Magritte , io e l’ascesa al Monte Fortezza
Ottobre 2017
Solo racconto:
Pur frequentando la valle del Vajont, ignoravo
l’esistenza della cima “Fortezza”, ho letto per la prima volta il toponimo
cercando un percorso alternativo per raggiungere le cime Centenere.
Scorrendo il dito sulla mappa ne ho studiato le
probabili vie di accesso, e i rilievi circostanti, ho completato la ricerca
studiando la bibbia (guida tascabile di A. BERTI), e la preziosa guida “101%
Vera Montagna” di Paolo Beltrame, quindi metto in programma l’escursione. Dopo
l’uscita sul Navagiust, il desiderio di percorrere in solitudine i sentieri di
montagna è ritornato.
Anche stavolta i lupi nella valle solcata dal torrente
Bordaglia.
La Cima Fortezza non è una sommità famosa, né
frequentata da chi preferisce il blasone del nome, essa è un rilievo minore ma
selvaggio. La si raggiunge con tanta fatica e senza l’ausilio delle tracce,
occorre avere solo vista e intuito. È la montagna ideale per gli Spiriti
Liberi, e anche stavolta ho voluto mettermi alla prova.
Magritte, il mio compagno di avventura malgrado inizi
a mostrare gli anni anche stavolta sarà con me, ma di questo scriverò dopo. Il
luogo scelto come partenza per l’escursione è il Passo di Sant’Osvaldo,
posteggio l’auto nello spiazzo adiacente alla piccola cappella. Allestito il
materiale occorrente, partiamo, fiduciosi nell’esito dell’impresa. La giornata
è favolosa, cielo terso e temperatura freddina che con il passare delle ore si
alzerà. Piuttosto che scendere e partire dal basso, ma con meno distanza (come
consigliano alcune guide escursionistiche), decido di iniziare l’escursione dal
sentiero che ho di fronte, nascosto tra i noccioli sopra il margine della
strada, esso è ben marcato e denota la scarsa frequentazione. La traccia si
mantiene in quota, abbassandosi di poco, prima dei prati che partono da un
edificio pubblico, superati quest’ultimi, proseguo per carrareccia che si
innesta poco più avanti con il sentiero ufficiale proveniente dalla stradina
asfaltata.
Salendo a monte incontro i primi segni CAI, che
segnano la bellissima e larga mulattiera, che risale il pendio erboso chiamato
“La Garoffola”. Lungo il percorso lambiamo dei vecchi ruderi di stavoli, mi
diverto a sistemare gli ometti o crearne altri. I faggi, compagni di viaggio,
sono secolari e dalle forme eccentriche e assumono spesso aspetti antropomorfi.
Mi rilasso, cammino sopra le foglie secche che ammantano il sentiero come un
morbido tappeto, inebriato da cotanta serenità il mio pensiero vola lontano.
Stranamente, la mulattiera e il suo remoto passato mi
ispirano pensieri bizzarri ed erotici. Immagino le montanare che accompagnano i
bimbi a scuola, scendere velocemente per questi ciottoli giù a Erto, dove c’è
solo una scuola. L’insegnante è uno forestiero, ben vestito per il borgo, ma
demodé per le grandi città. Ha un aspetto smilzo, di media altezza, capelli
arruffati color biondo oro, baffetti ben curati, e uno sguardo da furbetto, con
abiti impregnati da profumo. Piace alle donne della valle, sia per i modi
gentili che per la maniera di esprimersi, adoperando, quando la situazione lo
richiede un certo francesismo. Le montanare, dai vestiti vistosi, hanno il
volto ornato da un fazzoletto, e baffetti scuri sopra il labbro superiore. Il
nostro maestro, galantemente le chiama madame, attraendole per il linguaggio
forbito (spesso a loro incomprensibile) e lo sguardo penetrante, che adopera
deliberatamente con le vallegiane più attraenti. In esse provoca pensieri
audaci, tali da essere inconfessabili al pur progressista celebrante del paese.
Mi piace pensare a loro (le montanare), la notte, nel talamo nunziale, vestite,
come si usava allora, andare a letto, far l’amore con il marito, mentre
desiderano il professorino. I pensieri erranti durano poco, Magritte volta di
scatto indietro la testa e vedo giungere dal basso un giovane. Mi fermo per
togliere la giacca tecnica, fa caldo. Il ragazzo, proviene da Mestre, si
appresta a fare il giro delle forcelle, passando sotto il Duranno. Un giovane
“Spirito libero”, barbetta occhi azzurri e sorriso luminoso, in lui rivedo me
giovane. Ci salutiamo, lui procede, io ne approfitto per sistemare meglio lo
zaino. Ripreso il cammino continuo a giocare con i sassi, ammiro le foglie che
si vestono color oro e bronzo. Uscito dal bosco in località Pian dei Gai, vengo
abbagliato dalla luminosità dei prati. È tale la bellezza della località, che
mi fermerei, ma la meta mi aspetta. Estraggo dal taschino il foglio dove ho
trascritto alcuni dati sul Monte Fortezza. Mi guardo intorno, davanti ho il
monte Lodina, proseguendo con lo sguardo da destra a sinistra, individuo la
cima dei Campanoz, e la propaggine meridionale della cresta delle Centenere;
dalla descrizione leggo di mughi in cresta, allora quella è la cima Fortezza, si
è posta oltre la forcella a Nord-Ovest. Da lontano non appare nemmeno eminente,
sarà un inganno ottico? Nel frattempo. mi studio il percorso da fare. Di sicuro
devo raggiungere la piccola forcella che è la congiunzione tra la mia meta e la
prosecuzione a meridione della cresta delle Centenere. Visto che non avrò
l’ausilio delle tracce, decido di salire il ripido prato, scegliendo come
direzione le pendici meridionali della Cima dei Campanoz, e sempre per prati,
mantenendomi in quota, provo a raggiungere la forcella. Armato da tanta volontà
e dalla forza spirituale del mio fido, inizio la lunga ascesa sulla prima
dorsale erbosa, camminando al centro di essa. Noto tracce di caprioli, le seguo
fino ad arrivare con tanta fatica, quasi sotto le pareti rocciose del Campanoz.
Mi sposto a occidente, cercando di tagliare la dorsale. Mi rendo conto che mi
sono spinto troppo in alto, il pendio è tanto esposto sul canalone, che mi
divide dalla Costa Lunga. Cerco una zolla meno ripida, dove potere adagiare lo
zaino, da esso estraggo i mini-ramponi, che calzo subito. Adesso mi sento più
sicuro, decido di scendere dal costone, raggiugendo il canalone, per poi
risalire sul pendio della Costa Lunga. Durante la traversata sento cadere dei
sassi, e dietro la dorsale sbucare una famiglia di caprioli. Mi fermo, sono in
equilibrio su una zolla, effettuo le foto rimanendo in bilico. Risalita
sull’inerbita dorsale punto alla base delle rocce bianche (estremità
meridionale delle Centenere) che precedono la forcella, di seguito dobbiamo percorrere trecento metri di
dislivello del ripido costone, camminiamo sulla schiena di esso, effettuando
delle soste per riprendere fiato.
Giunti quasi sotto le rocce, compiamo una diagonale
sui ripidi prati, mirando alla base della forcella, con i ramponi ho tanta
presa, tutto appare più facile. Finalmente abbiamo raggiunto la sella, bella e
selvaggia, il paesaggio oltre è la Val Zemola. Ammiro il vicino Duranno e le
lontane Dolomiti del Cadore.
Tralascio la contemplazione, proseguendo per la cima.
Lascio lo zaino in forcella, portando al seguito lo stretto indispensabile
(sacca) e il naturalmente il mio grande amico. Nei primi metri aggiro il
costone a meridione, portandomi sotto le strapiombanti pareti rocciose della
vetta (alte, circa trenta metri), seguo le tracce di caprioli per esile cengia
fino a giungere alla base di una paretina coperta di mughi. Mi arrampico per
pochi metri, con passaggi di primo grado basso. Per via dell’esposizione e per
l’impraticabilità dei mughi, decido di lasciare Magritte e i bastoncini, presso
un corposo tronco di mughi. lo saluto con una carezza e mi avventuro dentro la fitta mugheta,
districandomi tra i tentacoli mentre intuisco
che la cresta è prossima. Infatti, dopo l’impari lotta finita a mio
favore, raggiungo la cupoletta dell’ante-cima. Mi fermo esalando un profondo
respiro con cui scarico la tensione accumulata e procedo per la cima, che dista
solo pochi metri. Raggiungo la meta passando per una risicata cengia esposta
con l’aiuto dei mughi che uso come passamano. Finalmente la vetta, il sogno si
è realizzato. Sto in bilico sulla piccola cresta, esposta sull’impressionante
baratro che si aggetta sulla Val Zermola. Mi adagio vicino all’ometto, notando
che è sprovvisto di libro di vetta, provvedo a istallarne uno. Mi concedo alla
visione del fantastico paesaggio, emozionante! Mi alzo con cautela, non vorrei
riprendere con la macchina fotografica la mia fine. Ricostruito l’ometto, lo
corredo di un bel legno di mugo incurvato, e salutando la CIMA della Fortezza
mi appresto al ritorno.
Il rientro dalla cresta non è facile, non ricordo bene
da dove sono salito, ovvero, il punto preciso di uscita dai mughi, quindi mi
calo tra essi, come se mi immergersi in un oceano, finché (tenendomi ben
stretto ai rami) scorgo in basso qualcosa colorato di rosso, il guinzaglio di
Magritte! Mi calo in quella direzione, ritrovando l’amico ( scodinzola), ben
felice di vedermi. Ripercorsa a ritroso la piccola cengia, ritorno alla bella
forcella, ornata di roccia frastagliata nella parte inferiore. Finalmente la
sosta, io e Magritte ce la siamo meritata. Imbandisco un tavolo per due e
consumiamo il pasto che dopo la conquista della Fortezza ha assunto un sapore
particolare e unico. L’amico si abbandona al suo noto pisolino e io mi dedico
alla perlustrazione della zona, ammirando le bianche pareti del Duranno e le
lontane dolomiti venete. Dopo una lunga pausa (la bella giornata ce lo ha
concesso) ci avviamo per il ritorno. Un lunghissimo e faticoso cammino, ma
felice di avere una cima da raccontare.
I raggi del sole pomeridiano tingono la natura di
colori ancora più caldi, mentre pensieri malinconici accompagnano il cammino
del Viandante. Osservo il fedele amico, a volte claudica e questo suo incedere
mi commuove, mi sgorga una lacrimuccia. Magritte mi è compagno d’avventura da
più lustri, mi ha seguito ovunque, senza esitazioni, esso è più fedele della
mia ombra, e mentre cerco di non fargli notare i miei sentimenti si ferma, mi
osserva con quegli occhioni, lo accarezzo, e lui riprende a camminare. Ne
abbiamo fatta di strada insieme, spesso comunicando con il silenzio. A volte
vorrei lasciarlo a casa per non stancarlo, ma ne soffre tantissimo, sentendosi
escluso o abbandonato, e forse anche colpevolizzato. E io tra i due mali preferisco averlo al
fianco. Per Magritte la “Montagna” è vita e ragione di essere, si contenta di
starmi vicino, lambendomi gli scarponi mentre incedo con il mio passo. Il
cagnetto ha compreso che la cima è il luogo d’arrivo, dove sovente depongo lo
zaino, e lui può concedersi un breve istante di contemplazione e il suo
proverbiale pisolino. Poco prima dell’arrivo all’auto, perdo la traccia, quindi
chiedo a Magritte di andare avanti e procedere con il suo fiuto, è infallibile
e infatti ritrova subito la traccia perduta, ripercorrendo dove la mattina
abbiamo lasciato l’impronta del passo. Pochi metri prima dell’auto mi fermo a
fotografare delle foglie ingiallite, stavolta il fido mi strattona facendomi
intuire che è stanco e che ha voglia di distendersi nei comodi sedili
posteriori dell’auto. Come non assecondarlo, obbedisco, così raggiungiamo il
mezzo.
Mentre il prode canino riposa, mi preparo con calma
per il rientro, dando un ultimo sguardo alla lontana cima, che da oggi è un
sogno realizzato e da raccontare…
Malfa.
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