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venerdì 20 ottobre 2017

Cima Spalla del Duranno

 
Cima Spalla del Duranno dalla Val Zemola, con percorso di rientro ad anello.

Racconto.

Com’è mia consuetudine, preparo alla perfezione un itinerario e ne realizzo un altro, illogico no?

Evidentemente soffro così tanto di noia, che sapere dove andrò mi toglie l’effetto della sorpresa. Anche stavolta rispondo al richiamo delle Dolomiti d’Oltrepiave.  Le dolomiti friulane, patrimonio universale, sono un mondo fantastico, dove ancora possiamo trovare una natura non invasa dal turismo di massa. È l’universo ideale, per chi, nel profondo dell’animo, è un vero “Spirito Libero”.

Da tempo desidero fare conoscere la val Zemola alla mia signora, e la Spalla del Duranno è l’occasione propizia! Preparati gli zaini, si va a nanna, immaginando le meraviglie che vedremo il giorno dopo. L’aurora annuncia il mattino, e noi siamo pronti da un pezzo, tanto impazienti di partire. Vado a prendere l’auto nel garage, durante la sistemazione degli zaini nel cofano, rimango stregato da una bellissima luna, la temperatura è mite, la giornata promette bene. Lungo il tragitto ammiriamo la nebbia che ovatta con le sue tinte il lago di Barcis. Le cime più alte delle dolomiti friulane ci mostrano le creste illuminate di rosso rosso, mentre la bruma simula il lago nel Vajont. Durante il tragitto scherzo con Giovanna, soprattutto quando percorro con l’auto l’adrenalinico tracciato a fil di burrone che porta alla Val Zemola. Ovviamente, mentre guido, mi tengo il più lontano possibile dallo Strapiombo. Raggiunto il posteggio, poco sotto la Casera di Mela, ci approntiamo. Zaini in spalle, famigliola al completo, si parte! Per la meta odierna imbocchiamo il sentiero numerato 374, è una direttissima che punta alle pendici del Duranno. Per un breve tratto attraversiamo il greto del torrente, seguendo gli ometti che ci indicano la retta traccia. Dopo aver giocato con le acque di un rigagnolo, ci inoltriamo nel fitto bosco. Ci dilettiamo a identificare gli alberi dalle loro caratteristiche specifiche, l’autunno aiuta molto lo studio di questa nostra amata disciplina. A metà bosco, ci colpisce la strana unione tra un faggio e un lacero, i due tronchi sono avvinghiati in un forte abbraccio. Osservo i due alberi, anche la mia signora ha notato il particolare, sorridiamo, provando sensazioni di amore universale tanto caro a John Lennon. La natura, spesso elimina le distanze tra dissimili, un lacero e un faggio, che crescono insieme nel fitto bosco trasmettono un chiaro messaggio, le diversità sono una ricchezza, e insieme creano armonia. Venuti fuori dal bosco, percorriamo un lungo traverso che costeggia un canalone. Il cielo è di un azzurro intenso, ci scalda, i larici dorati, vivono il loro momento di gloria. Da un pulpito panoramico posso ammirare le tre sorellone che dominano la valle. Le tre cime sono: il lontano monte Borgà, la Palazza e il monte zita(cita) e le ho racchiuse in un unico scatto.

Raggiungiamo il rifugio Maniago, il comignolo fuma di buon’ora, all’esterno troviamo due avventori, intenti a bere birra e leggere una mappa. Ci fermiamo ad ammirare la rustica fontana, ottenuta da un tronco di Lacero.

Osserviamo le bancate meridionali del Duranno e proseguiamo per la nostra meta, seguendo un cartello bianco con le indicazioni per la forcella della Spalla del Duranno. Avviso la mia signora, che la tipologia del sentiero cambia, da turistico passa a “Escursionisti Esperti  “; lei, imperterrita e con lo spirito di una leonessa, mi risponde:<< Finalmente, era ora!>>.

 Il sentiero si sviluppa tramite un traverso, dal rifugio a occidente, e per marcata traccia tra le conifere, dopo un centinaio di metri si inerpica a destra, superando un salto. Finalmente possiamo ammirare le ripide e ardue pareti meridionali della Spalla del Duranno, che dominano il sottostante catino, misto tra ghiaie e zolle. Tra le bianche e possenti pareti, chiaramente, intravedo l’obliqua rampa che ci porterà alla cresta. Percorriamo la distanza che ci separa dalla parete, attraversando il pendio, prima inerbito tra i mughi, e dopo tra roccette miste a zolle. Dall’alto, un solitario stambecco, segue le nostre operazione, assicurandosi che non perdiamo la traccia.

Raggiunta la base della rampa, decidiamo di liberarci dalle zavorre (gli zaini) procedendo con il loro occultamento in una spelonca adiacente. Con le sole sacche al seguito (dalla sopraggiunta assenza di peso ci sembra di volare), iniziamo l’ascesa verso il paradiso. Il primo tratto di rampa stimola timore, lo superiamo per scalini scavati nella roccia. Seguendo delle chiare cengette, zizzagando, affrontiamo il tratto delicato, portandoci sopra di esso, dove la roccia è più articolata e meno esposta. Un breve gradino ci accompagna ai piani superiori, percorrendo le ultime cenge che ci invitano a proseguire per la detritica diagonale che punta alla cresta. Il severo Duranno, dall’alto della sua maestà, veglia sul nostro operato.  Scherzando grido: <<Cresta! Cresta!>> Imitando i marinai di Colombo che scoprirono il “Nuovo Mondo”. Raggiunta la cresta, il paesaggio dalle fattezze appare lunare, la ghiaia è fine come farina, percorriamo il crinale come funamboli, la linea fisica che divide Val Zemola dal Cadore ha un fascino particolare. Magritte mi tallona, il mio caro amico merita questa cresta di libertà. La mia signora ci segue a distanza, intravedo dal suo volto le intense emozioni.

Procediamo per la cima, osservando dall’alto le distanti dolomiti, alcune conosciute, altre meno. La nostra meta che sembra vicina, ci dà l’impressione che si allontani, finché riusciamo a fermarla. Saliamo in vetta. La cima, visto l’esiguo spazio, non è adatta per una festa tra amici. Costruisco un ometto che mi fa da cavalletto, Magritte si fa coccolare, il vecio, ha aggiunto un’altra cima al suo lungo elenco. Finalmente, pronto, effettuo un autoscatto, che si rivela indecente, tento e ritento, finché ci prendo. Immortalata la “sacra famiglia”, si procede al godimento, ovvero la contemplazione dell’universo alpino del triveneto. Imbandiero il logo del nostro gruppo (stampato su un foglio A4), che poi racchiudo in un mini astuccio che depongo tra i sassi dell’ometto di vetta. In lontananza scorgiamo la coppia incontrata in precedenza al rifugio, decidiamo di scendere dalla vetta. Lungo la cresta che ci separa dalla forcella, individuiamo un costone ampio, dove sostare e consumare il pasto. Il dorso è per metà farinoso (ghiaie) e per l’altra metà inerbito, dominato dalla monumentale mole del Duranno.  Sembra di vivere in paradiso, un pizzicotto conferma che siamo vivi e vegeti, e la realtà che stiamo vivendo non è un sogno. Effettuiamo una lunga sosta, favorita dalla totale assenza di nuvole. Consumo il panino con lo sguardo rivolto lontano, alle belle dolomiti venete, sono talmente assolto dai pensieri, che tardivamente odo una vocina che mi sussurra qualcosa, mi chiama per nome:<<Ben ritornato Giuseppe, ultimamente sei assiduo tra i monti, mi fa piacere, amo il tuo entusiasmo, a presto forestiero.>> Mi giro, scorgo un piccolo uccellino posato su un sasso, la montagna mi ha comunicato e ora vola via. Finita la pausa, rientriamo a valle, ammirando due stambecchi presso la forcella. Scendiamo dalla sella, stranamente la discesa è meno impegnativa della salita, in breve siamo giù. Raggiunti gli zaini, ne avvertiamo il peso, soprattutto il mio, e quella sensazione di libertà assoluta provata in cresta, svanisce. Riprendiamo il sentiero a ritroso, fino al rifugio, ammiriamo l’edificio, riforniamo d’acqua le borracce e proseguiamo per la valle, cambiando itinerario, stavolta optando per il lungo sentiero 381 che passa per la Casera Bedin (mai percorso in precedenza). La scelta si rivela rischiosa, benché ancora c’è luce, siamo nel primo pomeriggio e tra due ore farà buio. Effettivamente il sentiero è lungo, alternando svariati saliscendi, più sali che scendi, tali da leggere nei dolci pensieri della mia consorte delle imprecazioni dedicate alla mia incorreggibile curiosità. Raggiunta la Casera Bedin, breve sosta, per continuare con il sentiero fino ad incrociare la carrareccia proveniente dalla Cava di Buscada. Siamo finalmente fuori dal bosco, il percorso da seguire non è tranquillo, percorriamo la lunga stradina, rallentiamo il passo, godendoci il tramonto, pronti a utilizzare le torce se necesittasse. Il silenzio della montagna accompagna il sole da Morfeo, mentre noi raggiungiamo l’auto. Una volta pronti, si rientra con l’auto a valle, percorrendo la stradina esposta sul burrone, naturalmente con più cautela, visto che tutto intorno è buio pesto. Raggiunto il rassicurante borgo di Erto, le luci irradiate dai lampioni mi annunciano che l’avventura è finita, e che ho vissuto un’altra storia da raccontare.

Il” Forestiero Nomade”

Malfa.


 
Note tecniche.

Localizzazione: Dolomiti Orientali Friulane -Gruppo del Duranno- Cima dei Preti.

Avvicinamento: Montereale-Barcis-Cimolais-Passo San Osvaldo-Erto- Rotabile per la val Zemola.

Località di partenza: Parcheggio quota 1179, pochi metri sotto il rifugio Casera Mela.

Dislivello: 1100 m.

 Dislivello complessivo: 1300 m.

Distanza percorsa in Km: 16 chilometri.

Quota minima partenza: 1171 m.

Quota massima raggiunta: 2234 m.

Tempi di percorrenza. Sei ore, escluse le soste.

In: Coppia.

 Tipologia Escursionistica-Paesaggistica.

Difficoltà: https://www.vienormali.it/images/layout/dif-EE.gif E.E.

Segnavia: CAI 374- 382- 381;

Attrezzature: No.

Croce di vetta: Si.

Libro di vetta: No, ho messo un piccolo contenitore, con un foglietto.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:


Bibliografici: Antonio e Camillo Berti, Dolomiti                                                    Orientali, volume II.

Paolo Beltrame, 101% Vera Montagna.

Stefano Bussa- Andrea Rizzato: Dolomiti D’Oltrepiave.

·         Internet:

Periodo consigliato:

Condizioni del sentiero: Ben Segnato e marcato.

Fonti d’acqua: L’ultima presso la fontana del Rifugio Maniago.

Data: 14 ottobre 2017.



Il “Forestiero Nomade”

Malfa





































































































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