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giovedì 18 gennaio 2024

Il Monte Alz : John, io e le scarpette rosse…

Il Monte Alz : John, io e le scarpette rosse…

 

Il Monte Alz mi è apparso in sogno, al risveglio avevo in mente il nome e altri confusi ricordi. Sognai tanta neve, una bimba vestita di rosso, e un capriolo che vagava nel bosco. Segno il nome su un pezzo di carta, accedo al web, digito Alz e Friuli, e viene fuori una località che conosco marginalmente, sita a poche centinaia di metri da Cavazzo Carnico. Intensifico la ricerca con le carte topografiche a mia disposizione, effettivamente c’è un monte chiamato Alz che si può raggiungere tramite un sentiero tratteggiato in nero. Progetto un’escursione con un tracciato che dalla forma sulla mappa appare come un otto in orizzontale, simile alla “lemniscata” simbolo dell’infinito. Traccio con un pennarello color rosso sulla mappa l’escursione, la fotografo e la invio a John: <<Che te ne pare? Ti va di andare a costatare dal vivo?>> Yes! Risposta affermativa. L’indomani si parte, sicuramente troveremo neve, quindi, adeguiamo con l’equipaggiamento. Alle prime luci del mattino siamo nei pressi di Cavazzo, ci inoltriamo con i rispettivi automezzi nella grigia e oscura valle che precede le pendici del monte Piciat. Lasciamo gli automezzi presso uno spiazzo, poco prima del bivio che conduce al ricovero “Al Pescatore. Fa un freddo boia, il sole non filtra ancora a causa della copertura di alcuni bassi rilievi a oriente. Ci mettiamo in marcia, seguendo il disegno sulla mappa. Poco prima del bivio imbocchiamo una strada forestale che risale il fronte orientale del monte Alz, e dopo alcuni metri di cammino adocchiamo il profilo del monte illuminato dal sole. A prima vista la vetta appare fitta di arbusti, questa impressione sarà in seguito confermata. Dopo alcune centinaia di metri sulla stradina, imbocchiamo un sentiero a sinistra, l’istinto consiglia correttamente, è la pista segnata a tratteggio sulla mappa. Il meraviglioso sentiero selvaggio si sviluppa tramite molteplici diramazioni che si incrociano all’infinito lungo l’ascesa. John percepisce il mio entusiasmo, il lupo che alberga in me è svestito, e gode a intuire e perseguire le tracce. Sì, proprio le impronte di un capriolo, di Artemide, l’amata divinità che da sempre mi accompagna quando mi avventuro nella selva. I sentieri si susseguono, e per ognuno che ne perdiamo altri cento ne avvistiamo, e tutti conducono al lato oscuro del monte, quello posto proprio a nord, dove solo la dea osa avventurarsi. Con l’aumentare della quota si alza sia lo spessore della neve che la ripidità del versante. Dopo aver scalato un tratto molto ripido di costone, decidiamo di indossare le ghette e i ramponi, malgrado la neve non sia tanto dura. La sicurezza è l’unica compagnia che non limita la nostra libertà. Procediamo con brio, la traccia che avevo ideato si perde negli schianti non previsti, decidiamo di salire e superare l’ostacolo accostando un canalone, e la medesima idea l’ha avuta in precedenza la deità, infatti ne scorgiamo le orme. Superiamo una crestina, affilata e molto esposta, sul versante occidentale, e ci fermiamo ad ammirare il paesaggio che esibisce la meravigliosa valle di Tolmezzo. Il monte Amariana, la divinità dolomitica, domina la scena, e in essa, noi, per alcuni istanti ci perdiamo, rapiti dalla sua bellezza. Superato il tratto ardito, siamo in sicurezza, proseguiamo per il pendio con minor pendenza del precedente. Cercando i passaggi migliori troviamo la massima elevazione (712 metri di quota), sita all’interno di un fitto bosco composto da esile vegetazione arborea, tra cui spiccano le acacie e i faggi. Scegliamo un arbusto a cui dedicare la massima quota, erigendo una croce con l’ausilio dei materiali di fortuna, a essa alleghiamo un contenitore in vetro con all’interno un foglio con su stampata un’aquila, il simbolo di un grande imperatore e spirito libero “Stupor Mundi”. Fatte le dovute operazioni, proseguiamo l’avventura, prima scendendo di quota a meridione, dove scorgiamo un’enorme ferita nella roccia, forse i segni di una remota scorsa tellurica. Di seguito, vista l’impossibilità di proseguire a sud, viriamo per la cresta, ascendendo l’ante-cima del monte (705 metri di quota) e proseguendo per il giocoso pendio di neve. Godimento totale! L’escursione non è mai pericolosa, anzi, molto divertente, e tra le piste bianche ideate scendiamo velocemente di quota, sino a trovare un sentiero vero e proprio. Lo seguiamo in basso, esso conduce nella selletta posta tra i due monti, il monte Alz appena scalato e lo Zouf che studiamo. Un canale d’acqua misto al sentiero attira la nostra attenzione, esso, sul versante meridionale, ascende al monte Zouf, tramite questa strana combinazione, finché il rigolo d’acqua svanisce lasciando il proseguo a una vistosa e ampia mulattiera. La pesta sale con dolcezza, e non ci par vero che conduca in alto. Rilevo dalla mappa che dovrebbe addirittura spingersi sino in vetta. Ci lasciamo andare alla bellezza del dolce camminare, finché scorgiamo un muro perimetrale, e di seguito la struttura dello Stavolo Gadoria del Perar. John vorrebbe soprassedere l’esplorazione degli interni e procedere per la vetta, ma io insisto, sono attratto e richiamato dal rudere. Aggiriamo i cespugli di rovi che proteggono la casera trovando un varco da dove accediamo. Ispeziono vivamente l’edificio: nel piano terra troviamo la stalla e la cucina in modeste condizioni. Nel locale cucina è posto un camino con la classica cappa e l’aggeggio per tenere il pentolone. Sulla cucina vera e propria, a legna, troviamo piatti, posate e pentole, come se i commensali si fossero allontanati di fretta e furia durante la consumazione del pasto. Qualcosa di strano e impiegabile sicuramente è successo. Nella stalla adiacente trovo una pantofolina rossa, poggiata per terra, forse la giovane donna stava badando agli animali quando è stata colta di sorpresa da qualcosa o qualcuno. Il rosso è il colore del fuoco e della passione, lo stesso della fanciulla che ho sognato. Non percepisco dolore, ma solo tanto eros. Fu un rapimento passionale? Ispezioniamo gli ambienti del piano superiore che confermano questa mia intuizione. Troviamo le camere da letto, e una di esse sembra portare i segni della furia devastatrice dell’impeto passionale. Lasciamo questo luogo dove ancora avverto la presenza umana. John sembra il più lesto nel ritornare sul sentiero, gli ho confidato le mie suggestioni, con più realismo di quanto consiglia lo scritto. Riprendiamo il sentiero che ascende il monte Zouf, la mulattiera è ben marcata, e con una serie di tornanti giunge fino alla cresta, dove troviamo solo un esile traccia sulla neve. Seguiamo il filo di cresta, stavolta le impronte della dea sono succedute da quelle di un nostro simile con ciaspole. Giungiamo alla vetta, un’altra fitta faggeta, e su un arbusto lasciamo il segno del nostro passaggio. Il cielo, di un azzurro turchese, filtra dalle fronde degli alberi, esso è stato licenziato dal cinereo delle nubi. Seguiamo sempre la cresta a occidente, e dopo una breve discesa in libera sul versante innevato incrociamo il marcato sentiero percorso ancora dalle orme delle ciaspole dello stesso omino che ci ha preceduto in vetta. Camminiamo con tranquillità per l’antico selciato, che invita piacevolmente alla volta del piccolo borgo di Casera Dueibis. Le nostre fatiche dovrebbero essere finite, togliamo i ramponi e le ghette, e godiamo della bellezza degli stavoli. Dopo una breve sosta continuiamo per la stradina asfaltata sino al borgo di Pusea, dove troviamo due indigeni intenti a fabbricare qualcosa. Fraternizziamo, breve scambio di battute, e proseguiamo per la nostra meta. La direzione è opposta a quella della conquista dell’ascesa dei monti. Stiamo effettuando un anello in senso antiorario, e ora continuiamo da occidente a oriente. Risaliamo la carrareccia fino a quando improvvisamente si interrompe, proprio poco prima di un rigolo. Superiamo l’asperità trovando stavolta un sentiero abbastanza ampio, evidentemente quel tratto in passato deve essere franato. Procediamo lesti, ma John mi arresta, la fame lo ha chiamato all’ordine, decidiamo di desinare, adoperando gli zaini come comodi cuscini. La breve pausa scorre velocemente, presto siamo pronti con gli zaini in spalle, e riprendiamo il passo. Non manca molto a chiudere l’anello, il sentiero è davvero bello, antico, molto affascinante rispetto alle note montagne che dominano la valle. Superiamo anche un ponticello, e dopo siamo a ridosso dei prati che conducono al locale” Al Pescatore”. Pochi metri ancora e siamo alle auto, l’escursione è finita, fortunatamente senza intoppi. È stata una bella avventura. L’escursione, come è consuetudine quando si è in compagnia, finirà in un bar per bere qualcosa. Ne troviamo uno lungo la strada, semplice, con pochi tavoli e meno gente. Fraternizziamo con il gestore e un avventore, commentando la sorprendente avventura con una grappa d’annata e una cioccolata calda. .

Malfa.

 





































 

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