Anello Monte
Sciara 1686 m. e Cuesta Spioleit 1687 m.
dalla Val Preone.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Prealpi Carniche
Avvicinamento:
Pinzano al Tagliamento- Flagogna- -Anduins- Val D’Arzino-San Francesco- Sella
Chiampon.
Dislivello: 927
m.
Dislivello complessivo: 1030 m.
Distanza
percorsa in Km: 13 Km.
Quota minima
partenza: 760 m.
Quota
massima raggiunta: 1687 m.
Tempi di
percorrenza. 5, 5 ore escluse le soste.
In: Coppia.
Tipologia Escursione:
Difficoltà: E.E.
Segnavia: CAI
826; 830.
Attrezzature:
No.
Croce di
vetta: Si (M. Sciara.)
Libro di
vetta: Si ( Cuesta Spioleit).
Timbro di
vetta: No.
Cartografia
consigliata: Tab 028.
Periodo
consigliato: Settembre-Ottobre.
Condizioni
del sentiero: Ben segnato e marcato fino al monte Sciara Piccolo, la cresta non
segnata e nessun ometto.
Fonti
d’acqua: Nessuna.
Data: 21
settembre 2017.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa
Nella
Penultima escursione effettuata con il “giovanotto” Roberto nel magico mondo
della Val Drap, si commentava sulle cime effettuate nel Friuli orientale, a malincuore costatavamo che ne sono rimaste
poche da fare,intendo di quelle accessibili al nostro livello di escursionismo.
Tra le cime che ancora non conoscono la suola del nostro scarpone, una in
particolare ci accomuna, la “Cuesta Spioliet”. Cima di modeste dimensioni, è la
prosecuzione naturale della cresta che partendo dal lontano Valcalda a
settentrione, procede a meridione per lo Sciara, fino a raggiungere la
selvaggia vetta ( Cuesta Spioleit) che domina La Val Preone e il canale di
Cuna.
Nei nostri progetti
l’escursione era prevista per il tardo autunno, ma le recenti nevicate ci hanno
consigliato di anticipare i propositi.
Giunge il
giorno prefissato per l’escursione, ci diamo appuntamento nei pressi del ponte
sul torrente Arzino, in località Flagogna. Come sempre arriviamo puntuali,
alternando le auto, stavolta si va con la mia.
Si procede
con l’automezzo lungo la valle dell’Arzino, risalendola, la giornata promette
bene, cielo terso, temperatura freddina. Superata la località di San Francesco,
quasi pregustiamo l’arrivo nella Val di Preone, ma il diavolo ci mette la
coda.
Nella località
Costa Corona, proprio a un centinaio di metri dal bivio per la val Preone, all’interno
della prima galleria notiamo un tir fermo. Scendiamo dall’auto, per capire
l’accaduto, notiamo da subito il conducente che brancola per le gomme del
grande automezzo. Cavolo, il mastodontico autotreno è rimasto incastrato
nell’arco della galleria. Non può logicamente procedere avanti, ancora peggio,
indietro. Cerco di comunicare con il conduttore, è Sloveno, non ci capisco un “acca
“di quello che dice, ma ne intuisco il contenuto. In sintesi, l’autocarro si è
incastrato da ore, e l’omino aspetta l’arrivo dei pompieri e della polizia, e
nel frattempo sgonfia le gomme dell’autoarticolato. Fatti i calcoli, occorrono almeno
tre ore prima di sgomberare la galleria. Rassegnati, retromarcia e a ritroso
procediamo per l’itinerario percorso all’andata; raggiunta Flagogna,
effettuiamo un lunghissimo giro, passando per Cornino, Interneppo, Cavazzo
carnico, fino a raggiungere Verzegnis e la Sella Chianzutan, per poi calarci
nella Val Preone, sperando di non trovare altri intoppi.
In sintesi abbiamo
allungato di almeno un’ora l’arrivo a sella Chiampon, da dove dovremmo partire
per l’escursione. Confermati i tempi di percorrenza, e raggiunta la località di
partenza, ci approntiamo per l’escursione.
Notiamo intorno al parcheggio strani
movimenti, un gruppo (forse cacciatori) ha sostato di notte nella località,
dormendo in tenda e nelle amache; li troviamo intenti a lavarsi nel greto del
torrente.
Finalmente,
messi gli scarponi, deambuliamo, direzione casera Teglara; inizialmente per la
comoda e tediosa strada forestale segnata CAI
826.
Lungo il percorso, adombrato dai faggi
troviamo una squadra addetta alla manutenzione, e che manutenzione! Roberto, fecondo
di freddure, tale da fare invidia agli inglesi, commenta a voce alta:
<<Quanta cura, che perizia, ma chi deve passare la Regina d’Inghilterra?>>.
Sorrido, effettivamente anch’io penso che deve passare un’autorità, gli
rispondo ironicamente, che siamo noi le celebrità, e quindi si sono premurati a
renderci più gradito il cammino. Dimenticavo, Magritte oggi fa parte del mazzo,
e visto che le vipere sono rintanate, lo lascio libero da guinzaglio. Il fido e
Roberto solidarizzano, cosa rara per Magritte, che ha un caratterino permaloso.
Giunti fuori
dal noiosissimo bosco di faggi, per altro adibito per far legna, raggiungiamo
l’ampia radura che precede casera Teglara. Il paesaggio cambia colori, Roberto e
io, amiamo gli spazi aperti e la luce, soprattutto questo paesaggio che trasporta nell’infinito. Percorriamo la bella
carrareccia fino alla casera, notiamo che ha un colore bislacco, un rosso simile
al segno usato dal CAI. Dentro l’edificio tutto è in ordine e in ottimo stato, compreso
di libro di via, ne sono felice, finalmente la casera ha ripreso l’aspetto che
merita, vista la felice posizione. Stazioniamo poco, il tempo di far bere Magritte
e consumare un Mars, stavolta anche Roberto si è munito del noto energetico, e
da buoni camerati, effettuiamo uno scambio.
Come si suole
dire tra spiriti liberi o amanti della montagna: << adesso viene il bello!>>
Davanti a
noi, tanta luce e il piano inclinato dell’ampia conca dello Sciara, a occhio
nudo si vedono i sentieri che a breve percorreremo con gioia. Di tanto in
tanto, Roberto chiama Magritte, e il fido scodinzola, i due sembrano amici di
vecchia data.
Raggiungiamo
la prima cresta, decorata di massi, strapiombante vertiginosamente sulla Val
Tramontina, essa m’invita a lanciarmi nel vuoto, liberando le ali per
volteggiare meglio degli aquiloni.
È difficile opporsi
a tale lirica esaltata dai colori, invito l’amico a fotografarmi su una rupe.
Chiudo gli occhi, sento le braccia librarsi, e le piume venir fuori dai pori,
voglio volare, battere le ali e sposarmi con l’azzurro…
Proseguiamo
per cresta, l’adoro, raggiugendo la piccola croce posta in una posizione insignificante,
ne ignoriamo il motivo. La cima più alta e oltre l’ante-cima che ancora
dobbiamo raggiungere, quindi superato il piccolo simbolo religioso, andiamo
avanti, destreggiandoci tra i mughi. Il sentiero cambia denominazione, e si fa
per esperti, sicuramente da percorrere con meteo propizio e terreno non insidioso.
Dimenticavo, ci stiamo orientando ad occhio, tengo la mappa nello zaino, e non
ho letto nessuna relazione; Roberto ne ha studiata una, ma con l’itinerario effettuato
al contrario del nostro senso di percorrenza e da un ben nutrito gruppo di
escursionisti, se non ricordo male diciotto, un vero plotone, quindi speriamo
di trovare le tracce e soprattutto gli ometti. Il percorso di cresta, come
scritto in precedenza è per esperti, perché percorre un terreno esposto a meridione,
mentre a settentrione è reso impraticabile da una fitta mugheta. Ci aspettano passaggi
delicati, che ben presto troviamo.
Dopo aver
raggiunto Il monte Sciara Grande, alto metri 1686 (ometto e niente libro di
vetta), ci avviamo per il vero obiettivo, la Cuesta Spioleit, più alta di un
metro. Ignoriamo quello che ci attende, dietro ogni dorso temiamo un salto,
percorriamo l’affilata crestina finché raggiungiamo delle rocce esposte a
meridione (passaggio di primo grado). Superato l’ostacolo ci dedichiamo al “su
e giù” per cimette, affiancati a settentrione dai santi mughi. Percepiamo la meta,
gli ultimi passi sono emozionanti, un breve tratto tra le roccette ed ecco la vetta.
Sembra di
percorrere il dorso di una balena, fino a raggiungere lo spruzzo (l’ometto), il
ben conosciuto e sospirato simbolo della vittoria. Sul Col Manzon o il K2, due
sassi li trovi sempre, a simboleggiare che si può essere Maestà ovunque, basta
crederci. Tra i ciotoli del nobile ometto, ben protetto, scopriamo un barattolo
di vetro, con dentro rinchiusi dei fogli di carta e uno scarno lapis. Lo apro,
scoprendo che l’unico e ultimo avventore è stato un certo Luciano, ha raggiunto
la cima quattro mesi prima, e sicuramente ha messo lui il barattolo. I nostri
propositi erano quelli di collocare il nostro libro di vetta se la cima ne
fosse stata sprovvista, rimandiamo tali propositi ad altra cima. Apportata la
nostra presenza sui foglietti, chiudo il barattolo, munendolo di un pennarello.
Fatti i video, il servizio fotografico, decidiamo di rinviare l’ora del pasto a
forcella raggiunta (Forchia Bassa). In teoria, e ascoltando il buon Roberto, le
difficoltà sono finite, naturalmente la teoria non sempre è devota alla realtà.
Iniziamo il primo tratto, ben consci di aver intuito che il percorso va eseguito
come lo stiamo compiendo, evitando il ripido pendio erboso, che sicuramente ha
udito negli anni passati le imprecazioni degli escursionisti.
Raggiunta la
base del ripido pendio erboso, duecento metri in basso alla vetta, inizia il
ravanamento ad oltranza, difatti la cresta fino alla forcella è impraticabile,
almeno che non si sappia volare, quindi entriamo nel boschetto di faggi e con intuito
ed esperienza, rasentiamo la cresta, perdendo rapidamente quota. L’intuizione e
la logica danno i loro frutti. Trovo qualcosa che somiglia a una traccia,
Magritte rimane sbalordito dal nostro fiuto, obliando che si trova davanti a
due escursionisti, che con l’andare da soli per monti, hanno affinato fiuto e
vista.
Mi rendo conto in questi frangenti, cosa mi hanno dato 14
anni di escursionismo solitario; scruto il minimo rilievo, scindendo quelli
naturali da quelli creati dal passo dell’uomo, ispezionando oltre le fronde,
leggendo i sassi, che segnano le vie o il nulla. Con Roberto c’è una gara, a
chi scova per prima l’indizio, in breve grazie alla nostra perizia,
raggiungiamo la sospirata forcella, e nel frattempo abbiamo costruito degli
ometti, dando il buon esempio! C’è tanta amarezza in quello che scrivo, ne
convengo, sono deluso da coloro che vanno in montagna pensando solo all’ego,
non costruendo ometti e scrivendo delle relazioni con svariati omissis. Questo
illudersi di essere i soli in possesso della “pietra filosofale”, mi rattrista.
Quest’infelice riflessione mi ha accompagnato fino in forcella, i raggi del
sole hanno attenuato la tristezza, ho tenuto tutto per me, non voglio spegnere
il sorriso sul volto di Roberto. Scaldandoci con la luce dorata, finalmente ci concediamo
la meritata sosta. Distesi sul prato, tiriamo fuori dallo zaino le cibarie, un lasso
di tempo così rilassante che mi ricorda un noto dipinto impressionista”
Colazione sull’erba (Le déjeuner sur l’herbe) olio su tela del pittore francese
Édouard Manet”.
Finita la sosta, si
riprende il cammino, dalla forcella miriamo a Nord-Ovest, seguendo degli
evidenti segni giallo-rossi. Percorriamo la lunga diagonale che taglia il
versante settentrionale della Cuesta Spioleit. Il sentiero è ben battuto fino ai
ruderi della casera Cueston, dopo troviamo seri problemi di orientamento. La
traccia, perduta e ritrovata, supera il Rio Teglara, sparendo metri dopo, poco
primo di un tratto franato. Piuttosto che avventurarci, ci caliamo nel ripido
bosco, mirando a valle e cercando i passaggi migliori. Raggiunta una forcelletta
tra due canaloni, superiamo un dorso, che ci permette di aggirare un salto;
dall’alto avvistiamo la vecchia carrareccia, la raggiungiamo, percorrendola a
ritroso fino a intersecare il sentiero dell’andata.
Fatta! Siamo sani e salvi, e la chiamata al Soccorso Alpino,
anche questa volta è scongiurata. Con i tempi ci siamo, abbiamo ancora ore di
luce. Dopo pochi tornanti siamo al punto di partenza, scherziamo, speriamo di
non trovare il tir sloveno ancora incastrato nella galleria.
Per fortuna scendendo per la Val d’Arzino, del “bisonte della
strada” nessuna traccia. Prima di congedarci con l’amico Roberto, beviamo
qualcosa in un locale gestito da amici, nella bella località di Anduins. Ultimi
momenti di buon umore, scoprendo che tutti sapevano del tir incastrato, tranne
noi! Ci ridiamo su, salutiamo i simpatici gestori del locale, raggiugendo il luogo
dell’appuntamento mattutino. Un forte abbraccio fraterno sigilla la bella
giornata, scrivendo la parola fine, sulla pagina dell’escursione “Cresta della
Cuesta Spioleit”.
Il
“forestiero Nomade”.
Malfa.
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