Monte Fortezza 2101 mt. Dal Passo di Sant’Osvaldo(Erto)
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Orientali-Prealpi Venete. Gruppo del
Col Nudo –Cavallo.
Avvicinamento: Montereale di Val Cellino-Barcis-Cimolais-
Passo di Sant'Osvaldo.
Dislivello: 1400 m.
Dislivello
complessivo: 1400 m.
Distanza percorsa in Km: 12 chilometri.
Quota minima partenza: 825 m.
Quota massima raggiunta: 2101 m.
Tempi di percorrenza. 6 ore escluse le soste.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione:
Selvaggio estremo.
Difficoltà: E.E.
Segnavia: CAI 374 A fino ai Piani dei Gai, per il proseguo
nessun segno, ometto e ne tracce.
Attrezzature: Nessuna.
Croce di vetta: No.
Libro di vetta: Si.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
2)
Bibliografici: Antonio e Camillo Berti, Dolomiti
Orientali, volume II. Paolo Beltrame, 101% Vera Montagna.
3)
Internet:
Periodo consigliato: maggio-ottobre
Condizioni del sentiero: Selvaggio.
Fonti d’acqua: Nessuna.
Data: 07 ottobre 2017.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Racconto.
Pur frequentando la
valle del Vajont, ignoravo l’esistenza della cima “Fortezza”, ho letto per la
prima volta il toponimo cercando un percorso alternativo per raggiungere le
cime Centenere.
Scorrendo il dito sulla mappa ne ho studiato le probabili vie
di accesso, e i rilievi circostanti, ho completato la ricerca studiando la
bibbia (guida tascabile di A. BERTI), e la preziosa guida “101% Vera Montagna”
di Paolo Beltrame, quindi metto in programma l’escursione. Dopo l’uscita sul Navagiust,
il desiderio di percorrere in solitudine i sentieri di montagna è ritornato.
Il lupo, nella valle solcata dal torrente Bordaglia, vagava
in libertà, e ieri sulla Cima Fortezza ha volato.
La Cima Fortezza, non è una sommità famosa, né frequentata
da chi preferisce il blasone del nome, è un rilievo minore, ma selvaggio; la si
raggiunge con tanta fatica, senza l’ausilio delle tracce, occorre solo vista e intuito;
è la montagna ideale per gli Spiriti Liberi, e ho voluto mettermi alla prova
per l’ennesima volta.
Il mio compagno di avventura come sempre è Magritte, povero,
comincia a mostrare gli anni, ma ne scriverò dopo. Il luogo scelto come
partenza per l’escursione è il Passo di Sant’Osvaldo, posteggio l’auto nello
spiazzo adiacente alla piccola cappella.
Allestitici con il materiale
occorrente, partiamo, fiduciosi nell’esito dell’impresa. La giornata è favolosa,
cielo terso e temperatura freddina che con il passare delle ore si alzerà.
Piuttosto che scendere e partire dal basso, ma con meno distanza (come
consigliano alcune guide escursionistiche), decido di iniziare l’escursione dal
sentiero che ho di fronte, nascosto tra i noccioli sopra il margine della
strada, esso è ben marcato e denota la scarsa frequentazione. La traccia si
mantiene in quota, abbassandosi di poco, prima dei prati che partono da un
edificio pubblico, superati quest’ultimi, proseguo per carrareccia che si
innesta poco più avanti con il sentiero ufficiale 374 A, proveniente dalla
stradina asfaltata.
Salendo a monte incontro i primi segni CAI, che segnano la
bellissima e larga mulattiera, che risale il pendio erboso chiamato “La
Garoffola”. Lungo il percorso passo vicino a dei vecchi ruderi di stavoli, mi
diverto a sistemare gli ometti o crearne altri. I faggi, compagni di viaggio,
sono secolari e dalle forme eccentriche, assumendo spesso aspetti antropomorfi.
Mi rilasso, cammino sopra le foglie secche che ammantano il sentiero come un
morbido tappeto, inebriato da cotanta serenità il mio pensiero vola lontano.
Stranamente, la
mulattiera e il suo remoto passato mi ispirano pensieri bizzarri ed erotici. Immagino
le montanare che accompagnano i bimbi a scuola, scendere velocemente per questi
ciottoli giù a Erto, dove c’è solo una scuola. L’insegnante è uno forestiero, ben
vestito per il borgo, ma demodé per le grandi città. Ha un aspetto smilzo, di
media altezza, capelli arruffati color biondo oro, baffetti ben curati, e uno
sguardo da furbetto, con abiti impregnati da profumo. Piace alle donne della
valle, sia per i modi gentili che per la maniera di esprimersi, adoperando,
quando la situazione lo richiede un certo francesismo. Le montanare, dai
vestiti vistosi, hanno il volto ornato da un fazzoletto, e baffetti scuri sopra il labbro superiore. Il nostro maestro,
galantemente le chiama madame, attraendole per il linguaggio forbito (spesso a
loro incomprensibile) e lo sguardo penetrante, che adopera deliberatamente con
le vallegiane più attraenti. In esse provoca pensieri audaci, tali da essere
inconfessabili al pur progressista celebrante del paese. Mi piace pensare a loro
(le montanare), la notte, nel talamo nunziale, vestite, come si usava allora, andare
a letto; far l’amore con il marito, mentre desiderano il professorino. I
pensieri erranti durano poco, Magritte volta di scatto indietro la testa, vedo
giungere dal basso un giovane. Mi fermo per togliere la giacca tecnica, fa
caldo. Il ragazzo, proviene da Mestre, si appresta a fare il giro delle forcelle,
passando sotto il Duranno. Un giovane “Spirito libero”, barbetta occhi azzurri
e sorriso luminoso, in lui rivedo me giovane. Ci salutiamo, lui procede, io ne
approfitto per sistemare meglio lo zaino. Ripreso il cammino continuo a giocare
con i sassi, ammiro le foglie che si vestono color oro e bronzo. Uscito dal
bosco in località Pian dei Gai, vengo abbagliato dalla luminosità dei prati. È
tale la bellezza della località, che mi fermerei, ma la meta mi aspetta.
Estraggo dal taschino il foglio dove ho trascritto alcuni dati sul Monte Fortezza.
Mi guardo intorno, davanti ho il monte Lodina, proseguendo con lo sguardo da
destra a sinistra, individuo la cima dei Campanoz, e la propaggine meridionale
della cresta delle Centenere; dalla descrizione leggo di mughi in cresta, allora
è la cima Fortezza, oltre la forcella a Nord-Ovest. Da lontano non appare nemmeno
eminente, sarà un inganno ottico, studio il percorso da fare. Di sicuro devo
raggiungere la piccola forcella che è la congiunzione tra la mia meta e la
prosecuzione a meridione della cresta delle Centenere. Visto che non avrò
l’ausilio delle tracce, decido di salire il ripido prato, scegliendo come
direzione le pendici meridionali della Cima dei Campanoz, e sempre per prati,
mantenendomi in quota, provo a raggiungere la forcella. Armato da tanta volontà,
inizio la lunga ascesa sulla prima dorsale erbosa, camminando al centro di essa.
Noto tracce di caprioli, le seguo fino ad arrivare con tanta fatica, quasi
sotto le pareti rocciose del Campanoz. Mi sposto a occidente, cercando di
tagliare la dorsale. Mi rendo conto che mi sono spinto troppo in alto, il
pendio è tanto esposto sul canalone, che mi divide dalla Costa Lunga. Cerco una
zolla meno ripida, dove potere adagiare lo zaino, da esso estraggo i mini
ramponi, che calzo subito. Adesso mi sento più sicuro, decido di scendere dal
costone, raggiugendo il canalone, per poi risalire sul pendio della Costa
Lunga. Durante la traversata sento cadere dei sassi, e dietro la dorsale sbucare
una famiglia di caprioli. Mi fermo, sono in equilibrio su una zolla, effettuo
le foto rimanendo in bilico. Risalita sull’inerbita dorsale punto alla base
delle rocce bianche (estremità meridionale delle Centenere) che precedono la
forcella. Devo percorrere trecento metri di dislivello del ripido costone, cammino
sulla schiena di esso, effettuando delle soste per riprendere fiato.
Giunto quasi sotto le rocce, compio una diagonale sui ripidi
prati, mirando alla base della forcella, con i ramponi ho tanta presa, tutto appare
più facile. Finalmente ho raggiunto la sella, bella e selvaggia, il paesaggio
oltre è la Val Zemola, ammiro il vicino Duranno e le lontani Dolomiti del
Cadore.
Tralascio la contemplazione, proseguendo per la cima. Lascio
lo zaino in forcella, portando al seguito lo stretto indispensabile (sacca) e
il fido compagno. Nei primi metri aggiro il costone a meridione, portandomi
sotto le strapiombanti pareti rocciose della vetta (alte, circa trenta metri),
seguo le tracce di caprioli per esile cengia fino a giungere alla base di una
paretina coperta di mughi. Mi arrampico per pochi metri, con passaggi di primo
grado basso. Per via dell’esposizione e per l’impraticabilità dei mughi, decido
di lasciare Magritte e i bastoncini, presso un corposo tronco di mughi. Mi
avventuro dentro la mugheta, districandomi tra i tentacoli e avvertendo
prossima la cresta. Infatti dopo l’impari lotta, finita a mio favore, raggiungo
la cupoletta dell’ante-cima. Mi fermo esalando un profondo respiro con cui
scarico la tensione e procedo per la cima, che dista solo pochi metri.
Raggiungo la meta passando per una risicata cengia esposta, con l’aiuto dei
mughi che uso come passamano. Finalmente la vetta, il sogno si è realizzato.
Sto in bilico sulla piccola cresta, esposta sull’impressionante baratro che si
aggetta sulla Val Zermola. Mi adagio vicino all’ometto, notando che è sprovvisto
di libro di vetta, provvedo a istallarne uno. Mi concedo alla visione del paesaggio,
fantastico, emozionante, mi alzo con cautela, non vorrei riprendere con la
macchina fotografica la mia fine. Ricostruito l’ometto, lo corredo di un bel
legno di mugo incurvato, e salutando la Fortezza mi appresto al ritorno.
Il rientro dalla cresta non è facile, non ricordo bene da
dove sono salito, ovvero, il punto preciso di uscita dai mughi, quindi mi calo
tra essi, come se mi immergersi in un oceano; finché (tenendomi ben stretto ai
rami), scorgo in basso qualcosa colorato di rosso, il guinzaglio di Magritte. Mi
calo in quella direzione, ritrovando l’amico (che scodinzola), ben felice di
vedermi. Ripercorsa a ritroso la piccola cengia, ritorno alla bella forcella,
ornata di roccia frastagliata nella parte inferiore. Finalmente la sosta, ce la
siamo meritata. Imbandisco un tavolo per due, e consumiamo il pasto che dopo la
conquista della Fortezza ha un sapore particolare. L’amico si abbandona al suo
noto pisolino e io mi dedico alla perlustrazione della zona; ammirando le
bianchi pareti del Duranno e le lontani dolomiti. Dopo una lunga pausa (la
bella giornata ce lo ha concesso), ci avviamo per il ritorno, un lunghissimo e
faticoso cammino, ma felice di avere una cima da raccontare.
I raggi del sole pomeridiano tingono la natura di colori ancora
più caldi, mentre pensieri malinconici accompagnano il cammino del Viandante.
Osservo il fedele amico, a volte claudica, mi sgorga una lacrimuccia. Magritte
mi è compagno d’avventura da più di due lustri, mi ha seguito ovunque, senza
esitazioni, più fedele della mia ombra; si ferma, mi osserva con quegli occhioni,
lo accarezzo, riprende a camminare. Ne abbiamo fatta di strada insieme, spesso
comunicando con il silenzio. A volte vorrei lasciarlo a casa per non stancarlo,
ma ne soffre e sentendosi escluso e abbandonato, forse colpevolizzato. Tra i
due mali preferisco averlo al fianco. Per Magritte la “Montagna” è vita,
ragione di essere, si contenta di starmi vicino, lambendomi gli scarponi. Il
cagnetto ha compreso che la cima è il luogo d’arrivo, dove sovente depongo lo
zaino, e lui può fare il pisolino. Poco prima dell’arrivo all’auto, perdo la
traccia, chiedo a Magritte di andare avanti lui, subito la ritrova con il fiuto,
ripercorrendo dove la mattina abbiamo lasciato il passo. Pochi metri prima
dell’auto mi fermo a fotografare delle foglie ingiallite, stavolta il fido mi
tira, facendomi intuire, che è stanco e che ha voglia di distendersi nei comodi
sedili posteriori dell’auto. Come non assecondarlo, obbedisco, così
raggiungiamo il mezzo.
Mentre il prode canino riposa, mi preparo con calma per il
rientro, dando un ultimo sguardo alla lontana cima, che da oggi è un sogno… da
raccontare.
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
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