Col Manzon , Col Tarond e la foiba Fous di
Balancetto (Balanceta)
Localizzazione:
Prealpi Carniche
Avvicinamento:
Lestans-Travesio-Praforte- sostarer l’auto presso un ampio parcheggio poco
prima della fine del tratto asfaltato
(divieto di transito).
Regione:
Friuli – Venezia Giulia
Provincia
di: PN
.
Dislivello:
398 m.
Dislivello
complessivo: 398 m.
Distanza percorsa in Km: 10
Quota minima partenza: 455 m.
Quota
massima raggiunta: 747 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 3 ore
In:
solitaria
Tipologia
Escursione: storico-escursionista
Difficoltà:
Escursionisti esperti per la tipologia del sentiero
Tipologia sentiero o
cammino: Carrareccia- sentiero-militare- traccia con una foiba pericolosa per
via di assenza di recinzione malgrado intorno vi siano piantati dei paletti in
metallo.
Ferrata- no
Segnavia:
CAI
Fonti
d’acqua: no
Impegno
fisico: basso
Preparazione
tecnica: bassa
Difficoltà
di orientamento: media
Attrezzature:
nio
Croce di vetta: croce
presso la foiba
Ometto di vetta: no
Libro di vetta: no
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
Consigliati:
Periodo
consigliato: tutto l’anno tranne se il
tracciato finale sia innevato per via della foiba.
Da evitare da farsi
in: Condizioni di sentiero innevato
Dedicata a: chi ama
sapere la storia del territorio
Condizioni del
sentiero: marcato e bollato
N° 677
Cartografici: IGM Friuli
– Tabacco
2) Bibliografici:
3) Internet:
Data dell’escursione:
martedì 14 febbraio 2023
Data di pubblicazione
della relazione: giovedì 02 marzo 2023
Riprendo a scrivere dopo un breve periodo che
mi sono preso per una pausa meditativa, e sono indietro con le pubblicazioni di
almeno quaranta relazioni. Ultimamente preferisco camminare, vivere, e fotografare
più che scrivere. Un periodo di riflessione che vivo intensamente, riprendendo il
descrivere l’ultima uscita, proprio a
due passi da casa, sul monte Ciaurlec. L’idea
dell’escursione l’ho presa dal gruppo di
Facebook “La montagna per Spiriti Liberi”, un post pubblicato da Barbara e
Mauro, che mi ha incuriosito, utile per
colmare alcune mie lacune storico naturaliste sul luogo in cui vivo. L’argomento
principale dell’escursione è la Foiba di
Balancete, di cui un amico in precedenza mi aveva accennato. Ho chiesto
gentilmente a Barbara di delucidarmi sulla posizione esatta della foiba, ed
ella è stata gentilissima ed estesa di informazioni. L’indomani dalla
pubblicazione del loro post sul gruppo , mi sono armato di zaino e scarponi e avviato
per Praforte, dove avrei lasciato l’automobile
e iniziato l’avventura.
Una delle poche
giornate all’insegna del sole è l’ideale per la caccia al tesoro. Inizio il
passo dall’ultimo tratto asfaltato,
opera del genio militare nei decenni precedenti. Ricordo bene che nel dicembre
del 1985 percorrevo lo stesso tratto con i miei soldati per andare a esercitarmi
con le armi da fuoco nell’adiacente poligono di tiro. Son passati quasi quarant’anni
ma i ricordi sono ancora vividi, oggi le armi da fuoco tuonano ancora ma sono quelle dei cacciatori.
Dal parcheggio mi avvio per una delle molteplici carrarecce di servizio al
poligono, viro e miro direzione
occidente, verso le pendici del Col Manzon. La mia idea di percorso progettata
sulla mappa è quella di procedere in senso orario, cioè, scalando la vetta del
Col Manzon, poi del Tarond e di seguito dirigermi verso i ruderi della casera
De Zorzi, alla ricerca della Foiba. Il bello del dire e il fare è che tutto può
cambiare. Infatti, durante il cammino tra le fila di noccioli, noto un cartello
mi indica la foiba a 50 metri, evidentemente è il cartello che invita a seguire
un sentiero. Dopo cinquanta metri circa di carrareccia percorsa mi trovo ad un
bivio e dei bolli rossi mi invitano a risalire una mulattiera ben battuta, che
seguo diligentemente. La pendenza è moderata, e spesso mi fermo per voltarmi
indietro e ammirare la pianura friulana che appare più magica del solito per
via di alcune velature. Sto percorrendo un tratto con vegetazione sporadica, pare
una steppa e prende il nome sulla mappa
di Plans.
Dei reticolati arrugginiti
e dei cartelli logorati dal tempo mi avvisano che sto circumnavigando il passato
poligono, finché il reticolo si apre, e su un ramo noto un altro cartello in
metallo con le indicazioni per la foiba. Lascio il sentiero battuto, per seguire
una traccia ricca di segni rossi e nastri in plastica sbiancati e resi
trasparenti dal tempo. Stavolta la pendenza aumenta notevolmente, ma si aprono
ampi prati dorati, che contrastano in modo sublime con il dominante cielo
azzurro. Avverto una forma di beatitudine e piacere nel camminare, non conosco
altre forme di felicità superiore a quella che sto praticando. Una serie di tornanti
nei prati e altri cartelli con indicazione mi conducono presso un ampio prato
dove trovo la prima foiba, assai paurosa per l’impatto visivo. Dei paletti
arrugginiti sono di contorno, ma non c’è recinzione, e il fissare il vuoto
oscuro mi intimidisce. Sto sul margine a fissare l’oscurità e a fantasticare, mentre
noto a occidente, al limite di una macchia di arbusti un pennone dove
sventolano due bandiere con il simbolo del Friuli, trattasi della nota Foiba di
Balancete.
Esco dalla traccia e
mi dirigo alla foiba, materializzata da una fossa e un carpino dove è fissato l’elenco
delle vittime sacrificate. Undici, tra uomini e donne, infoibati dalla vendetta
dei partigiani nei confronti dei presunti delatori, tutto questo crimine alla fine del
secondo conflitto mondiale (a fine relazione allegherò parte di un documento
per chi vuole approfondire).
Sgancio lo zaino, lo
adagio sul prato, ispeziono la fossa
aggirandola, è meno tenebrosa della foiba precedente, e a quanto vedo da uno
schizzo, anch’esso affisso all’albero, la foiba ha due canali di accesso, ed è
profonda parecchi metri. Mi sono documentato prima della partenza, mi fermo
davanti alla foiba a riflettere. Provo pietà e non dolore per la gente che è
stata infoibata, almeno che non fosse innocente. Se alcuni di queste vittime
furono delatori, con il loro infausto agire provocarono delle morti, e mi
chiedo se sia valsa la pena denunciare, consapevoli che i malcapitati avrebbero
fatta una brutta fine. È un’infame storia di guerra, che per quanto posso
intuire ha portato ancora degli strascichi nella memoria di chi ha vissuto quel
periodo e degli stessi discendenti. Saluto con un saluto militare rivolto alla
foiba in segno di rispetto, e di seguito mi sdraio sul prato, fissando dall’alto
la meravigliosa pianura. Dopo essermi sollazzato una buona mezzora, riprendo il
cammino, lambisco a occidente i ruderi della Casera De Zorzi, che trovo avvolti
da un fitto roveto, e di seguito, mirando sempre a occidente, raggiungo il
sentiero C.A.I. 850 che mi conduce sul piano
alle pendici del Col Manzon.
Esco fuori traccia per
raggiungere la vetta del Col Tarond, nessun segno che la identifica e di
seguito , mentre mi dirigo sul Col
Manzon, vengo adombrato da qualcosa. Volgo lo sguardo al cielo e scorgo un grifone,
e poi di seguito, un secondo e un terzo, finché un munito stormo di questi
splendidi rapaci adombra la volta azzurra, deliziandomi con il loro magico volteggiare.
La tristezza della visione della foiba è stata sostituita da quest’ultima
magica apparizione. Stanno a volteggiare sul Col Manzon, sicuramente facendosi
cullare dalle note correnti aeree. Ad
essi mi dirigo, e per accelerare il passo ripercorro la mulattiera da occidente
e oriente. Sul cammino avvisto un omino con un vistoso zaino, dopo pochi minuti
materializzo che l‘omino sulle spalle porta l’attrezzatura per volare, il parapendio. Ci incontriamo, è un simpatico
e solitario sloveno, comunichiamo in un rudimentale ma efficace inglese. Gli esprimo dove sono
stato, e so benissimo che tra pochi metri egli si lancerà in volo da questa area.
Ci salutiamo con il saluto del gruppo La
Montagna per Spiriti Liberi e con verbale Peace and Love. Mentre l’amico si
prepara per il volo pindarico, io mi avvio verso la fitta vegetazione che
precede la vetta del Col Manzon.
Davvero selvatico il
colle, e raggiungere le due più alte quote è problematico. Da vent’anni non ascendevo
il colle, e da allora è cambiato ben poco. Ho ritrovato la fitta vegetazione e gli
stessi massi adorni di muschio, cima davvero selvatica. Dopo la conquista della
piccola elevazione ritorno indietro, e mi avvio al rientro circumnavigando il Col
Manzon, stavolta dal versante meridionale. Un’ombra oscura di nuovo il mio
passo e ancora dall’alto, stavolta non è un grifone ma il mio amico sloveno
incontrato in precedenza che volteggia beato nel cielo. Con i bastoncini da trekking
gli faccio dei segni di saluto, volteggiando si avvicina a me, e mi saluta con un: << Ciao amico, sei ancora qui? Ciaoooo!>>
E di seguito si allontana volgendo le ali a sole. L’escursione volge alla fine,
è stata una splendida giornata, iniziata nel ricordo del dolore, e finita nella
gioia dell’amore tra i popoli, tra uno spirito libero che vola con gli scarponi
e l’altro che volteggia nel cielo.
Malfa.
Breve storia sulla Foiba di Balancete:
Nel gennaio 1946 la triestina signora Bressanuti Lucia
su consiglio dell'allora Preside della Provincia dott Palutan, si rivolgeva
implorante all’Ispettore Umberto Degiorgi dirigente del reparto
Scientifico della Polizia Civile della Venezia Giulia. Il di lei
figlio, Vinicio Bressanutti, di anni 17, giovane aitante,
appassionato dello sport della montagna, era scomparso fin dall’agosto 1944. Il
povero ragazzo per sottrarsi all’imminente arruolamento effettuato dai tedeschi
fra i giovani triestini, aveva ritenuto opportuno allontanarsi da casa e si era
recato presso una famiglia di amici nel paesino di Travesio. Quivi,
attratto dalla sua passione sportiva, intraprese una gita verso le falde del
monte Tamer, dal quale non fece più ritorno. La povera madre, che non si era
risparmiata pericoli e fatiche alla ricerca dell’adorato figliuolo, aveva
finalmente trovato aiuto e conforto da un apostolo della fede, don
Basilio Miniutti Arciprete di Travesio. Il buon sacerdote, al quale si
deve se il paese non fu distrutto per rappresaglia dai tedeschi, era riuscito
ad individuare in alta montagna, il punto in cui era stato sepolto il povero
Vinicio, che sorpreso da sedicenti partigiani era stato ucciso ai piedi della
montagna, nonostante il viso imberbe ed i calzoni corti mostrassero con
evidenza la sua giovane età.
La desolata madre disse all’Isp. Degiorgi che il dr. Palutan
l’aveva favorita in quanto poteva, facendo costruire un feretro entro cui
riporre i resti dell’infelice giovane, ma che era necessario si rivolgesse al
commissario, il quale aveva già dato prova di tanta abilità nel ricupero di
salme nella cosiddetta “campagna della morte” compresa nel triangolo
Ronchi-Redipuglia-Aquileia, poiché solo lui avrebbe potuto trovare il modo e i
mezzi per il ricupero e il trasporto al cimitero di Trieste dei resti del
povero Vinicio.
Il cuore paterno dell’Ispettore, scosso dalle cocenti lacrime che
accompagnavano la narrazione della supplice madre, organizzò la spedizione pur
superando non lievi ostacoli. Il paese di Travesio esulava dalla giurisdizione
territoriale della Polizia Civile della Venezia Giulia, tuttavia la
provincia di Udine era ancora controllata militarmente dalle truppe alleate,
cosicché il bravo ispettore riuscì a convincere il suo diretto superiore cap.
inglese Bolt, della opportunità dell’intervento. La spedizione ebbe inizio
la sera del 20 febbraio 1946 e fu condotta a termine la sera
seguente con il trasporto al cimitero di Trieste dei resti della giovane
vittima.
La stessa sera del 21 febbraio 1946, mentre l’Isp.
Degiorgi trovavasi nell’Ufficio Parrocchiale di Travesio intento a redigere il
verbale di recupero e di identificazione della salma del Bressanutti, due
giovani e una donna vestiti a lutto si presentarono a lui, gli si
inginocchiarono davanti, e piangenti implorarono, ch’egli li aiutasse a
estrarre da un pozzo profondo 85 metri il corpo straziato della loro adorata
madre e rispettivamente sorella. Erano costoro gli orfani fratelli Agosti, di
17 e 19 anni, figli dei proprietari dell’unico caffè del paese, che
accompagnati dalla zia erano accorsi in cerca dell’Isp. Degiorgi per
raccontargli come fossero stati orbati di entrambi i genitori e che mentre la
salma del loro papà era stata ritrovata sepolta presso una stalla, quella della
madre era stata gettata nella foiba denominata “Fous di Balancetto”, il
cui orificio si apre sulle falde del monte Tamer, a circa 800 metri sul livello
del mare in un punto poco distante da dove erano stati dissepolti i
resti di Vinicio Bressanuti.
L’Ispettore promise di occuparsene e pertanto consigliò don
Miniutti di scrivere al Capo della Polizia Civile della Venezia Giulia colonnello
inglese Thorn pregandolo di voler dare l’incarico all’Isp. Degiorgi di
procedere, a mezzo dei suoi bravi uomini, al difficile recupero delle salme
giacenti in fondo all’orrido pozzo. Il colonnello Thorn accordò di buon grado
il suo assenso e dopo una meticolosa preparazione ed accurata attrezzatura con
mezzi ideati ad hoc, la seconda operazione ebbe luogo il 6 aprile 1947.
La squadra composta da agenti di Polizia, vigili del fuoco e
giovani speleologi raggiunse Travesio nel tardo pomeriggio a bordo di due
autocarri. Sugli automezzi erano state caricate corde, carrucole, scale,
argani, travicelli, lampade a carburo ed elettriche, maschere anti gas,
autoprotettori ad ossigeno, oggetti di pronto soccorso, viveri di conforto,
nonché 12 bare grezze che tanti apparvero i corpi umani da recuperare in
seguito ad una opportuna esplorazione nel fondo dell’abisso.
La desolata famiglia Agosti si prodigò nel fornire alloggio e
vitto per la squadra, mentre l’Ispettore preso contatto con don Miniutti
provvide a far trasbordare su due slitte a trazione bovina gli attrezzi e le
bare. Prima dell’alba del giorno 7 aprile, guidata dal buon pievano
ed alla luce smorta delle stelle, la mesta carovana iniziava la salita avente
per meta le falde del monte Tamer; i congiunti delle vittime portavano seco
delle lenzuola di bucato: i mesti sudari per riporvi pietosamente i resti dei
loro cari.
Dopo due ore e mezza di faticose salite si giunge sul dorso di un
cordone roccioso ove 50 metri a valle di una bicocca diroccata si ergeva una
rozza croce. Un’ora occorse per sistemare le opere di sollevamento, indi
vennero gettate tre rampate di scale di corda da 30 metri ognuna e discesero in
cordata, ammainata a mano, i primi due uomini che rassicurati dalle non cattive
condizioni di respirazione, a mezzo della resistenza della fiamma di una
candela, si fecero calare i sacchi confezionati su modello ideato dall’Ispettore,
onde poter estratte i corpi attraverso la stretta imboccatura del pozzo. Sette
ore durò l’estenuante lavoro, durante il quale furono ricuperati 11
cadaveri fra cui 5 donne, oltre a quelli del messo
comunale di Travesio, del commerciante di Meduno signor Giordani, del custode
della vecchia polveriera, di un militare italiano e uno tedesco.
Man mano che i cadaveri venivano estratti l’ispettore procedeva all’esame dei
resti, ormai allo stato saponoso e basandosi sui dati forniti dai parenti circa
gl’indumenti le caratteristiche ed anomalie della dentatura, il colore e
l’acconciatura dei capelli, riuscì ad identificare le 11 vittime.
Composte le bare e ricaricate le slitte il macabro corteo
ridiscese verso Travesio ove giunse al crepuscolo. Intanto mani pietose avevano
addobbato a lutto la piccola chiesuola di San Giuseppe e poiché la notizia del
ricupero era volata per il paese, al loro giungere, da presso la canonica e
fino alla porta della Chiesa, la strada era fiancheggiata dai bambini del paese
che avevano fra le mani fiori campestri.
Il giorno seguente ebbero luogo i funerali in forma solenne, ai
quali partecipò l’intera popolazione del paese con scolaresca, bandiere e
musica, officiante il buon vecchio arciprete.
Fu da tale riuscitissimo servizio che l’Isp. Degiorgi trasse la
convinzione di potersi mettere in grado di recuperare numerosissimi cadaveri di
italiani giacenti nel fondo delle foibe del Carso ed ideò per la bisogna, una
speciale grù volante che fece applicare sull’avantreno di un autocarro leggero
munito di argano e verricello e perfezionò i sacchi in modo da rendere più
sollecito il ricupero delle salme.
La notizia del ricupero delle salme di Travesio fece germogliare
nel cuore di tante mamme triestine la speranza di poter riavere i resti dei
lori figli infoibati.
E furono molte quelle che si rivolsero all'isp. Degiorgi ad
implorare il suo intervento ma nel frattempo il bravo isperttoreera stato
diffidato a non procedere ad altre esumazione. Sembra che all'ufficiale superiore,
che era allora a capo degli affari civile del Governo Militare Alleato non
garbasse mettere a nudo certe piaghe....e che avesse detto che bisognava
lasciare dormire in pace i morti.
Ma le madri della diciannovenne Dora Cioke del ventenne Adriano
Zarotti, due popolane triestine di origine slovena, accomunate dall'atroice
dolore e straziate per la beffa subita per molti mesi durante i
quali furono fatte peregrinare invano per i numerosi campi di
concentramento jugoslavi in cerca delle loro creature, non si potevano dare
pace. Esse si recavanmo da un campo all'altro, da una Croce Rossa all'altra e
per vie indirette giunsero fino agli atroci infoibatori delle loro creature
che, beffa suprema alla Maternità e alla Morte, le invitarono a far ricerce in
un campo di concentramento jugoslavo, ben sapendo (specialmente il Ciok, che
aveva infoibato la bellissima cugina per bieca gelosia) che i loro cadaveri
giacevano ormai da molti mesi nella fonda gola del loro paese.
Ma le dolenti madri tanto fecero e camminarono finchè mossero a pietà il
maggiore inglese Hobs, che dopo avere preso visione di alcune fotografie fatte
assumere notettempo nel fondo dlela foiba di Gropada profonda 75 metri, che
mettevano in evidenza l'esistenza certa di cadaveri, autorizzò l'ispettore
Degiorgi a procedere al ricpero di esse.
Il 13 agosto 1946 anche tale compito fu assolto lodevolmente dalla
suadra diretta dal bravo ispettore Degiorgi, che riuscì a ricuperare 5 cadaveri
di triestini, quelli dei giovani Zarotti Adriano e Ciock Dora, Zerial Luigi,
Zulian Carlo e marega Alberto.
Il 18 agosto nel camposanto di Trieste furono tributate solenni onoranze alle
povere vittime.
Forse mai nella storia un funzionario di Polizia fu tanto oggetto di tanta
simpatie da parte di un vasto stuolo di dolenti congiunti, amici e conoscenti
degli scomparsi
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