Creta dei Rusei 1923 m. e Cima della Vacca 1896 m. dal Val
Alba (Moggio Udinese)
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Carniche-Gruppo Zuc della Bor
Avvicinamento: San Daniele-Gemona-Moggio Udinese- Rotabile
per Val Aupa-Pradis-Borghi di Drentus-Virgulins-Imboccare forestale per Val
Alba- Parcheggio presso spiazzo con Indicazioni CAI, Quota 1016.
Dislivello:
Dislivello complessivo: 1000 m.
Distanza percorsa in Km: 14 km.
Quota minima partenza: 1016 m.
Quota massima raggiunta: 1923 m.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione:
Storico escursionistica.
Difficoltà: Escursionistica, tranne il tratto che dalla
mulattiera porta alla Creta dei Rusei (per esperti).
Segnavia: Tempo percorrenza totale: Segni CAI sent. 425;
bolli giallo rossi dell’Alta Via e Ometti.
Fonti d’acqua: Presso il torrente Alba.
Attrezzature: Nessuna.
Cartografia consigliata. Tab 018.
Periodo consigliato: maggio-ottobre.
Condizioni del sentiero: Bene segnato e marcato.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Relazione.
Creta di
Rusei e cima della Vaca dalla Val Alba.
Iniziare la
prima escursione dell’anno da dove avevo finito non era nei miei programmi.
L’anno vecchio l’ho salutato dal Monte Masereit e dal vicino Vualt. Arriva
l’Epifania preannunciata da un’ondata di gelo proveniente da Nord-Est, le
temperature in quota toccheranno anche i venti gradi sotto zero. Malgrado
tutto, voglio andare in montagna, anzi, il meteo ostile è uno stimolo a provare
nuove emozioni. La montagna è una sfida con me stesso, conoscere i miei limiti.
Arriva il mattino, mi sono ben preparato per l’evento, ho raddoppiato il numero
dei pile, aggiungendo passamontagna, e per la prima volta nella sua vita di
alpino, Magritte (che non mi ha voluto lasciare da solo) indosserà una
copertura (una maglia ricavata da un vecchio maglione di mio figlio,
sacrificato per il fido di famiglia). La mia meta iniziale è un monte sui 2300
metri di dislivello sito nei pressi di Forni Avoltri. Arrivo presto in zona. La
Carnia è proibitiva, ho l’impressione dal basso di notare ghiaccio sulla
cresta, rinvio l’escursione adottando un piano B non in progetto e scelgo la Creta
dei Rusei. Inverto la rotta e ripassando per Ovaro e Tolmezzo, raggiungo la
statale Pontebbana. Pochi chilometri dopo la frazione di Carnia, avvisto la
bella valle dell’Aupa, mi fermo in religioso silenzio. Ammiro un paesaggio
pittorico, è fantastico, un giorno era il mio sogno da esplorare, ora è
diventato il luogo dove vado spesso a sognare. L’orologio segna all’incirca le
otto, entro nell’abitato di Moggio, avendo un occhio fisso sul Masereit, il suo
aspetto è semplicemente spettacolare. Proseguendo per la val Aupa, imbocco la
strada forestale che porta al borgo di Pradis e successivamente alla Val Alba.
Il sole illumina tutto, saluto la Grauzaria, che come una signora di gran
classe con l’età diventa sempre più affascinante. In breve mi ritrovo nello
spiazzo adibito a parcheggio da dove partono tutti i sogni della bella valle. Trovo
solo un pulmino posteggiato, indovino subito che gli scout alloggiano nel
Rifugio Vualt. Magritte era in precedenza titubante nell’indossare la copertura
di lana, per uno “spirito libero” a quattro zampe come lui è come sposarsi, ma
appena sceso dall’abitacolo una raffica di vento gelido lo accarezza, leggo il
suo sguardo che sembra dirmi: <<Non avresti anche un paio di guanti e un
berrettino di lana?>> Gli rispondo, sorridendo. <<Magritte, il dado
(cubetto di giaccio) è tratto, si sfida il gelo e si va in cima!>>
Indossati gli scarponi, imbottito di abiti, sembro l’omino della “Michelin”, si
parte con zaino, Magritte e sogni al seguito. Imbocco subito la strada
forestale che risale fino al Rifugio Vualt, passando sotto quest’ultimo noto
che il camino fuma, una sana invidia mi prende, ma impavidi si procede. Le
folate di vento sono gelide, a volte micidiali, nemmeno il sole che fa capolino
nella valle riesce a scaldare l’aria. Passo lento d’alpino per non sudare,
passo dopo passo raggiungo sempre per carrareccia l’enorme rudere dell’ospedale
(Casermone di Vualt). Il vecchio ricovero bellico è l’ideale per ripararsi,
entro all’interno e per magia sono catapultato nello stesso edificio ma cento
anni prima. Mi ritrovo lungo le corsie, è un correre continuo di personale
medico e militare. Contrasto forte tra il bianco camice simbolo di purezza e il
verde delle uniformi simbolo di speranza. Mi addentro nell’ospedale, la mia
attenzione viene catturata da una branda, mi avvicino. Sul letto sta steso un
giovane soldato con una vistosa ferita agli occhi, che sono bendati, gli tiene
la mano una crocerossina, più grande di età, dimostra una quarantina di anni.
Mi fermo un attimo ad ascoltarli. Il milite è un ragazzo ha l’accento lombardo,
forse è milanese. Nella vita studia
architettura, impegnato politicamente è un fervente interventista, idealista
fino al midollo. Si è arruolato spontaneamente per una causa nobile. Unire
politicamente un paese diviso dai tempi dell’Impero Romano. I giovani si sa,
sognano e ci credono, fino a quando non sono deviati dalla logica della
convenienza. I giovani sono forti e son belli e quindi eroi. Lei, la
crocerossina, è del luogo: mora, friulana, dal corpo piccolo e massiccio,
forte, come le sue conterranee “le portatrici carniche”. È volontaria, per
essere vicino virtualmente al suo sposo, partito per la guerra, arruolato tra
gli alpini che combattono sull’Adamello. Lei non ha rivelato al milite di
essere sposata, è u po’ un ordine non ufficiale tra crocerossine, sanno che
sognare aiuta, perché in fondo sognare è un modo di sopravvivere. Il ragazzo le chiede com’è il paesaggio
fuori, cosa vedono i suoi occhi, che colore hanno i monti, se è caduta la neve.
Vede tramite gli occhi di lei, e riconoscente le dedica delle poesie, le parla
della sua città, Milano. Dei negozi, della moda, dei caffè, promettendole che
appena riacquisterà la vista, la porterà con sé, la presenterà ai suoi,
andranno alla Scala ad assistere ad un’opera di Verdi. E’ tutto un sogno,
immagino come va a finire, sento nella loro ardente stretta di mano tanti
sentimenti: l’amore tra una donna sposata e un uomo più giovane di lei, che la
morale chiama adulterio. Sento i pensieri di una donna che ascoltando le parole
di un sognatore, vola lontano: dalla fatica, fantasticando di camminare per la
strada di una metropoli, ben adornata a festa, dove non si odono il tuonare dei
cannoni e le grida dei feriti. Dove la fatica della montagna è solo scritta sui
libri. Tutto questo è un sogno, un ‘illusione, mi voglio svegliare ed esco
dalla camerata riprendendo il cammino verso la mia meta. L’edificio torna ad
essere un rudere e il sole mi guida per la mia meta. Seguendo i segni del
sentiero 425, percorro la bella mulattiera dentro il bosco di faggio fino ad un
bivio: a sinistra si va per il monte Vualt, a destra per l’Alta Via del
Moggese. Percorrendo la panoramica mulattiera, dopo un centinaio di metri
incontro un altro bivio, dove il sentiero si biforca: a sinistra per il
sentiero 431 che prosegue per il Cuel Brusat, a destra per la Creta dei Rusei.
La bella mulattiera scavata dai genieri nella roccia è ben disegnata, a occhio
nudo si vede il suo progredire. La Percorro, incurante delle raffiche di vento,
percepisco la meta molto vicina. Osservo dal basso la cresta, non sembra così impegnativa,
anzi la trovo invitante. Percorrendo alcuni tratti erosi supero un ponticello
costruito con travi. Passo sotto il versante occidentale della Creta dei Rusei,
dal basso noto un paletto in legno. Proseguo quasi in orizzontale fino a
raggiungere una casermetta, che ospitava gli alloggi di una batteria di
artiglieria. Poco dietro una galleria scavata nella roccia per gli obici. IL
freddo è pungente, dietro la casermetta scorgo una traccia e segni gialli, la
seguo, in pochi minuti risalgo l’erboso pendio che mi porta alla piccola croce
in legno della cima della Vacca. Le raffiche di vento e la gelida temperatura
rendono quasi impossibile la sosta per ammirare il paesaggio. Con peripezie
riesco a fare qualche foto e ammirare il paesaggio circostante, noto la traccia
che porta alla Cresta dei Rusei, ma preferisco ridiscendere. Ho le orecchie e
le dita delle mani congelate, quei pochi secondi in cui ho tolto il
passamontagna mi sono stati fatali. Raggiunta la galleria in basso, sosto
presso l’entrata, rimanendo al riparo dal vento, ne approfitto per sfamare Magritte,
infreddolito. Riacquistato l’uso delle orecchie e delle dita, ne approfitto per
esplorare il piccolo edificio. Ripreso lo zaino mi avvio al rientro, sto
pensando di rinunciare alla meta, anche se è vicina. Nel sentiero trovo un
cantuccio riparato dal vento e assolato. Decido di lasciare Magritte con lo
zaino, proseguendo per la vicina Creta dei Rusei. Un piccolo passaggio di
arrampicata mi porta sulla crestina che collega la creta alla cima precedente.
Sto attento a non avvicinarmi troppo al ciglio del dirupo che si aggetta a
oriente. Percorro l’esile cresta passando per una placca leggermente inclinata
e risalgo il corpo principale sotto la cima. Tra ghiaie, rocce e mughi mi
avvicino sempre di più. È molto eccitante toccare la fredda roccia, dopo
l’ultimo tratto inerbito raggiungo le cuspidi rocciose della vetta,
materializzata da una vecchia cassetta porta timbro di vetta, un bollo
circolare giallo-rosso, tipo quelli sloveni e un paletto in legno (ciò che
rimane di una spartana croce di vetta). La bellezza del paesaggio vista in
precedenza, qui è ancora più amplificata. Resisto al gelo, provo a fare un
video, mi si scarica la batteria, la sostituisco togliendo i guantoni,
l’impresa sembra impossibile ma riesco. Il paesaggio è uno dei più belli del
Friuli: dai vicini Chiavals (Cjavals), Sernio, Grauzaria, alle grandi cime
delle Giulie, Austria, Slovenia, Friuli e Veneto. Tanta meraviglia per lo
spirito, solo attenuata dal gelo. Torno indietro recuperando il compagno semi-
congelato, zaino in spalle e Magritte congelato al seguito mi avvio per il
rientro. Stranamente, la temperatura è salita, di poco ma è salita, questo dà
sollievo alle estremità congelate del duo.
Libero dal guinzaglio Magritte, che si lancia immediatamente in lunghi
scatti, per scaldarsi, recuperando presto energia e brio. Ho tempo, tanto
tempo, quindi nessuna fretta, mi dedico alla botanica, ammirando gli alberi,
soprattutto i faggi, liberando qualche riflessione. Ho osservato che in basso i
faggi sono molto numerosi, quasi tutti perpendicolari al terreno, con rami
raccolti, come in una folla, inquadrati, silenziosi, ombrosi, come prigionieri
di qualcosa. In alta quota hanno forme libere, sono solitari, con i fusti
piegati dai fenomeni atmosferici simili a sculture, i rami giocano con il
cielo, esprimendo gioia. Essi (i faggi) sono una metafora, l’andare sempre più
in alto li rende più forti, liberi e solitari. Rientro per il sentiero
dell’andata, gioco con Magritte a sollevare le foglie secche lungo la
mulattiera, si scherza, c’è complicità. Raggiunta l’auto, mentre mi appresto a
ritornare a casa, sopraggiunge Emanuel, un sorprendente Spirito Libero, dal
look libero e pratico. Abita nella frazione di Pradis, dormirà la notte in qualche
bivacco, forse al Bianchi. in pochi minuti istauriamo un’amicizia, come anni fa
istaurai con Michele. La gente di montagna, guarda dentro il cuore attraverso
lo sguardo, non è superficiale come chi vuol apparire ciò che non è mai stato e
non mai sarà. Lieto di questo ultimo regalo della “Montagna”, saluto il nuovo
amico, prodigo di consigli, ad un arriderci nella valle. Concludo questa
escursione iniziata stoicamente e conclusa felicemente. Qualcuno scrisse: quello
che non ti uccide ti fortifica. Confermo!
Il vostro
“Forestiero Nomade”
Malfa.
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