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venerdì 26 febbraio 2021

Monte Diverdalce da Cazzaso Nuovo (Tolmezzo)

Monte Diverdalce da Cazzaso Nuovo (Tolmezzo)

 

Note tecniche. 

 

Localizzazione: Alpi Carniche

 

Avvicinamento: Lestans- Pinzano-Cornino-Interneppo-Cavazzo Carnico-Tolmezzo-Valle del But- Caneva-Fusea-Cazzaso-Cazzaso nuovo. Ampio parcheggio presso una cappella che precede il borgo.

 

Regione: Friuli-Venezia Giulia

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Dislivello: 608 m.

 

Dislivello complessivo: 608 m.


Distanza percorsa in Km: 8


Quota minima partenza: 756 m.

 

Quota massima raggiunta: 1215 m.

 

Tempi di percorrenza escluse le soste: 5 ore (con permanenza di neve)

In: solitaria

 

Tipologia Escursione: Paesaggistica

 

Difficoltà: Escursionisti per esperti per via dei sentieri non CAI, e di tracce di animali seguite in ascesa.

 

Ferrata- valutazione difficoltà:

 

Segnavia: bolli e segni: giallo-blu; rossi: bianco verdi

 

Fonti d’acqua: no

 

Impegno fisico: medio

Preparazione tecnica: media

Attrezzature: no

 

Croce di vetta: no, solo antenne e ripetitori

Ometto di vetta: no

Libro di vetta: lasciato appeso ad una antenna dismessa un contenitore con libretto di vetta.

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

1)               Cartografici: IGM Friuli – Tabacco 013
2) Bibliografici:
3) Internet: 

2)               Periodo consigliato: tutto l’anno

3)                

4)               Da evitare da farsi in:

Condizioni del sentiero: Sentieri selvaggi o tracce di animali


Consigliati:

Data: 24 febbraio 2017

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

Una buona conoscenza topografica sta alla base di tutte le mie avventure in montagna. Una materia praticata per la professione che svolgo, e che si è rivelata utilissima per la passione che prediligo, specie nelle situazioni di orientamento precario. Ecco perché spesso amo spulciare le mappe, leggendo i nomi delle località sconosciute, le quote, e di seguito passare all’ideazione di un’escursione.

 Di solito mi avvalgo di due tipi di mappe: delle IGM, acronimo di istituto geografico militare, e delle Tabacco che sono un dedotto commerciale delle prime. Nel confrontarle, spesso si scoprono sentieri remoti che al sottoscritto stuzzicano la fantasia.    Per quest’ultima escursione mi sono avvalso di questo metodo, riproducendo su un foglio A4, avanti e retro, entrambe le mappe delle località a cui ero interessato, e una volta predisposto lo zaino, ho atteso il giorno della ventura. Il versante orientale della Valle del But mi è quasi del tutto sconosciuto, in particolare la zona dove il fiume confluisce nel Tagliamento, quindi, è giunta l’ora di iniziare una sana e approfondita esplorazione della località. La giornata prescelta per l’escursione è all’insegna della primavera, la temperatura supera i 20 gradi, è naturale approfittarne per recarmi nel paradiso tolmezzino. Durante la guida dell’automezzo scruto l’orizzonte, in direzione della meta, e colgo i chiari segni del manto nevoso sulle cime del monte Cuar e Buron; rapito da cotanta bellezza, mi distraggo, inoltrandomi nella valle del But, sino a raggiungere la località di Zuglio. Ammetto, sono andato un po’ troppo avanti, ma nulla avviene per caso, quindi, percorrendo una strada montana, mi dirigo verso le località di Sezza, e successivamente, sempre in direzione sud, scopro l’altopiano Marcille. Tale località mi ha letteralmente incantato, ma non fa parte della programmazione odierna. Ripreso il cammino in auto, mi spingo ancora a sud, perseverando ancora per questa stradina di montagna, e sperando di non trovare interruzioni. La neve permane ai bordi dell’asfalto, a volte è così adrenalinica l’esposizione della rotabile, che mi par di guidare nel vuoto, finché, dopo alcuni sali scendi, raggiungo la frazione di Cazzaso Nuovo. Spengo il motore, sostando l’auto nell’unico spiazzo del borgo, proprio accanto a una costruzione a forma di capanna, adibita a punto di attesa per chi aspetta i mezzi di linea. Esco fuori dall’abitacolo, e mappa alla mano, do un’occhiata al rilievo nascosto dal fitto bosco di faggi. Dai segni topografici deduco che dovrei trovare una remota mulattiera, poco più avanti di un tornante, quindi, indossati gli scarponi e zaino in spalle, parto, seguito, lo spero tanto, da Tyche. Mentre percorro i primi metri di stradina, arriva un minibus locale da cui scende una signora vestita di rosso, l’automezzo vira nella piazzetta, il conducente mi saluta con un gesto della mano, ricambio. In una frazione di secondo ho respirato tutta la positività che si può trovare in montagna, soprattutto nella meravigliosa Carnia. La dolcezza del semplice gesto di saluto in questi tempi è encomiabile. Proprio al centro del tornante è posto un cartello con segni bianco verdi e indicazioni sentieristiche. È una delle numerose tabelle, molto curate, risalenti al 2017 e appartenenti alla comunità montana di Tolmezzo, citata sopra come città alpina.                             Inizio a percorre lo sterrato che dovrebbe portarmi in poco più di un’ora, dopo aver raggiunto la località di Curiedi, sul monte Dobis. Ma in testa mi frulla un altro nome, il monte Diverdalce, ne sto percorrendo le pendici orientali, quindi, distratto da una traccia in senso inverso, lascio lo sterrato e mi avventuro, sperando di aver fortuna. La nuova pesta non ha segni guida, si inoltra nel bosco e in esso si perde. Incrocio una nuova pista, stavolta segnata a tinte giallo rosse, e di nuovo invertendo il senso di marcia mi guida da nord a sud-ovest. Mi rassereno, il sentiero è marcato, finché, salendo di quota, incontro la neve e di conseguenza perdo il sentiero (i segni sono svaniti nel nulla).

Il percorso è insidioso, la neve è marcia, quindi rallenta tanto la progressione e la rende incerta, indossare i ramponi è inutile, sul putrido sprofondo e basta, quindi cerco una mia direzione, mirando in alto, dove mi pare che ci sia più stabilità. Sono attratto da un ripido costone, mi pare che mi faccia guadagnare tempo, quindi tra rare zolle di erba e macchie di neve salgo di quota.

A volte mi par di trovare tracce di passaggio, forse di animali selvatici, ma dopo pochi metri svaniscono le tracce, la dea Artemide si prende gioco del sottoscritto. Fa caldo, assai caldo, inizio a patire la fatica dovuta al ripido pendio, mi tengo e mi isso su per i massi e i rami più agevoli, e di tanto in tanto mi riposo poggiandomi di spalle su un tronco robusto di faggio, esposto sul ripido crinale.

Guardando all’insù mi pare di scorgere dell’azzurro oltre le fronde, questo mi incoraggia, ma superato un salto ne ritrovo un altro, amo il ravanare, ma preferisco raccontarlo dopo. Scivolo anche in un traverso, nulla di grave, ho solo infangato gli indumenti. Presso un altro robusto faggio, effettuo una breve sosta, destreggiandomi con equilibrio nel togliere lo zaino e adagiarlo in una posizione che eviti il suo inevitabile rotolamento a valle. Effettuo un’altra breve ma indispensabile sosta, recupero le energie e proseguo per l’ascesa, quasi sempre con andamento verticale. Giunto a ridosso della cresta, scorgo un pino silvestre, sotto la sua chioma è sgombro da neve. La cima è in vista, ancora cinquanta metri di quota più in su; lascio lo zaino, e mi avvio senza peso e incomodi verso la meta.

Senza zaino procedo con delizia, mi par di essere Ermes, ho le alucce agli scarponi, la neve è morbida, incedo nel candore bianco e mi tiro su, sperando che mi sorregga.

La massima elevazione è caratterizzata da una piccola centrale con parabole e ripetitori, peccato, è uno scempio per la bellezza del luogo. In cielo volteggia un numeroso stormo di grifoni, e il paesaggio spazia su tutta la Carnia, specie sulle elevazioni del tolmezzino e quelle del Verzegnis. Il cielo riflette una strana luce, filtrata dall’umidita dell’esalazione della neve a causa dell’alta temperatura. Raggiunta la vetta, cerco di ignorare le strutture, concentrandomi sul fascino del sito, ma non è facile. Adopero come ipotetica croce, un’antenna dismessa, dove apporto il contenitore con il libricino di vetta e il simbolo del gruppo. Non sosto molto in cima, dopo la foto di rito, riprendo il cammino in direzione del pino dove ho mollato lo zaino. Ripreso il sacco ora viene il bello dell’avventura, mirare all’altopiano in basso, tramite la ripida e innevata cresta. I primi cento metri di dislivello in discesa sono facili e divertenti, ma poi mi ritrovo a ridosso di un tratto molto verticale e pericoloso. Taglio trasversalmente verso occidente, fino a raggiungere un fitto boschetto di noccioli, mi districo dentro di esso, e uscito fuori, mi ritrovo davanti un prato imbiancato e dominato dai resti carbonizzati di un abete bianco incenerito da Zeus.

Continuo a scendere, sempre a meridione, per il ripido pendio, scorgo delle impronte umane sulla neve, deviano a oriente, poi le perdo tra i ciuffi d’erba. A sud non posso precedere, mi spingo sulla cresta a oriente, e una volta raggiunta, finalmente trovo qualcosa che sa di passaggio, seguo la pesta a meridione, per il ripido crinale.

Sono consapevole, che in quasi vent’anni di escursionismo solitario ho imparato molto, soprattutto come togliermi dalle situazioni più imbarazzanti. Scendendo dalla crestina, trovo un primo bollo rosso, che mi pare un miraggio, poi un secondo e un terzo ancora. Alleluia, la dea bendata e tutti gli dèi dell’Olimpo mi sono venuti in soccorso. Ora cammino su per un autentico sentiero, ben marcato come dio comanda, e segnato di un rosso fuoco, quindi di recente fattura. I segni mi guidano sulla traccia da sud a nord; essa, con perdita costante di quota, taglia il versante orientale del monte, per poi invertire la rotta e procedere su terreno meno malagevole. Raggiunta una forca (ampie frecce rosse su dei massi) procedo a sud, scendendo per il pendio dentro il fitto bosco di aghiformi, sino a sbucarne fuori, nell’ampio e imbiancato prato sottostante. Sono definitivamente fuori dalle insidie. Wow! Emozionante quanto ho appena fatto, ogni talvolta che raggiungo una meta prefissa ho sempre un alto senso di godimento. Procedo a sud, mi trovo in una ampia prateria, le fattorie a quanto pare sono ancora attive. Il piano è tutto imbiancato tranne dove lo scorrere degli automezzi ha lasciato il segno bruno della terra umida. Mi dirigo verso un gruppo di trattori, e uno in particolare mi attrae, rapisce e commuove. È bello, di un colore rosso arso dal tempo che sa più di arancione. Dall’aspetto è vissuto, si chiama Minitauro, lo nomino torello, ha un motore in ottime condizioni, direi un cuore ruggente, e non posso che amarlo. Da piccino, affacciandomi dal terrazzo della mia abitazione, nella periferia della città natia, osservavo i piccoli trattori rossi, sciorinare per i campi e disegnare solchi profondi che a primavera diventavano di un verde lucente, quasi smeraldo. Fantasticavo tanto, ho sempre desiderato avere come gioco, un piccolo trattore rosso e guidarlo, anche se la vita mi ha portato a guidare e dirigere i mastodontici cingolati di colore verde. Ecco perché il piccolo trattore mi emoziona, è il giusto premio per la conquista del monte. Effettuo un autoscatto con la macchina fotografica, mettendomi in posa sul trattore, è un ludico piacere. Anche se è un automezzo, ne ho sentito lo spirito, e anche se è spento il rombo del motore. Chi osa fermare la fantasia di un uomo rimasto bambino? Scruto altri trattori e camion, ma non sono rossi, e le case non hanno la forma di quelle costruite con i mattoncini dei Lego. Mi spingo a sud, quasi volo per la gioia che provo, percorrendo una stradina di campagna che in fondo interseca quella asfaltata che sale da Fusea. Le signore carniche vanno e vengono su con i loro automezzi, gli operai sono assenti, come se fossero stati inghiottiti da una figura oscura, sicuramente, vista l’ora, sono a pranzo, e hanno lasciato gli automezzi disseminati come in un incantesimo. Raggiunta la strada asfaltata, procedo a oriente, verso Fusea, un cartello con indicazioni mi invita a salire sul monte Dobis, raggiungibile in mezz’ora, sarà per un'altra volta, mentre un altro cartello mi invita a proseguire per Fusea tramite il “sentiero Stozador”, invito accolto.

Dopo pochi metri di neve dura mi ritrovo nel bel sentiero che scende ripido alla località di Fusea. Il borgo, una volta uscito dal bosco, mi pare un paesello da favola, dominato da un singolare e alto campanile, e dietro di esso, in lontananza scorgo prima il monte Strabut, e dietro di esso, la regina della Carnia, la piramide del monte Amariana.

Questa visione è un autentico dipinto con i segni caratteristici e inconfondibili della Carnia. Procedo verso la periferia del borgo, accompagnato dall’abbaiare di alcuni cani semi convinti di fare la guardia, sicuramente più per dimostrare ai padroni che sono attivi che per fede. Seguo le indicazioni per Cazzaso, e dopo un chilometro avvisto quest’altro bel borgo, stavolta il paesello è dominato da una grande chiesa e un minuto campanile. Mi fermo ai bordi della carreggiata, posta in alto rispetto al piano del borgo, ad ammirare il paesaggio. In lontananza domina il monte Sernio, in questo luogo mi piacerebbe viverci. Passo accanto a un’abitazione molto singolare, dipinta con i segni inconfondibili del CAI, ha le ante aperte, e strani oggetti e peluche sparsi ovunque, una nota di fantasia che mi giunge gradita. Continuo il cammino del ritorno, seguendo le indicazioni per dove sono partito. Presso un tornante dei boscaioli sono intenti ad operare, e dopo un centinaio di metri eccomi all’automobile, fine dell’anello e dell’avventura.

Mi libero del peso dello zaino, degli scarponi e degli abiti sudici di fatica. Prima di partire, effettuo una breve visita al borgo, notando una casona azzurra. All’esterno staziona un gattino bianco, ha lo sguardo triste e gli occhi paiono malaticci; il suo amico dirimpettaio è un cane che dall’aspetto diabolico con le pupille color fuoco, mi fa paura. Rientrato dalla visita, metto in moto l’auto e ritorno con calma, godendomi dall’interno dell’abitacolo la bellezza del luogo. Così, in perfetta beatitudine ha termine la bella escursione in uno dei luoghi più affascinanti della montagna friulana, la meravigliosa Carnia.

Il Forestiero Nomade.

Malfa.







































































 

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