Cima Spalla del Duranno dalla Val Zemola, con percorso di rientro
ad anello.
Racconto.
Com’è mia consuetudine, preparo alla perfezione un
itinerario e ne realizzo un altro, illogico no?
Evidentemente soffro così tanto di noia, che sapere dove
andrò mi toglie l’effetto della sorpresa. Anche stavolta rispondo al richiamo
delle Dolomiti d’Oltrepiave. Le dolomiti
friulane, patrimonio universale, sono un mondo fantastico, dove ancora possiamo
trovare una natura non invasa dal turismo di massa. È l’universo ideale, per
chi, nel profondo dell’animo, è un vero “Spirito Libero”.
Da tempo desidero fare conoscere la val Zemola alla mia
signora, e la Spalla del Duranno è l’occasione propizia! Preparati gli zaini, si
va a nanna, immaginando le meraviglie che vedremo il giorno dopo. L’aurora
annuncia il mattino, e noi siamo pronti da un pezzo, tanto impazienti di
partire. Vado a prendere l’auto nel garage, durante la sistemazione degli zaini
nel cofano, rimango stregato da una bellissima luna, la temperatura è mite, la
giornata promette bene. Lungo il tragitto ammiriamo la nebbia che ovatta con le
sue tinte il lago di Barcis. Le cime più alte delle dolomiti friulane ci
mostrano le creste illuminate di rosso rosso, mentre la bruma simula il lago nel
Vajont. Durante il tragitto scherzo con Giovanna, soprattutto quando percorro con
l’auto l’adrenalinico tracciato a fil di burrone che porta alla Val Zemola. Ovviamente,
mentre guido, mi tengo il più lontano possibile dallo Strapiombo. Raggiunto il
posteggio, poco sotto la Casera di Mela, ci approntiamo. Zaini in spalle,
famigliola al completo, si parte! Per la meta odierna imbocchiamo il sentiero
numerato 374, è una direttissima che punta alle pendici del Duranno. Per un breve
tratto attraversiamo il greto del torrente, seguendo gli ometti che ci indicano
la retta traccia. Dopo aver giocato con le acque di un rigagnolo, ci inoltriamo
nel fitto bosco. Ci dilettiamo a identificare gli alberi dalle loro caratteristiche
specifiche, l’autunno aiuta molto lo studio di questa nostra amata disciplina.
A metà bosco, ci colpisce la strana unione tra un faggio e un lacero, i due
tronchi sono avvinghiati in un forte abbraccio. Osservo i due alberi, anche la
mia signora ha notato il particolare, sorridiamo, provando sensazioni di amore
universale tanto caro a John Lennon. La natura, spesso elimina le distanze tra dissimili,
un lacero e un faggio, che crescono insieme nel fitto bosco trasmettono un
chiaro messaggio, le diversità sono una ricchezza, e insieme creano armonia. Venuti
fuori dal bosco, percorriamo un lungo traverso che costeggia un canalone. Il
cielo è di un azzurro intenso, ci scalda, i larici dorati, vivono il loro momento
di gloria. Da un pulpito panoramico posso ammirare le tre sorellone che
dominano la valle. Le tre cime sono: il lontano monte Borgà, la Palazza e il
monte zita(cita) e le ho racchiuse in un unico scatto.
Raggiungiamo il rifugio Maniago, il comignolo fuma di
buon’ora, all’esterno troviamo due avventori, intenti a bere birra e leggere
una mappa. Ci fermiamo ad ammirare la rustica fontana, ottenuta da un tronco di
Lacero.
Osserviamo le bancate meridionali del Duranno e proseguiamo
per la nostra meta, seguendo un cartello bianco con le indicazioni per la
forcella della Spalla del Duranno. Avviso la mia signora, che la tipologia del
sentiero cambia, da turistico passa a “Escursionisti Esperti “; lei, imperterrita e con lo spirito di una
leonessa, mi risponde:<< Finalmente, era ora!>>.
Il sentiero si
sviluppa tramite un traverso, dal rifugio a occidente, e per marcata traccia
tra le conifere, dopo un centinaio di metri si inerpica a destra, superando un
salto. Finalmente possiamo ammirare le ripide e ardue pareti meridionali della
Spalla del Duranno, che dominano il sottostante catino, misto tra ghiaie e
zolle. Tra le bianche e possenti pareti, chiaramente, intravedo l’obliqua rampa
che ci porterà alla cresta. Percorriamo la distanza che ci separa dalla parete,
attraversando il pendio, prima inerbito tra i mughi, e dopo tra roccette miste
a zolle. Dall’alto, un solitario stambecco, segue le nostre operazione, assicurandosi
che non perdiamo la traccia.
Raggiunta la base della rampa, decidiamo di liberarci dalle
zavorre (gli zaini) procedendo con il loro occultamento in una spelonca
adiacente. Con le sole sacche al seguito (dalla sopraggiunta assenza di peso ci
sembra di volare), iniziamo l’ascesa verso il paradiso. Il primo tratto di rampa
stimola timore, lo superiamo per scalini scavati nella roccia. Seguendo delle
chiare cengette, zizzagando, affrontiamo il tratto delicato, portandoci sopra
di esso, dove la roccia è più articolata e meno esposta. Un breve gradino ci
accompagna ai piani superiori, percorrendo le ultime cenge che ci invitano a
proseguire per la detritica diagonale che punta alla cresta. Il severo Duranno,
dall’alto della sua maestà, veglia sul nostro operato. Scherzando grido: <<Cresta! Cresta!>>
Imitando i marinai di Colombo che scoprirono il “Nuovo Mondo”. Raggiunta la
cresta, il paesaggio dalle fattezze appare lunare, la ghiaia è fine come
farina, percorriamo il crinale come funamboli, la linea fisica che divide Val
Zemola dal Cadore ha un fascino particolare. Magritte mi tallona, il mio caro amico
merita questa cresta di libertà. La mia signora ci segue a distanza, intravedo
dal suo volto le intense emozioni.
Procediamo per la cima, osservando dall’alto le distanti dolomiti,
alcune conosciute, altre meno. La nostra meta che sembra vicina, ci dà
l’impressione che si allontani, finché riusciamo a fermarla. Saliamo in vetta.
La cima, visto l’esiguo spazio, non è adatta per una festa tra amici. Costruisco
un ometto che mi fa da cavalletto, Magritte si fa coccolare, il vecio, ha
aggiunto un’altra cima al suo lungo elenco. Finalmente, pronto, effettuo un
autoscatto, che si rivela indecente, tento e ritento, finché ci prendo.
Immortalata la “sacra famiglia”, si procede al godimento, ovvero la
contemplazione dell’universo alpino del triveneto. Imbandiero il logo del
nostro gruppo (stampato su un foglio A4), che poi racchiudo in un mini astuccio
che depongo tra i sassi dell’ometto di vetta. In lontananza scorgiamo la coppia
incontrata in precedenza al rifugio, decidiamo di scendere dalla vetta. Lungo
la cresta che ci separa dalla forcella, individuiamo un costone ampio, dove
sostare e consumare il pasto. Il dorso è per metà farinoso (ghiaie) e per
l’altra metà inerbito, dominato dalla monumentale mole del Duranno. Sembra di vivere in paradiso, un pizzicotto conferma
che siamo vivi e vegeti, e la realtà che stiamo vivendo non è un sogno. Effettuiamo
una lunga sosta, favorita dalla totale assenza di nuvole. Consumo il panino con
lo sguardo rivolto lontano, alle belle dolomiti venete, sono talmente assolto
dai pensieri, che tardivamente odo una vocina che mi sussurra qualcosa, mi chiama
per nome:<<Ben ritornato Giuseppe, ultimamente sei assiduo tra i monti,
mi fa piacere, amo il tuo entusiasmo, a presto forestiero.>> Mi giro, scorgo
un piccolo uccellino posato su un sasso, la montagna mi ha comunicato e ora
vola via. Finita la pausa, rientriamo a valle, ammirando due stambecchi presso
la forcella. Scendiamo dalla sella, stranamente la discesa è meno impegnativa della
salita, in breve siamo giù. Raggiunti gli zaini, ne avvertiamo il peso,
soprattutto il mio, e quella sensazione di libertà assoluta provata in cresta, svanisce.
Riprendiamo il sentiero a ritroso, fino al rifugio, ammiriamo l’edificio, riforniamo
d’acqua le borracce e proseguiamo per la valle, cambiando itinerario, stavolta optando
per il lungo sentiero 381 che passa per la Casera Bedin (mai percorso in
precedenza). La scelta si rivela rischiosa, benché ancora c’è luce, siamo nel
primo pomeriggio e tra due ore farà buio. Effettivamente il sentiero è lungo,
alternando svariati saliscendi, più sali che scendi, tali da leggere nei dolci
pensieri della mia consorte delle imprecazioni dedicate alla mia incorreggibile
curiosità. Raggiunta la Casera Bedin, breve sosta, per continuare con il
sentiero fino ad incrociare la carrareccia proveniente dalla Cava di Buscada.
Siamo finalmente fuori dal bosco, il percorso da seguire non è tranquillo,
percorriamo la lunga stradina, rallentiamo il passo, godendoci il tramonto, pronti
a utilizzare le torce se necesittasse. Il silenzio della montagna accompagna il
sole da Morfeo, mentre noi raggiungiamo l’auto. Una volta pronti, si rientra
con l’auto a valle, percorrendo la stradina esposta sul burrone, naturalmente
con più cautela, visto che tutto intorno è buio pesto. Raggiunto il
rassicurante borgo di Erto, le luci irradiate dai lampioni mi annunciano che
l’avventura è finita, e che ho vissuto un’altra storia da raccontare.
Il” Forestiero Nomade”
Malfa.
Note tecniche.
Localizzazione: Dolomiti Orientali Friulane -Gruppo del
Duranno- Cima dei Preti.
Avvicinamento: Montereale-Barcis-Cimolais-Passo San
Osvaldo-Erto- Rotabile per la val Zemola.
Località di partenza: Parcheggio quota 1179, pochi metri
sotto il rifugio Casera Mela.
Dislivello: 1100 m.
Dislivello
complessivo: 1300 m.
Distanza percorsa in Km: 16 chilometri.
Quota minima partenza: 1171 m.
Quota massima raggiunta: 2234 m.
Tempi di percorrenza. Sei ore, escluse le soste.
In: Coppia.
Tipologia
Escursionistica-Paesaggistica.
Difficoltà: E.E.
Segnavia: CAI 374- 382- 381;
Attrezzature: No.
Croce di vetta: Si.
Libro di vetta: No, ho messo un piccolo contenitore, con un
foglietto.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
Bibliografici:
Antonio e Camillo Berti, Dolomiti Orientali,
volume II.
Paolo
Beltrame, 101% Vera Montagna.
Stefano
Bussa- Andrea Rizzato: Dolomiti D’Oltrepiave.
·
Internet:
Periodo consigliato:
Condizioni del sentiero: Ben Segnato e marcato.
Fonti d’acqua: L’ultima presso la fontana del Rifugio
Maniago.
Data: 14 ottobre 2017.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
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