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giovedì 2 marzo 2023

Col Manzon , Col Tarond e la foiba Fous di Balancetto (Balanceta)

Col  Manzon , Col Tarond e la foiba Fous di Balancetto (Balanceta)

 

Localizzazione:  Prealpi Carniche

 

Avvicinamento: Lestans-Travesio-Praforte- sostarer l’auto presso un ampio parcheggio poco prima della fine del tratto asfaltato  (divieto di transito).

 

Regione: Friuli – Venezia Giulia

 

Provincia di: PN

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Dislivello: 398 m.

 

Dislivello complessivo: 398 m.


Distanza percorsa in Km: 10


Quota minima partenza: 455 m.

 

Quota massima raggiunta: 747 m.

 

Tempi di percorrenza escluse le soste: 3 ore

In: solitaria

 

Tipologia Escursione: storico-escursionista

 

Difficoltà: Escursionisti esperti per la tipologia del sentiero

 

Tipologia sentiero o cammino: Carrareccia- sentiero-militare- traccia con una foiba pericolosa per via di assenza di recinzione malgrado intorno vi siano piantati dei paletti in metallo.

 

 

Ferrata- no

 

Segnavia: CAI

 

Fonti d’acqua: no

 

Impegno fisico: basso

Preparazione tecnica: bassa

 

Difficoltà di orientamento: media

Attrezzature: nio

 

Croce di vetta: croce presso la foiba

Ometto di vetta: no

Libro di vetta: no

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

Consigliati:

 

Periodo consigliato:  tutto l’anno tranne se il tracciato finale sia innevato per via della foiba.

 

Da evitare da farsi in: Condizioni di sentiero innevato

 

Dedicata a: chi ama sapere la storia del territorio

 

Condizioni del sentiero: marcato e bollato

 

N° 677



Cartografici: IGM Friuli – Tabacco
2) Bibliografici:
3) Internet: 

Data dell’escursione: martedì 14 febbraio 2023

 

Data di pubblicazione della relazione: giovedì 02 marzo 2023

 

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

 Riprendo a scrivere dopo un breve periodo che mi sono preso per una pausa meditativa, e sono indietro con le pubblicazioni di almeno quaranta relazioni. Ultimamente preferisco camminare, vivere, e fotografare più che scrivere. Un periodo di riflessione che vivo intensamente, riprendendo il descrivere l’ultima uscita,  proprio a due passi da casa, sul monte Ciaurlec.  L’idea dell’escursione  l’ho presa dal gruppo di Facebook “La montagna per Spiriti Liberi”, un post pubblicato da Barbara e Mauro, che mi ha incuriosito,  utile per colmare alcune mie lacune storico naturaliste sul luogo in cui vivo. L’argomento principale  dell’escursione è la Foiba di Balancete, di cui un amico in precedenza mi aveva accennato. Ho chiesto gentilmente a Barbara di delucidarmi sulla posizione esatta della foiba, ed ella è stata gentilissima ed estesa di informazioni. L’indomani dalla pubblicazione del loro post sul gruppo , mi sono armato di zaino e scarponi e avviato per Praforte, dove avrei lasciato l’automobile  e iniziato l’avventura.

Una delle poche giornate all’insegna del sole è l’ideale per la caccia al tesoro. Inizio il passo  dall’ultimo tratto asfaltato, opera del genio militare nei decenni precedenti. Ricordo bene che nel dicembre del 1985 percorrevo lo stesso tratto con i miei soldati per andare a esercitarmi con le armi da fuoco nell’adiacente poligono di tiro. Son passati quasi quarant’anni ma i ricordi sono ancora vividi, oggi le armi da fuoco  tuonano ancora ma sono quelle dei cacciatori. Dal parcheggio mi avvio per una delle molteplici carrarecce di servizio al poligono, viro e miro  direzione occidente, verso le pendici del Col Manzon. La mia idea di percorso progettata sulla mappa è quella di procedere in senso orario, cioè, scalando la vetta del Col Manzon, poi del Tarond e di seguito dirigermi verso i ruderi della casera De Zorzi, alla ricerca della Foiba. Il bello del dire e il fare è che tutto può cambiare. Infatti, durante il cammino tra le fila di noccioli, noto un cartello mi indica la foiba a 50 metri, evidentemente è il cartello che invita a seguire un sentiero. Dopo cinquanta metri circa di carrareccia percorsa mi trovo ad un bivio e dei bolli rossi mi invitano a risalire una mulattiera ben battuta, che seguo diligentemente. La pendenza è moderata, e spesso mi fermo per voltarmi indietro e ammirare la pianura friulana che appare più magica del solito per via di alcune velature. Sto percorrendo un tratto con vegetazione sporadica, pare una steppa e prende il nome  sulla mappa di Plans.

Dei reticolati arrugginiti e dei cartelli logorati dal tempo mi avvisano che sto circumnavigando il passato poligono, finché il reticolo si apre, e su un ramo noto un altro cartello in metallo con le indicazioni per la foiba. Lascio il sentiero battuto, per seguire una traccia ricca di segni rossi e nastri in plastica sbiancati e resi trasparenti dal tempo. Stavolta la pendenza aumenta notevolmente, ma si aprono ampi prati dorati, che contrastano in modo sublime con il dominante cielo azzurro. Avverto una forma di beatitudine e piacere nel camminare, non conosco altre forme di felicità superiore a quella che sto praticando. Una serie di tornanti nei prati e altri cartelli con indicazione mi conducono presso un ampio prato dove trovo la prima foiba, assai paurosa per l’impatto visivo. Dei paletti arrugginiti sono di contorno, ma non c’è recinzione, e il fissare il vuoto oscuro mi intimidisce. Sto sul margine a fissare l’oscurità e a fantasticare, mentre noto a occidente, al limite di una macchia di arbusti un pennone dove sventolano due bandiere con il simbolo del Friuli, trattasi della nota Foiba di Balancete.

Esco dalla traccia e mi dirigo alla foiba, materializzata da una fossa e un carpino dove è fissato l’elenco delle vittime sacrificate. Undici, tra uomini e donne, infoibati dalla vendetta dei partigiani nei confronti dei presunti  delatori, tutto questo crimine alla fine del secondo conflitto mondiale (a fine relazione allegherò parte di un documento per chi vuole approfondire).

Sgancio lo zaino, lo adagio sul prato,  ispeziono la fossa aggirandola, è meno tenebrosa della foiba precedente, e a quanto vedo da uno schizzo, anch’esso affisso all’albero, la foiba ha due canali di accesso, ed è profonda parecchi metri. Mi sono documentato prima della partenza, mi fermo davanti alla foiba a riflettere. Provo pietà e non dolore per la gente che è stata infoibata, almeno che non fosse innocente. Se alcuni di queste vittime furono delatori, con il loro infausto agire provocarono delle morti, e mi chiedo se sia valsa la pena denunciare, consapevoli che i malcapitati avrebbero fatta una brutta fine. È un’infame storia di guerra, che per quanto posso intuire ha portato ancora degli strascichi nella memoria di chi ha vissuto quel periodo e degli stessi discendenti. Saluto con un saluto militare rivolto alla foiba in segno di rispetto, e di seguito mi sdraio sul prato, fissando dall’alto la meravigliosa pianura. Dopo essermi sollazzato una buona mezzora, riprendo il cammino, lambisco a occidente i ruderi della Casera De Zorzi, che trovo avvolti da un fitto roveto, e di seguito, mirando sempre a occidente, raggiungo il sentiero C.A.I.  850 che mi conduce sul piano alle pendici del Col Manzon.

Esco fuori traccia per raggiungere la vetta del Col Tarond, nessun segno che la identifica e di seguito , mentre mi dirigo sul  Col Manzon, vengo adombrato da qualcosa. Volgo lo sguardo al cielo e scorgo un grifone, e poi di seguito, un secondo e un terzo, finché un munito stormo di questi splendidi rapaci adombra la volta azzurra, deliziandomi con il loro magico volteggiare. La tristezza della visione della foiba è stata sostituita da quest’ultima magica apparizione. Stanno a volteggiare sul Col Manzon, sicuramente facendosi cullare dalle note correnti aeree.  Ad essi mi dirigo, e per accelerare il passo ripercorro la mulattiera da occidente e oriente. Sul cammino avvisto un omino con un vistoso zaino, dopo pochi minuti materializzo che l‘omino sulle spalle porta l’attrezzatura per volare,  il parapendio. Ci incontriamo, è un simpatico e solitario sloveno, comunichiamo in un rudimentale  ma efficace inglese. Gli esprimo dove sono stato, e so benissimo che tra pochi metri egli si lancerà in volo da questa area. Ci salutiamo con il saluto del gruppo  La Montagna per Spiriti Liberi e con verbale Peace and Love. Mentre l’amico si prepara per il volo pindarico, io mi avvio verso la fitta vegetazione che precede la vetta del Col Manzon.

Davvero selvatico il colle, e raggiungere le due più alte quote è problematico. Da vent’anni non ascendevo il colle, e da allora è cambiato ben poco. Ho ritrovato la fitta vegetazione e gli stessi massi adorni di muschio, cima davvero selvatica. Dopo la conquista della piccola elevazione ritorno indietro, e mi avvio al rientro circumnavigando il Col Manzon, stavolta dal versante meridionale. Un’ombra oscura di nuovo il mio passo e ancora dall’alto, stavolta non è un grifone ma il mio amico sloveno incontrato in precedenza che volteggia beato nel cielo. Con i bastoncini da trekking gli faccio dei segni di saluto, volteggiando si avvicina a me, e mi saluta con  un: << Ciao amico, sei ancora qui? Ciaoooo!>> E di seguito si allontana volgendo le ali a sole. L’escursione volge alla fine, è stata una splendida giornata, iniziata nel ricordo del dolore, e finita nella gioia dell’amore tra i popoli, tra uno spirito libero che vola con gli scarponi e l’altro che volteggia nel cielo.

Malfa.

Breve storia sulla Foiba di Balancete:

 

Nel gennaio 1946 la triestina signora Bressanuti Lucia su consiglio dell'allora Preside della Provincia dott Palutan, si rivolgeva implorante all’Ispettore Umberto Degiorgi dirigente del reparto Scientifico della Polizia Civile della Venezia Giulia. Il di lei figlio, Vinicio Bressanutti, di anni 17, giovane aitante, appassionato dello sport della montagna, era scomparso fin dall’agosto 1944. Il povero ragazzo per sottrarsi all’imminente arruolamento effettuato dai tedeschi fra i giovani triestini, aveva ritenuto opportuno allontanarsi da casa e si era recato presso una famiglia di amici nel paesino di Travesio. Quivi, attratto dalla sua passione sportiva, intraprese una gita verso le falde del monte Tamer, dal quale non fece più ritorno. La povera madre, che non si era risparmiata pericoli e fatiche alla ricerca dell’adorato figliuolo, aveva finalmente trovato aiuto e conforto da un apostolo della fede, don Basilio Miniutti Arciprete di Travesio. Il buon sacerdote, al quale si deve se il paese non fu distrutto per rappresaglia dai tedeschi, era riuscito ad individuare in alta montagna, il punto in cui era stato sepolto il povero Vinicio, che sorpreso da sedicenti partigiani era stato ucciso ai piedi della montagna, nonostante il viso imberbe ed i calzoni corti mostrassero con evidenza la sua giovane età.
   La desolata madre disse all’Isp. Degiorgi che il dr. Palutan l’aveva favorita in quanto poteva, facendo costruire un feretro entro cui riporre i resti dell’infelice giovane, ma che era necessario si rivolgesse al commissario, il quale aveva già dato prova di tanta abilità nel ricupero di salme nella cosiddetta “campagna della morte” compresa nel triangolo Ronchi-Redipuglia-Aquileia, poiché solo lui avrebbe potuto trovare il modo e i mezzi per il ricupero e il trasporto al cimitero di Trieste dei resti del povero Vinicio.
   Il cuore paterno dell’Ispettore, scosso dalle cocenti lacrime che accompagnavano la narrazione della supplice madre, organizzò la spedizione pur superando non lievi ostacoli. Il paese di Travesio esulava dalla giurisdizione territoriale della Polizia Civile della Venezia Giulia, tuttavia la provincia di Udine era ancora controllata militarmente dalle truppe alleate, cosicché il bravo ispettore riuscì a convincere il suo diretto superiore cap. inglese Bolt, della opportunità dell’intervento. La spedizione ebbe inizio la sera del 20 febbraio 1946 e fu condotta a termine la sera seguente con il trasporto al cimitero di Trieste dei resti della giovane vittima.
   La stessa sera del 21 febbraio 1946, mentre l’Isp. Degiorgi trovavasi nell’Ufficio Parrocchiale di Travesio intento a redigere il verbale di recupero e di identificazione della salma del Bressanutti, due giovani e una donna vestiti a lutto si presentarono a lui, gli si inginocchiarono davanti, e piangenti implorarono, ch’egli li aiutasse a estrarre da un pozzo profondo 85 metri il corpo straziato della loro adorata madre e rispettivamente sorella. Erano costoro gli orfani fratelli Agosti, di 17 e 19 anni, figli dei proprietari dell’unico caffè del paese, che accompagnati dalla zia erano accorsi in cerca dell’Isp. Degiorgi per raccontargli come fossero stati orbati di entrambi i genitori e che mentre la salma del loro papà era stata ritrovata sepolta presso una stalla, quella della madre era stata gettata nella foiba denominata “Fous di Balancetto”, il cui orificio si apre sulle falde del monte Tamer, a circa 800 metri sul livello del mare in un punto poco distante da dove erano stati dissepolti i resti di Vinicio Bressanuti.
   L’Ispettore promise di occuparsene e pertanto consigliò don Miniutti di scrivere al Capo della Polizia Civile della Venezia Giulia colonnello inglese Thorn pregandolo di voler dare l’incarico all’Isp. Degiorgi di procedere, a mezzo dei suoi bravi uomini, al difficile recupero delle salme giacenti in fondo all’orrido pozzo. Il colonnello Thorn accordò di buon grado il suo assenso e dopo una meticolosa preparazione ed accurata attrezzatura con mezzi ideati ad hoc, la seconda operazione ebbe luogo il 6 aprile 1947.
   La squadra composta da agenti di Polizia, vigili del fuoco e giovani speleologi raggiunse Travesio nel tardo pomeriggio a bordo di due autocarri. Sugli automezzi erano state caricate corde, carrucole, scale, argani, travicelli, lampade a carburo ed elettriche, maschere anti gas, autoprotettori ad ossigeno, oggetti di pronto soccorso, viveri di conforto, nonché 12 bare grezze che tanti apparvero i corpi umani da recuperare in seguito ad una opportuna esplorazione nel fondo dell’abisso.
   La desolata famiglia Agosti si prodigò nel fornire alloggio e vitto per la squadra, mentre l’Ispettore preso contatto con don Miniutti provvide a far trasbordare su due slitte a trazione bovina gli attrezzi e le bare. Prima dell’alba del giorno 7 aprile, guidata dal buon pievano ed alla luce smorta delle stelle, la mesta carovana iniziava la salita avente per meta le falde del monte Tamer; i congiunti delle vittime portavano seco delle lenzuola di bucato: i mesti sudari per riporvi pietosamente i resti dei loro cari.
   Dopo due ore e mezza di faticose salite si giunge sul dorso di un cordone roccioso ove 50 metri a valle di una bicocca diroccata si ergeva una rozza croce. Un’ora occorse per sistemare le opere di sollevamento, indi vennero gettate tre rampate di scale di corda da 30 metri ognuna e discesero in cordata, ammainata a mano, i primi due uomini che rassicurati dalle non cattive condizioni di respirazione, a mezzo della resistenza della fiamma di una candela, si fecero calare i sacchi confezionati su modello ideato dall’Ispettore, onde poter estratte i corpi attraverso la stretta imboccatura del pozzo. Sette ore durò l’estenuante lavoro, durante il quale furono ricuperati 11 cadaveri fra cui 5 donne, oltre a quelli del messo comunale di Travesio, del commerciante di Meduno signor Giordani, del custode della vecchia polveriera, di un militare italiano e uno tedesco. 
Man mano che i cadaveri venivano estratti l’ispettore procedeva all’esame dei resti, ormai allo stato saponoso e basandosi sui dati forniti dai parenti circa gl’indumenti le caratteristiche ed anomalie della dentatura, il colore e l’acconciatura dei capelli, riuscì ad identificare le 11 vittime. 
   Composte le bare e ricaricate le slitte il macabro corteo ridiscese verso Travesio ove giunse al crepuscolo. Intanto mani pietose avevano addobbato a lutto la piccola chiesuola di San Giuseppe e poiché la notizia del ricupero era volata per il paese, al loro giungere, da presso la canonica e fino alla porta della Chiesa, la strada era fiancheggiata dai bambini del paese che avevano fra le mani fiori campestri.
   Il giorno seguente ebbero luogo i funerali in forma solenne, ai quali partecipò l’intera popolazione del paese con scolaresca, bandiere e musica, officiante il buon vecchio arciprete.
   Fu da tale riuscitissimo servizio che l’Isp. Degiorgi trasse la convinzione di potersi mettere in grado di recuperare numerosissimi cadaveri di italiani giacenti nel fondo delle foibe del Carso ed ideò per la bisogna, una speciale grù volante che fece applicare sull’avantreno di un autocarro leggero munito di argano e verricello e perfezionò i sacchi in modo da rendere più sollecito il ricupero delle salme.
   La notizia del ricupero delle salme di Travesio fece germogliare nel cuore di tante mamme triestine la speranza di poter riavere i resti dei lori figli infoibati.
   E furono molte quelle che si rivolsero all'isp. Degiorgi ad implorare il suo intervento ma nel frattempo il bravo isperttoreera stato diffidato a non procedere ad altre esumazione. Sembra che all'ufficiale superiore, che era allora a capo degli affari civile del Governo Militare Alleato non garbasse mettere a nudo certe piaghe....e che avesse detto che bisognava lasciare dormire in pace i morti.
   Ma le madri della diciannovenne Dora Cioke del ventenne Adriano Zarotti, due popolane triestine di origine slovena, accomunate dall'atroice dolore  e straziate per la beffa subita per molti mesi durante i quali  furono fatte peregrinare invano per i numerosi campi di concentramento jugoslavi in cerca delle loro creature, non si potevano dare pace. Esse si recavanmo da un campo all'altro, da una Croce Rossa all'altra e per vie indirette giunsero fino agli atroci infoibatori delle loro creature che, beffa suprema alla Maternità e alla Morte, le invitarono a far ricerce in un campo di concentramento jugoslavo, ben sapendo (specialmente il Ciok, che aveva infoibato la bellissima cugina per bieca gelosia) che i loro cadaveri giacevano ormai da molti mesi nella fonda gola del loro paese.
  Ma le dolenti madri tanto fecero e camminarono finchè mossero a pietà il maggiore inglese Hobs, che dopo avere preso visione di alcune fotografie fatte assumere notettempo nel fondo dlela foiba di Gropada profonda 75 metri, che mettevano in evidenza l'esistenza certa di cadaveri, autorizzò l'ispettore Degiorgi a procedere al ricpero di esse.
   Il 13 agosto 1946 anche tale compito fu assolto lodevolmente dalla suadra diretta dal bravo ispettore Degiorgi, che riuscì a ricuperare 5 cadaveri di triestini, quelli dei giovani Zarotti Adriano e Ciock Dora, Zerial Luigi, Zulian Carlo e marega Alberto.
Il 18 agosto nel camposanto di Trieste furono tributate solenni onoranze alle povere vittime.
Forse mai nella storia un funzionario di Polizia fu tanto oggetto di tanta simpatie da parte di un vasto stuolo di dolenti congiunti, amici e conoscenti degli scomparsi

 























































 

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