiunta la bella Val
Cimoliana, miro alla cittadina di Claut, valutando e bramando con il solo
sguardo la meta odierna. Essa ancora non baciata dai raggi solari, appare oscura
e sgombra da neve. Lasciata l’auto nella predisposta area di sosta, mi avvio
per le non più ignote arterie che mi guidano sino alle frazioni periferiche nord-orientali
della cittadina. Ripercorro la carrareccia che risale la valle Ciadula. La
temperatura è polare per via della non ancora avvenuta comparsa del sole. Mentre
cammino, ho l’occhio fisso al versante occidentale del monte Ciade, sono ancora
indeciso da dove affrontare il rilievo per l’ascesa alla cresta. In testa ho
alcune ipotesi: la prima è quella di tagliare il versante occidentale a metà
cresta, raggiungendo il monte Ciade e di seguito per il crinale la Punta de Sep,
rientrando ad anello alla forcella della Cita, per poi rientrare tramite il
sentiero 484. La seconda ipotesi è l’inverso della prima, cioè, salire fino
alla Forcella della Cita, salire il ripido crinale fino alla Punta de Sep, e di
seguito scendere lungo il crinale, passando per il monte Ciade, e di seguito
trovare una traccia che mi riporti a Claut. Mentre cammino tutto è possibile,
metro dopo metro valuto, osservo sul versante opposto della valle gli stavoli
di Colderon, da dove sto percorrendo essi mi paiono irraggiungibili. Ad un
tratto, sulla destra della carrareccia, dove sto camminando, scorgo un paletto
con un segno CAI, e atri segni in basso che conducono al greto del torrente. Mi
par di aver trovato la soluzione che cercavo, vado a costatare. Lascio la
carrareccia e seguo il sentiero nel vallone, si è proprio la soluzione che
cercavo. Mi fermo, mi siedo su una zolla d’erba, per calzare comodamente i
ramponi. Inizio finalmente l’ascesa della cresta del monte Ciade. Una volta
ramponato, seguo la marcata traccia segnata CAI 484, trattasi della variante
orientale che ascende alle creste di San Gualberto. Seguendo la pista guado il
torrente anonimo, passando su di una passerella in legno, e una volta guadato,
risalgo fino agli stavoli Colderon. Breve visita allo stavolo che trovo in
eccellenti condizioni. Un berretto appeso a una porta in legno mi avverte di
stare attento al lupo, cercherò di stare in guardia da me stesso. Il sentiero
segnato prosegue a occidente verso Claut, mentre io miro alle spalle dello stavolo,
a sud- est, attraversando prima per un prato imbiancato e immacolato, e di
seguito, continuo per la faticosa ascesa all’interno della fitta faggeta, dove
cerco i passaggi migliori. Scorgo alcuni bolli rossi sulla corteggia, quindi l’idea
si è rivelata ottima, di seguito i bolli spariscono, procedo ugualmente con l’intuito,
mirando all’azzurro cielo sempre più vicino. Il raggiungimento della cresta non è facile, durante
l’ascesa mi par di vedere una pista, ovvero, quello che è rimasto di un antico sentiero.
Raggiunta la sommità mi ritrovo su un punto segnato sulla mappa quota 899 m.,
dove è posto come segno un piccolo ometto. Dal pulpito panoramico ho una fantastica visione
su Claut e la valle circostante, la giornata è splendida e i raggi del sole mi danno
una forte carica. Mi riposo un attimo, mi do una sistemata al vestiario, e
riprendo la marcia, stavolta per la cresta del monte Ciade. L’emozione è grandissima.
La cresta nella mia simbologia rappresenta la corda tesa del funambolo, uno spartiacque
immaginifico tra bene e male, bello brutto, falso e vero, destra e sinistra,
dolce e amaro, vita e morte. E io, che adoro questa dicotomia, cammino in
bilico, su un filo teso e immaginario, scegliendo sempre il bene, il vero, il
bello, la sinistra della destra e la destra della sinistra, il dolce e la vita.
Inizio a incedere, il cuore mi batte a mille, è da è sempre così, e così sarà
in eterno, come la prima volta che fuggii dal seminario dove ero rinchiuso (recluso)
e ancora oggi continuo a rifuggire il noto per l’ignoto. Trovo una pesta, è un
sentiero battuto da cacciatori, e nei tratti dove la neve si spinge oltre il
regno dell’ombra scorgo anche le impronte di uno scarpone. Le mie impronte non saranno
le sole, oltre scorgo anche quelle di un capriolo. L’uomo ha seguito l’ungulato
o l’ungulato ha seguito l’uomo? Io seguo loro per la via, percepisco la loro
presenza, i loro pensieri, le loro paure e l’affaticato respiro. La loro irreale
presenza sarà la mia bibbia. La cresta è meravigliosa, e non lo si poteva intuire
dal basso e né dal volo di un’aquila, ma soltanto con il proprio effimero passaggio.
Il crinale è ripido a occidente, protetto dal fitto bosco che oscura e raggela
la valle Ciadula, mentre a oriente è estremamente vertiginoso, dove sono
costanti le tentazioni di librare le ali per volare sopra i tetti bianchi di
Claut. Sono Lupo e sono aquila, cammino sul filo di una lama di rasoio, balzando
dei salti che paiono voli. La mia doppia anima è astante, e io sto fantasticando
a occhi aperti. Lacrime invisibili solcano il mio volto, la mano tiene saldamente
la roccia mentre la parte del piede che non posa si espone nel vuoto. Fili d’erba
dorati paiono corde a cui non legarsi, dai profili adiacenti i nervosi e sofferenti
rami degli arditi faggi, posti di guardia alla via del funambolo, si slanciano come
anime affrante al cielo. Annunciato da continue folate che sembrano disperate grida,
sopraggiunge assiduamente il gelido soffio della tramontana. Mentre il soffio transita,
mi chino come una canna per non farmi spezzare, tengo stretto con le mani il
berretto di lana al capo. Con il corpo racchiuso nella posizione fetale la montagna
mi è grembo. Una volta passata la raffica, ritorna la mite temperatura, e io
riprendo il cammino.
La
prima cima che raggiungo è il Monte Ciade 1179 m. Veloce foto ricordo, e via di
seguito sino alla prossima elevazione, Punta Croda Spissa q 1205 m., proprio
una punta posta su uno sperone, dove poggio solo il l’insegna dello spirito
libero. Il futuro tracciato mi pare accidentato e tortuoso, e il raggiungimento
della quota più alta a occhio nudo appare assai problematica. La Punta De Sep,
q. 1331 m., si erge ripidissima su un ertissimo pendio avente entrambi i
versanti molto esposti e impraticabili. Mi par da lontano, a primo acchito, di
scorgere qualcosa tra i fitti rami, ma non c’è da congetturare, bisogna solo
operare, ed è quello che realizzo. Mi districo sulla ripida crestina, a intermittenza
esposta su un versante e l’altro. La paura del vuoto è alterata dal piacere del
pericolo, gli scarponi ramponati affondano gli spuntoni nella nuda terra, a
volte ferendo le radici degli incolpevoli mughi, altre stridendo sulla nuda
roccia, ma donando la sicurezza che ha l’aquila quando apre gli artigli per afferrare
la preda. Sul ripido e infido tratto finale, trovo riposo presso un pino posto
a fil di cresta. Mi fermo un attimo, ho bisogno di energia, finora sono asceso
senza mai fermarmi, ora che sono poco sotto la meta finale, sento il bisogno di
rifiatare. Sto seduto comodamente su una strana deformazione tronco del fusto, che
pare un comodo seggio, oltre di essa c’è il dirupo. Che emozione, mentre sto
scrivendo, riprovo le stesse intense sensazioni. Riprendo il racconto e il
viaggio. Sull’erto pendio, dopo un’ante-cima segue la cima, meno attraente e panoramica
dell’intera cresta. Nel tratto che precede la vetta ho letto nelle orme sulla neve:
le indecisioni del capriolo, e il passo sicuro dell’uomo che ha mirato alla vetta,
ritornerò in seguito su queste impronte. La cima è un fazzoletto bianco protetta
da faggi che ne occultano la visuale verso l’esterno. Presso un faggio dai contorti
arbusti trovo l’alloggiamento del barattolino dello spirito libero. La
tramontana è sopraggiunta, urla disperatamente, congelo di colpo, ho le dita
delle mani ridotte a bastoncini di pesce surgelato. Fare la foto di vetta è un ‘impresa,
la forza del vento a volte è così impetuosa che pare che mi voglia sradicare
dal terreno, con caparbietà riesco nell’operazione.
Per
scendere sarà un’impresa, provo a seguire le tracce del capriolo sul crinale che
prosegue a nord, ma anche esso va in crisi, infatti, inverte la direzione. Il
versante è troppo ripido, e per giunta il suolo è totalmente ricoperto di neve ghiacciata.
Inverto la direzione, risalgo la quota, ripasso dalla vetta cima, recandomi
dove in precedenza ho visto le impronte indecise del capriolo. Seguo e decifro
le orme, mi par di essere un apache. L’uomo e il capriolo sono ridiscesi dalla
cresta, da dove entrambi siamo ascesi. Io mi fermo a riflettere, studio la
morfologia del terreno e la carta topografica che ho al seguito. Ho un’idea! Sul
versante occidentale, quello ombroso, si apre un ampio catino nella faggeta.
Decido di scendere da questo fianco, con prudenza. Piegandomi sulle ginocchia
abbasso il baricentro del corpo per avere più equilibrio, mi avvio prima a nord,
e poi con un’ampia ansa al centro della conca, con un movimento, lento e
continuo, verso sud-est, finché raggiungo la base della concavità boschiva, ove
la ripidezza è assai minore. Grazie all’ausilio dei ramponi digrado senza patemi.
Man mano che mi abbasso di quota la pendenza diminuisce notevolmente, tra le fronde
mi par di individuare i prati imbiancati che circondano un riparo in legno visto
durante l’escursione sulle creste di San Gualberto. Infatti, con il procedere
della discesa aumentano le possibilità che io abbia ragione. Fatta! Ho centrato
in pieno l’obiettivo prefissato.
Transito
sul morbido prato solcato dal sentiero 484, missione compiuta! Autostima al
massimo. Con il pugno chiuso proteso verso il cielo, accompagnato da un urlo, esprimo
la mia gioia, scaricando tutta l’adrenalina accumulata. E dopo un gioioso ritornello
canticchiato in arcaico dialetto palermitano, riprendo il mio consueto flemmatico
e forbito decoro. Non ho appetito, la
tensione mi ha saziato, quindi percorro il sentiero 484 in senso orario. Raggiunta
la carrareccia noto un nativo, solitario, posto sull’arteria, lo saluto, mi
risponde con un cenno del volto e un rumore non meglio identificato proveniente
dalla bocca, evidentemente è poco loquace. Seguito per la carrareccia,
riconosciuto il paletto con segno CAI dell’andata, guado il torrente anonimo,
sino a raggiungere lo stavolo Colderon, da dove stavolta tiro dritto per la mulattiera.
Bel sentiero, comodo, durante il tragitto sfioro una stalla da dove odo il latrare
di un cane. La mulattiera, circumnavigando il
versante meridionale del monte, si prospetta sui tetti imbiancati di Claut. Che
magnifico contrasto pittorico, il profilo primaverile del sentiero che fluisce
nella gelida immagine invernale di Claut. Una rappresentazione surreale degna
di Renè Magritte, e anche della splendida realtà del funambolo che percorre universi
paralleli. L’antica via conduce alla frazione di Claut. Dolci e belle donzelle
transitano per i vicoli mentre io
sopraggiungo, come un forestiero nomade. Presso un muretto mi siedo e tolgo i
ramponi, desidero camminare brioso per le viuzze della cittadina, ammirando, nutrendomi
di tutto quello che offre all’occhio Claut. Noto una targa con effige
incorniciata in una falsa finestra e apposta nella facciata di un’abitazione. La
targa commemorativa è dedicata allo sfortunato campione di calcio, Grava
Ruggero. Dal nome nobile, come un grande imperatore normanno, lo sfortunato
calciatore perì nell’infausto incidente aereo di Superga, il 4 maggio 1949,
assieme alla gloriosa squadra di campioni del Grande Torino. Mi sono commosso nel
leggere l’epigrafe, nel frattempo si apre improvvisamente la porta del palazzo,
da dove esce un uomo. Gli chiedo se l’edificio fosse la dimora del campione; mi
conferma, il campione nacque a Claut e poi emigrò in Francia, e che anche l’ultimo
discendente della famiglia è scomparso. L’uomo interpellato si prende cura
della casa, sperando che qualcuno in futuro se ne interessi. Mi invita a
visitare l’interno, osservo ammiro gli oggetti e i particolari, e l’amore dei
gesti con cui quest’uomo, un parente lontano, dedichi il suo tempo al patrimonio
di un eroe che da tempo gioca a calcio nei campi elisi.
Lascio
il sito, avrei voluto continuare la conversazione, ma anche la timidezza mi
spinge a lasciare l’uomo nelle sue attività. Sicuramente ritornerò. Percorro gli
ultimi metri che mi separano dall’automezzo. È stata una giornata strepitosa, intensa.
Ho provato tantissime emozioni, sino alla fine dell’escursione. Per me la
montagna è: vita, gioia, conquista e storia di uomini. Oggi, come sempre, ho
vissuto.
Il
Forestiero Nomade.
Malfa.
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