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giovedì 12 ottobre 2017

Cima dei Camapanoz



Cima dei Campanoz dalla Val Cimoliana.                                                                                      Note tecniche.

Localizzazione: Dolomiti – Prealpi Venete- Gruppo Clautani

Avvicinamento: Montereale Valcellina-Barcis-Cimolais- Valle Cimoliana- Ponte Compol.

Dislivello: 1412 m.

 Dislivello complessivo: 1412 m.

Distanza percorsa in Km: 13 chilometri.

Quota minima partenza: 728 mt.

Quota massima raggiunta: 2144 mt.

Tempi di percorrenza. 6,5 ore escluse le soste.

In: Coppia + Magritte.

 Tipologia Escursione: Selvaggio estremo.

Difficoltà:  E.E.

Segnavia: CAI 374.

Attrezzature: No.

Croce di vetta: No.

Libro di vetta: No.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:


·         Bibliografici: Antonio e Camillo Berti, Dolomiti Orientali, volume II. Paolo Beltrame, 101% Vera Montagna.

·         Internet:

Periodo consigliato: maggio-ottobre

Condizioni del sentiero: Sentiero CAI ben segnato e marcato, dopo si procede per tracce di camoscio.

Fonti d’acqua: No.

Data: 09 ottobre 2017.



Il “Forestiero Nomade”

Malfa


Racconto.

 Con ancora la mitica Cima Fortezza impressa in mente, penso già a quella da fare, sempre in zona. Le montagne sono dispettose, mi ricordano i tempi dell’adolescenza, conoscevi una ragazza, l’adocchiavi, la conquistavi, ci uscivi, iniziando a pensare alla sua amica, e poi all’altra amica ancora. Così è per il viandante, conquistata una cima ne studia le altre, in fondo egli è fedele solo a sé stesso, o meglio è fedele alla sua infedeltà. Dal Pian di Gai (che tanto mi ricorda per i colori i dipinti di Van Gogh), ho ammirato le creste che lo circondano, tra esse mi hanno colpito le verticali pareti della cima dei Campanoz, di cui ignoravo l’esistenza. Consultando la Bibbia secondo “Beltrame”, ho preso appunti e quindi mappe alla mano ho studiato il percorso. Come escursione ne avevo preparata una da effettuarsi nel tarvisiano, lunga e con difficoltà turistico-escursionistiche, tutto pronto, compresa la mappa nella tasca dello zaino, e invece quella diabolica vocina interiore mi suggerisce di continuare a vagare per i monti di Cimolais. Mi convinco, si va con la squadra che conosco meglio, il mio nucleo familiare. Alla mia signora che mi chiede del dislivello e delle difficoltà tecniche, glisso, con risposte fuggenti, magnificando la zona e il paesaggio che vedremo, ed è quello che penso. Dopo colazione, si parte di buon mattino per la Val Cimoliana, Il Duranno e la Cima dei Preti ci danno il benvenuto, con il loro volto esposto al sole. La temperatura, malgrado il cielo sia terso, risente della stagione, partiamo dal posteggio dove abbiamo lasciato l’auto (Ponte di Compol) ben imbacuccati.

Entriamo nella Val Compol con il naso proteso all’insù, stregati dalle bianche e luminose pareti del Duranno. Per sentiero ben tracciato e segnato percorriamo la destra orografica del torrente, per risalire con una serie di tornanti i pendii boschivi settentrionali della valle. Incontrato il cartello con biforcazione, noi proseguiamo a sinistra per casera Lodina, mentre a destra il sentiero raggiunge il bivacco Greselin. Camminiamo nella bellissima faggeta, giocando a ricostruire ometti, liberando dalle frasche il sentiero. La luce filtra dalle fronde della vegetazione, vivacizzando i colori autunnali, è semplicemente un sogno. Giovanna è estasiata commentando con gioiose parole l’onirico ambiente, le rispondo che il bello deve ancora venire. Durante l’ascesa passiamo davanti a un faggio alla cui base dorme una ninfa. Essa è ignuda, come se fosse pronta per l’amplesso, l’ho incontrata in passato e nel rivederla provo le medesime sensazioni. Sicuramente incarna lo spirito di una donna che volle solo amare, senza chiedersi se fosse cosa giusta. Amava, donando il suo corpo a chi lo sapeva apprezzare, che amandola ne avrebbe sposato lo spirito. La sfioro delicatamente sul monte di venere, immagino il suo volto mentre proseguo per il viaggio. Come ho scritto in precedenza il bello deve ancora venire, ed eccoci fuori dal bosco, con un crescendo di emozioni, fischietto una sinfonia di Mozart, assistendo a una visione degna del Louvre. Gli alberi, di tutte le specie, indossano abiti coloratissimi, l’autunno per la natura è una festa di Carnevale, a cui i signori della montagna aderiscono con gli abiti più affascinanti. Apre le danze un biondo acero, mentre al di là del prato creano un balletto: faggi, abeti e larici. Precedo Giovanna di alcuni metri, dedicando passi solitari ai pensieri, Magritte fa la spola tra entrambi, si diverte. Mi fermo, mi diletto a fotografare gli alberi, conosco bene il sentiero. Poco in alto, prima dei prati che precedono la casera Lodina, mi aspetta una fontana, che in qualsiasi stagione offre un rigolo d’acqua ai viandanti. Mi siedo sul bordo di essa, aspettando la mia Signora. Ella, giunge felice, mi illustra con entusiasmo la bellezza che la circonda. Dall’alto volgiamo lo sguardo alla pianura e alle cime delle Prealpi del pordenonese. Le sorrido, e gli rispondo: <<Ancora il bello deve venire.>> Pochi metri dopo la fonte, seguendo la labile tracce notiamo un triangolo scuro, che dopo diventa tetto e in seguito casera Lodina. Zaini a terra, è tempo di gioire, lasciarsi andare, per un breve lasso di tempo saremo semidei di questo fantastico mondo. Il paesaggio è uno dei più belli dell’arco alpino, con il solo sguardo riesco a racchiudere le cime bianche del Duranno, Cima dei Frati e dei Preti e le selvagge Monte Vacalizza, Cima dei Vieres e Sparavier, dietro loro, nascosto come un bimbo monello, spicca il Turlon.  Una sola immagine racchiude tutto quello che di magnifico può donarti la montagna. Entro per un breve istante nella casera, tenuta in ordine, firmo sul libro di via, segnando la provenienza e la cima dove andremo.

Abbiamo percorso più della metà del sentiero, ci rimangono ancora seicento metri di dislivello, ma saranno accompagnati dal sole. Si riparte, percorrendo i prati a occidente della casera fino a passare per i ruderi della casera Bergon, dirigendoci alla forcella Lodina. Metro dopo metro, il paesaggio ingigantisce la sua maestà, i selvaggi prati del remoto pascolo sono un morbido tappeto, il monte Lodina domina la scena, conosco bene la sua cima, incontrata anni fa.

La forcella Lodina è sempre più vicina, la traccia quasi svanisce, come sono spariti i segni, un ometto ci giura e spergiura che siamo sulla giusta via. Con un occhio guardo la vicina forcella; mentre alla mia destra, a sud- ovest, vedo lei, la meta di oggi, la cima dei Campanoz, coperta di mughi che la rendono regale come una vecchia signora con pelliccia.

Mi spingo fino alla forcella Lodina per marcare il territorio, non ci ero mai stato. Raggiunta la sella, vengo attratto da una bizzarra croce, bella, creata con una corda per alpinisti e dei legni di larice, da lontano mi appare come un cristo, è vero, questa terra è fertile di artisti, poeti, spiriti liberi. Ritorno sui miei passi, incrociando il cartello che mi invita a proseguire per la forcella del Duranno. Lo percorriamo solo per pochi metri, mi fermo, studio la progressione per la nostra meta. Alla mia sinistra devo scendere per una depressione, per poi risalirla, percorrendo le conche erbose dove la presenza dei mughi è esigua. Mantenendomi in quota, raggiungo la base di una rampa, che da lontano appare come un’ampia cengia, che con sostenuta pendenza e slancio raggiunge la mugheta, più alta di un centinaio di metri; dove cercherò un varco che mi permetta di raggiungere il pendio erboso sommitale. Illustro il percorso a Giovanna, che mi appare convinta e fiduciosa. Si procede, taglio la conca erbosa che si dirige verso la Busa dei Vediei a mezza costa, portandomi alla base della depressione per poi risalire. Aggirati alcuni mughi salgo su un masso, dal basso sbuca fuori un magnifico camoscio, si ferma, gira indietro la testa, mi saluta, posa per un paio di foto e abbandona il luogo. Mi raggiunge Giovanna, che aveva sentito la frase “Camoscio a sud-ovest”, e mi chiede dov’è finito il cornuto caprino, le rispondo:<< Guarda dentro il display della reflex.>> Un “Vaffa” è naturale, ma si ferma al limite delle sue labbra, vista la sacralità del luogo. Magritte è incantato, lui adora gli animali, sicuramente più di noi bipedi. Ripreso il cammino, scorgo una traccia di camoscio, la seguo, mi porta verso la meta. In una vita passata sicuramente ero incarnato in un lupo, lo intuisco da come percepisco le tracce. Raggiunta la base della grande cengia, decidiamo di separarci dagli zaini, portando al seguito lo stretto necessario, ahimè, lasciando anche i ramponi da erba, che in cresta sarebbero stati utili. Si prosegue, sempre per traccia di camoscio, lambendo le primitive pareti settentrionali del monte. Il percorso è ripido, ma messo al sicuro dai mughi, che alla nostra destra (salendo) simulano i guard-rail. Nella roccia sembrano aprirsi cavità, ma non assumono la profondità delle spelonche. Giunti quasi alla fine della cengia, troviamo un varco tra i mughi, voltando a sinistra, in cerca di un passaggio per i prati sovrastanti. Trovo l’accesso pochi metri sopra, sfruttando i mughi come corde e le zolle come scalini. Una paretina, di primo grado inferiore, ci accompagna alla base dei prati sommitali. Ci ritroviamo sull’erto ed esposto pendio, sconsigliabile se bagnato o ghiacciato; mando avanti Giovanna (mi dà più sicurezza saperla dinanzi) guidandola dal basso sui passaggi da seguire. Le tracce di camoscio ci aiutano, e finalmente siamo in vetta, molto affilata ed esposta  sul versante meridionale. Uno scarno ometto è il suo simbolo, alcuni attimi di silenzio, per superare l’emozione, e poi concederci alla contemplazione. Giovanna è entusiasta, e prima che io parli, mi dice:<< C’è ancora un bello da venire?>> Sorrido. <<No, c’è solo un bello da ammirare!>> Le ho risposto. Preparo con dei sassi un ometto da usare come cavalletto per la reflex. Stando attenti, ci manteniamo sul versante settentrionale, contemplando un paesaggio degno di un Dio. Siamo felici, ben consapevoli, che dalla felicità, prima o poi, bisogna scendere. Arrestiamo il tempo, mi complimento con la compagna, dichiarandole la mia stima incondizionata, chi arriva quassù non certo viene per pettinare le bambole, al massimo, spazzolare Magritte. Complimenti anche per lui, il vecio, che qualche vaffa se lo è preso, mentre si ingarbugliava tra i mughi. Per la sua altezza fisica, date le proporzioni, ogni escursione prevede: da un minimo di primo grado, fino a toccare passaggi arditi per un cagnolino. Dei nuvoloni poco rassicuranti si avvicinano, si sta abbassando la temperatura, è giunta l’ora di lasciare la cima, e affrontare il ritorno. Con cautela e piccoli passi, tutto fila liscio come l’olio. Raggiunti i mughi sottostanti, la cengia ci appare come un’autostrada a otto corsie, più motel e rifornitore di carburante. Scendiamo lesti dalla cengia, fino a recuperare gli zaini, avviandoci per la traccia di camoscio, che percorriamo fino alle conche erbose solcate dal sentiero 374; stavolta imbocchiamo la direzione “Casera Lodina”. L’appetito si fa sentire, la casera è lontana, agognata come una pozza d’acqua dai beduini, nell’infuocato deserto. Eccola! Finalmente, essa ci appare distante, ma è matematicamente dimostrato, che più si scende e più si avvicina, finché non bussiamo all’uscio e adagiamo gli zaini sulla trave all’esterno. Mentre Giovanna imbandisce un picnic, firmo il libro di via, invertendo le direzioni di arrivo e destinazione. Si mangia, Magritte oltre al suo vitto, pretende anche il nostro, l’astuto vecchietto lo merita e noi ci sacrifichiamo.  Consumato il lauto pasto, riprendiamo il cammino, entrando nel bosco, che passo dopo passo ci è sempre più familiare. Durante la discesa, salutiamo gli amici, ometti e faggi, e naturalmente la misteriosa amante, fino a raggiungere l’argine del torrente della Val Campol. Il tramonto tinge di vermiglio le Cime dei Vieres e delle sue sorelle. Raggiunto lo spiazzo da dove siamo partiti, contemporaneamente sopraggiunge un’auto con un escursionista. Noi togliamo gli scarponi, e lui li indossa. La montagna è la metafora della vita “C’e chi va e c’è chi viene, mentre il tutto scorre, come sabbia nella clessidra.

Il “Forestiero Nomade”

Malfa.






















































































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