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giovedì 21 marzo 2024

Io, Magritte e il Monte Banora (o Banera) 1615 m. da Uccea: primavera 2017

Io, Magritte e  il Monte Banora (o Banera) 1615 m. da Uccea:  primavera 2017

 

Racconto:

Lo zaino è pronto da giorni, la meta la deciderò all’ultimo istante, penso di riprendere un’escursione rimasta in sospeso orientandomi sulle cime che dominano la frazione di Uccea. Sulla lavagnetta in cucina scrivo orientativamente “Monte Guarda”, tutto è pronto per l’avventura, quindi,  non mi rimane che aspettare il fine settimana. Il venerdì mattina accompagno mio figlio alla stazione ferroviaria di Casarsa, mentre dialoghiamo in auto avverto dei brividi di freddo, chiari sintomi che sto incubando uno stato influenzale, chiaro preludio a una caduta fisica, ma non ho voglia di declinare l’escursione, mi imbottisco di panni, mangio, e prendo un’aspirina, subito dopo vado a letto, sperando che passerà. Durante la notte ho incubi, sono sicuro di non farcela, mi sveglio a intervalli regolari, riesco a dormire solo un’ora piena. Suona la sveglia, mai così inopportuna come in questa occasione, mi preparo per l’escursione con colazione abbondante e successiva vestizione. Esco da casa come a solito presto, voglio essere sul punto di partenza non oltre le 07:30. Durante il tragitto rifletto se non stia commettendo un errore e se non fosse stato più opportuno rimanere a letto, con latte caldo, miele, e una buona dormita. Raggiunta la Valle del Torre, noto che le strade sono sgombre da neve, che invece persiste abbondantemente sui versanti settentrionali dei monti. Giunto a Uccea imbocco la piccola stradina seguendo le indicazioni per il cimitero, riuscendo a sostare in un comodo spiazzo. Il sentiero parte adiacente ad una tabella CAI posta dirimpetto al luogo della sosta. Esco dall’auto e mi rendo conto che non sto bene, sono fuso e indeciso, medito se abbandonare l’impresa. Nell’indecisione, indosso gli scarponi e con tempi lenti mi appronto. Zaino in spalle, il prode Magritte, i sogni e l’influenza al seguito parto per l’escursione, imboccando il sentiero. Dopo pochi metri di percorrenza mi fermo, pensando se non sto facendo la cosa giusta ma non mollo. Proseguo, mi auto stimolo pensando alla meta da raggiungere, mi prefiggo la casera di Caal, nella precedente escursione in zona l’avevo snobbata. Con tanta forza di volontà vado avanti, risalendo l’erto spallone fino ad incontrare i primi stavoli (quota 757 m.) e sempre per ripido sentiero dentro il bosco di faggi raggiungo il secondo nucleo di stavoli posto a quota 998 m. Le forze sono quelle che sono, mi fermo spesso  accarezzando Magritte. Interiormente prosegue una furente lotta tra l’incosciente che vuol proseguire e il saggio che vuole abbandonare l’impresa. Riprendo il cammino dentro la faggeta, percorrendo il sentiero che si fa più comodo fino alle pendici meridionali del monte Caal. La traccia aggira in senso orario il versante del monte Caal e si porta sul versante settentrionale del monte che trovo coperto da neve compatta. Mi fermo, medito e mi attrezzo con i ramponi a sei punte che si rivelano provvidenziali nel primo tratto. Raggiunta la Sella mi rifermo presso il cartello che indica la casera Caal. Osservo le pendici del monte Banora, sono parzialmente innevate, riesco a vedere i solchi dei sentieri. Decido di provare con un ultimo sforzo di raggiungere la soprastante cima del monte Banora, seguendo una traccia non CAI, ma segnata sulla mappa. Quindi superata la sella seguo per un tratto il sentiero, abbandonandolo per un altro marcato e segnato con bolli rossi che parte da quota 1350 metri all’incirca (paletto in legno), e che taglia in diagonale le pendici del monte Banora da oriente a occidente. Il sentiero come il precedente è quello che rimane delle numerose mulattiere di guerra scavate dai genieri militari durante il primo conflitto mondiale. Esso (il sentiero) nel primo tratto è libero da neve e ha un andamento comodo, poi scompare coperto da un vasto nevaio che taglio con prudenza, una decina di metri sotto (sempre sul nevaio) noto le tracce remote di un escursionista. L’attraversamento del nevaio è delicato, la neve è fradicia, affondo con gli scarponi anche di mezzo metro, dopo un po’ la traversata diventa stressante e snervante, tale che cerco ove è possibile le zolle d’erba. Nel frattempo, avvisto tre camosci che con elegante movimento mi suggeriscono una valida alternativa. L’ultimo tratto che mi conduce alla cresta è coperto di neve, decido, seguendo l’esempio dei camosci di tagliare per zolle d’erba, così arrampicandomi sul ripido pendio guadagno in breve la cresta, risparmiando tempo e fatica. La scelta si rivela azzeccatissima, ritrovandomi sulla cresta che si aggetta sulla val Resia. La neve ricopre parzialmente il vertice, procedo sulle zolle erbose ove mi sia possibile, portandomi al centro della cresta per cercare neve dura e compatta. Il monte Banora non è lontano, ma la fatica si fa sentire, dopo aver percorso l’innevata ante-cima mi appresto a risalire l’ampia cupola finale. La vetta è totalmente innevata, pianto i bastoncini al centro dell’ipotetico vertice. Aver percorso le dune di neve è stato emozionante, peccato per la scarsa visibilità e per le raffiche di vento. Mi riparo assieme all’amico dai gelidi soffi coprendomi ancora con copri-collo e berretto di lana. Da quel poco che traspare del paesaggio posso che ammirare il Canin in versione invernale, tutto intorno è bianco su bianco. Mi affretto a fare gli scatti fotografici di vetta, e successivamente riprendo il cammino. Fa freddo, o sono io che enfatizzo? La prima ipotesi per il rientro dalla cima è quella di rifare il percorso a ritroso, ma visto l’antipatico nevaio e la distanza effettuata, provo ad azzardare un’ipotetica discesa. Mi ingegno un piano  che è semplicissimo: dalla cima proseguirò per un po’ di metri verso oriente dirigendomi per un tratto verso monte Plagne, dopodiché mi abbasserò nel versante meridionale in un ampio canalone, ripido ma fattibile. Così, spinto da impeto temerario abbandono la cima e per zolle erbose, prima per andamento diagonale e poi sempre più verticalmente, scendendo nell’ampio canale, sfrutto i punti più facili e qualche residuo nevaio. Ho messo in preventivo qualche scivolata, scivolo solo una volta con le sole conseguenze di essermi rinfrescato il lato “B”. Raggiunta la base del canalone come previsto ritrovo il remoto sentiero  che mi riporta alla sella. Soddisfattissimo ed eccitato, mi auto-complimento, ricevendo in seguito anche il plauso di Magritte. Con questa operazione ho risparmiato tempo e fatica, tale da permettermi un comodo rientro. Ripreso il sentiero e raggiunto il punto di ascesa al monte, poco sopra la sella, decido di deviare per la casera Caal. So che mi comporterà un ulteriore accumulo di fatica, ma penso che difficilmente ritornerò nei prossimi anni da queste parti, quindi, fatto 31 non mi resta che fare 32. Raggiunta la bellissima casera, sgancio lo zaino lasciandolo fuori dall’edificio, liberatomi del peso (ho anche le ciaspole al seguito) visito l’interno della casera. La casetta è un gioiellino, non manca di nessun confort, commoventi le pantofoline poste in ordine sui gradini della scaletta che porta alla zona notte. Tutto all’interno è pulito e in perfetto ordine, non posso che complimentarmi e provare ammirazione per il personale che la gestisce e per il senso civico dei viandanti. Esco dalla casera e mi siedo su un mezzo tronco di legno che fa da panca, posto alla destra dell’uscio. Apro la sacca dello zaino e tiro fuori la borsa viveri, sono stanco, anzi, siamo stanchi e affamati. Nel rifocillarci, io e Magritte recuperiamo un po’ di energie, lasciandoci coccolare dal sole che ora fa capolino. Il cielo come d’incanto ha dissolto le nuvole lasciando trapelare l’azzurro intenso. Attimi di estasi, relax, osservo i due alberi prospicienti la casera, i rami si diramano nel cielo disegnando strane figure, in esse vedo volti di donna e occhi curiosi. Una simpatica tazza di smalto color rosso a pois attira la mia attenzione, da essa erompe un abbondante ciuffo d’erba.
Il desiderio primario è quello di andare su in camera, immaginando che ci sia un comodo letto e mettermi sotto le coperte, indossare un berretto di lana e addormentarmi, vagando nel mondo onirico. Tutto questo è solo un fantasticare, la realtà mi riporta con gli scarponi per terra. Appena recuperate le energie mi devo avviare per il ritorno effettuando il percorso a ritroso. Alzarmi dalla panca e rimettere su lo zaino è un’impresa paragonabile ad una delle dodici fatiche di Ercole. L’influenza comincia a manifestarsi con singolari dolori intercostali. Bene, non saranno quest’ultimi a fermarmi, quindi ripreso il cammino in compagnia del fido Magritte, riguadagno la sella e procedo a ritroso ricalcando le orme impresse all’andata. Aggirato il monte Caal, mi ritrovo sul versante meridionale sgombro da neve, e con l’ausilio dei ramponi a sei punte (che lascio calzati) volo sul sentiero ricoperto di foglie secche, guadagnando in breve il punto di partenza. Gli ultimi tratti del sentiero li paragono all’agognata “oasi” dei beduini nel deserto. Raggiunta l’auto ricevo l’ennesimo plauso di Magritte, che durante l’escursione si è assunto l’onere e il dovere di farmi da crocerossino. Mentre tolgo i fumanti scarponi osservo il paesaggio “la montagna”, chiedendomi per quale misterioso mistero questa entità sovrannaturale mi spinge spesso all’estremo, non facendomi mai lesinare energie. In attesa di una suadente risposta che prima o poi arriverà, rientro nella valle friulana. Nel frattempo, il timido sole primaverile accarezza le cime delle Prealpi Giulie tingendole di rosso.

Malfa e Magritte.

 
















































 

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