Monte
Vit (723 m.) da Anduins
Note
tecniche.
Localizzazione:
Prealpi Carniche
Avvicinamento:
Lestans- Valeriano-Pinzano- Casiacco- Anduins- Dal centro del paesello seguire
le indicazioni per la chiesa di Santa Margherita (m 381, comodo parcheggio).
Regione:
Friuli-Venezia Giulia
.
Dislivello:
600 m.
Dislivello
complessivo: 600 m.
Distanza percorsa in Km: 13
Quota minima partenza: 381 m.
Quota
massima raggiunta: 795 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 4 ore
In:
solitaria
Tipologia
Escursione: storico-paesaggistica
Difficoltà:
turistica-escursionistica
Ferrata- valutazione
difficoltà:
Segnavia:
Locali- bolli giallo -rossi
Fonti
d’acqua: no
Impegno
fisico: basso
Preparazione
tecnica: bassa
Attrezzature:
no
Croce di vetta: Si,
presso pulpito panoramico Vit.
Ometto di vetta: no
Libro di vetta: no
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: tutto l’anno
3)
4)
Da
evitare da farsi in:
Condizioni del
sentiero: Remoti troi in buone condizioni
Consigliati: Macchina fotografica, luogo bellissimo.
Data: 11 febbraio 2018
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
L’assassino spesso ritorna
sul luogo del delitto, e mi riferisco al sottoscritto, che a circa due mesi
dall’escursione sul Monte Pala, vaga nel gruppo montano che sovrasta le
frazioni di Anduins, Clauzetto e Vito d’Asio. Il punto di partenza è prefissato
ad Anduins, poco dopo la chiesetta che domina dall’alto la frazione (quota 381
m.).
Una volta raggiunta la località, mi appronto
velocemente per l’escursione, sperando bene nelle previsioni metereologiche. Da
una scaletta accedo alla mulattiera con le indicazioni “Strada di Mont”, percossa
di recente, e confesso che continua a deliziarmi.
L’arteria montana, con
il suo lineare taglio sul versante del monte, stimola a lasciarsi andare a
riflessioni meditative, e la leggera nebbiosità con l’ausilio di alcune gocce
di pioggia, aumenta questa curiosa sensazione. Durante l’ascesa incontro una
coppia di senili escursionisti, hanno l’aspetto di chi conosce benissimo il
luogo. Al primo bivio seguo a destra la mulattiera, dirigendomi alla nota pieve
della Madonna delle nevi. All’interno del luogo di culto lascio un libro a
beneficio dei viandanti, “Cent’anni di solitudine” il capolavoro di Gabriel
García Márquez. Da tempo pensavo a questa iniziativa, e da oggi persisterò in
questo proposito. Anche il sostare dieci minuti per leggere una pagina di un
libro è un toccasana per lo spirito, fa stare tanto bene, mai dimentico che una
volta la cultura era solo a beneficio delle classi agiate.
Continuo il cammino,
seguendo il sentiero di cresta, sino al pulpito panoramico dove è in bella
mostra il mosaico dedicato alla Madre del Friuli. La nebbia copre la visione,
continuo l’escursione a settentrione, scendendo rapidamente in un avvallamento
prativo e mirando a nord-ovest, ben sicuro di trovare una traccia che mi porta
agli stavoli di Fagel.
L’atmosfera creata
dalla vegetazione e dalla bruma mattutina è magica, stimola a sognare e
lasciarsi andare a mille e più fantasie.
Come avevo intuito,
trovo la pista e subito dopo sono a ridosso del borgo. Una graziosa capretta,
legata a un albero, mi dà il benvenuto, venendomi incontro essa mi annuncia la
presenza del villaggio.
Raggiunto il borgo, mi
fermo alla prima casa, che ha un aspetto trascurato e kitsch, come se
l’edificio fosse abitato da un viandante. Infatti, dopo aver udito l’abbaiare
del cane legato, il belare della capretta, e percepito la curiosità di un
gruppo di gatti, odo il cigolio delle cerniere della porta dell’abitazione, e
da esso vedo venir fuori un gigante dall’aspetto buono. Sorrido, mi ricorda dall’aspetto
un normanno: forte, coraggioso, intrepido ma dall’animo nobile.
L’omone si chiama
Gino, ci presentiamo, instaurando una breve, calorosa e piacevole conversazione.
Vive, come unica e costante presenza umana, in questo pittoresco borgo, usufruendo
alla meno peggio dei beni di consumo essenziali della nostra civiltà, cioè,
luce e acqua.
Un vero spirito
libero, che ha deciso di vivere nella completa solitudine e lontano da tutti.
Ci vuole coraggio per essere veramente liberi, e lui lo è. La conversazione
termina velocemente, avrei voluto visitare il suo alloggio, mi rimane la curiosità
e la richiesta non compita, sarà per un‘altra volta. Mi congedo dall’amico, con
il mio classico saluto a V con le due
dita della mano, saluto anche gatti, capre e il cane, e continuo il cammino.
La frazione di Fagel è
davvero ammaliante, con i suoi stavoli in buone condizioni e disposti intorno a
un ampio prato, come se ricalcasse il perimetro di un antico castelliere. Dagli
stavoli mi congiungo a una stradina asfaltata e mi avvio a nord-ovest,
imboccando, alla prima diramazione, la stradina a sinistra che si inoltra sino
alla Valle di Mont.
Dopo una serie di
tornanti, la strada di montagna si apre sui prati della piccola valle. A
sinistra scorgo dei cartelli, un gigantesco abete rosso e posto come sentinella
all’inizio del troi che mi riporterà al ritorno sulla mulattiera percorsa in
mattinata.
Dopo pochi metri scorgo
a destra un prato che conduce a un solitario stavolo, esso mi attrae e chiama
con il suo silenzioso aspetto, ed è naturale avvicinarmi per indagare.
L’edificio è una
struttura costruita sapientemente con i sassi, divisa in più piani, ma quello
che mi colpisce in particolare sono la forma delle finestre. I fabbricanti
hanno ideato con le pietre (sapientemente scelte) architravi sormontati da
triangoli, in modo da suddividere e scaricare meglio il peso. I muri spogli e
l’assenza delle imposte in legno consumate dal tempo, dona agli edifici un
aspetto simile a quello della civiltà micenea. C’è tanta magia nell’atmosfera, mi
aspetto che all’improvviso una divinità esca dalle semioscurità. La sosta al
remoto edificio dura giusto il tempo concesso all’amore per il sacro animo, e
poi riprendo il passo, seguendo prima la strada asfaltata, e persistendo a non
cadere nella tentazione di lasciare il selciato per i morbidi prati.
Una stradina di
montagna mi invita a seguirla ad occidente, delimitata da uno steccato in legno,
essa conduce ai margini occidentali della valle. Sono sicurissimo che il luogo
era frequentato sin dai tempi remoti, ci trovo tutti i previsti elementi naturali
tranne lo scorrere di un torrente. Ammiro gli isolati stavoli, posti a debita
distanza l’uno dall’altro, in ottime condizioni, e sovrastati dal misterioso e
fitto bosco che tinge di verde ombroso le pendici meridionali del Monte Pala.
Seguo sempre la
carrareccia, ho fame, effettuo una pausa presso uno stavolo. Un tavolo con
panche è posto all’esterno, dal camino dell’edificio viene fuori del fumo, svelando
che della brace arde all’interno di un caminetto, e le recenti tracce degli
pneumatici sul prato mi indicano che la dimora è abitata. La breve pausa del
pasto è rapita anch’essa dalla visione delle vestigia di quello che ammiro del
circondario. Tanti stavoli in ricostruzione, muri a secco che creano disegni
sul terreno. Mi nutro di cibo, ma anche di amore, e mai di esso mi sazio. Fantastico
su quanto sarebbe stato bello essere all’interno dello stavolo, seduto su una vetusta
sedia a dondolo, un plaid sulle gambe, un bicchiere di rosso e un buon libro. Riprendo il cammino, seguendo la carrareccia
sino a un bivio, indicazioni per il Mont di Vit, ci metterò un po’ a intuire
che la scritta Vit sta per Vito d’Asio, e che il monte citato è il colle a cui
mi appresto a fare una doverosa visita di cortesia.
Stavolta seguo un vero
e proprio sentiero, lungo il cammino trovo alcune indicazioni con cartelli.
Raggiungo la forcella che si affaccia sulla frazione di Vito d’Asio, il
sentiero scende al borgo, io proseguo a sinistra per la cresta. Dopo alcuni
metri, su un tratto molto scosceso ed esposto una luminosa croce in legno segna
il pulpito panoramico che domina Vito d’Asio e i colli circostanti. Lo sguardo
vola sino alla pianura friulana solcata dal magico scorrere del fiume più bello
d’Italia, il Tagliamento.
Il gioco delle nubi
lascia filtrare i raggi del sole, nebulizzi di azzurro tingono la volta celeste,
la magia del creato gioca a fare l’artista, e io, da umile spettatore, assisto
alla prodigiosa rappresentazione. Sono tremendamente attratto sempre da ciò che
mi sovrasta, sia in senso metaforico che fisico, insieme al sapere prediligo l’ignoto.
Poco avanti scorgo la
quota più alta del monte Vit, mi approssimo ad esso tramite un troi edificato
con muri a secco perimetrali, e che con il suo andamento lineare accarezza,
poco sotto, a settentrione, la cresta del monte. La traccia non è segnata sulla
mappa, benché sia molto evidente, peccato. Per un breve tratto lo lascio,
salendo in cresta e raggiungendo il punto più alto, ovvero degli enormi macigni
dirupanti a meridione. Mi districo tra la selvaggia cresta e raggiunto il masso
più alto, trovo all’interno della sua forma carsica una fenditura idonea a
ospitare il contenitore con il segno di passaggio del viandante.
Con cautela, scendo di
pochi metri di quota sino a ricongiungermi con il remoto sentiero di prima. Lo
percorro con gioia, intuisco che continua a lambire la cresta sino al
decrescere della quota. Poi ad un tratto, per alcune centinaia di metri, vira a
settentrione, sfiorando i ruderi di uno stavolo e alberi secolari dalle più
svariate forme. Un vero incantesimo da svelare, ogni singola foglia, pietra,
albero è una storia che va ascoltata, vissuta e raccontata. È cotanta l’energia
vitale che assimilo, pari a quella che emano. Con la natura ho avuto sin da
fanciullo, un canale preferenziale. Sono cosciente di essere un uomo fortunato,
un prescelto, e ad essa, la vita, mi dono senza esitazioni. Il sentiero adesso sembra
rientrare nell’aurea prateria, ma devia improvvisamente, come se volesse posticiparmi
il rientro, lo seguo, e confesso, con qualche esitazione. La traccia lascia il
troi ben marcato e scende per stretti tornanti lungo il costone orientale del
monte, sino a sbucare in un pulpito panoramico vegliato dalle rovine di un
vecchio edificio, e una ancona (Pre Daniele del XIX secolo e dedicata ai santi
Umberto e Vittoriano) in ottime condizioni.
Mi ritrovo in un altro luogo magico, proteso verso la pianura, sicuramente
un osservatorio dei Celti o dei Legionari Romani, di seguito canonizzato e
messo a disposizione della civiltà montana.
Il sentiero scende sulla
strada asfaltata, seguo una traccia a sinistra del rudere, che in breve (sfiorando
i tralicci dell’alta tensione) mi porta sui tanto agognati prati dorati della
Val di Mont. Ma il viaggio magico non è ancora finito. Appena fuori dal
sentiero scorgo un’architettura commemorativa costruita sull’adiacente colle. Il
monumento è stato edificato dagli alpini nel 1982, in onore dei propri caduti.
Un’aquila di bronzo sovrasta la struttura in pietra, lanciandosi con il suo
volo verso la vicina pianura. Lo stridere dell’aquila e il tricolore che
sventola sul pennone, il berretto con la penna nera, sono un chiaro monito a
chi vuol buttare alle ortiche la secolare tradizione del prestigioso e glorioso
corpo dell’esercito italiano. Accosto la ghirlanda spostata dal vento al
monumento, un attimo di silenzio in onore dei caduti, e riprendo il cammino per
il rientro.
Stavolta taglio per i
prati, un’emozione che avevo solo rinviato in precedenza. Raggiunto l’inizio
del sentiero che mi porta ad Anduins, seguo le indicazioni, lambendo altri
stavoli. La originaria vegetazione arborea posta a perimetro del sentiero indica
il continuo scorrere del tempo. Sono continuamente immerso dentro un'altra
epoca, e questa sensazione la nutrirò sino alla periferia di Anduins. Poco
prima del parcheggio ricevo un gradito e sorprendente omaggio floreale, una
rosa di colore rosso magenta scuro, che racchiude il fuoco della passione e la
sublimazione della vita nei suoi delicati petali. È una fioritura fuori
stagione, non la colgo, la fotografo e basta, dipingendola nel cuore. Così ha
termine una splendida escursione, ricca di poesia, amore e calore umano. Un altro
sogno vissuto a occhi aperti.
Il Forestiero Nomade.
Malfa
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