Anello
del Monte Mason (San Francesco) Valle D’Arzino-UD.
Note
tecniche.
Localizzazione: Prealpi Carniche- Gruppo del
Verzegnis- Dorsale Verzegnis-Piombada.
Avvicinamento: Pinzano- Anduins- Valle D’Arzino-
San Francesco- lasciare l’auto presso uno spiazzo nella frazione di Marins.
Regione:
Friuli-Venezia Giulia.
Provincia
di. Udine
.
Dislivello:700
m.
Dislivello
complessivo: 920 m.
Distanza percorsa in Km: 13
Quota minima partenza: 390 m.
Quota
massima raggiunta: 1091 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 5 ore
In:
Solitaria
Tipologia
Escursione: Selvaggio- Naturalistica
Difficoltà:
Escursionisti Esperti abili ad agire in ambiente selvatico e con percorsi senza
tracce e segni.
Ferrata- valutazione
difficoltà:
Segnavia:
CAI 840 sino al Rio Cuvii, dalla Malga Cuvii nessun segno e rare tracce. Poco
prima della Val Forchiet una traccia del remoto di sentiero, sino a San
Francesco
Fonti
d’acqua: si, ruscelli, cascate, torrenti, un’apoteosi spettacolare del regno
dell’acqua.
Impegno
fisico: medio alto
Preparazione
tecnica: media alta
Attrezzature:
no
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: no
Libro di vetta: si,
impiantato barattolo di vetro ancorato a un ramo di faggio,
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: primavera-autunno
3)
Condizioni del
sentiero: Ben battuto e ben segnato sino al bivio per la Malga Cuvii, di
seguito è indispensabile avere eccellente senso di orientamento e attrezzatura
per ambienti selvaggi.
Consigliati: Ramponcini da erba per i tratti esposti e selvaggi.
Data: mercoledì 25
maggio 2021
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Per vivere bene bisognerebbe
porsi, nei confronti della vita, come un fanciullo di fronte ad un oggetto
sconosciuto e misterioso, senza certezza ma con molta curiosità, ed è quello
che ho fatto con quest’ultima escursione nella splendida Val d’Arzino. Ho giocato a fare il bimbo avventuroso,
memore dei libri di avventura letti da piccino. La mia meta è una cima
sconosciuta, Monte Mason, essa non è tra le più alte della Val d’Arzino, ma possiede
una quota e un nome, quindi sono curioso. Stavolta mi organizzo da casa,
creandomi una traccia GPS sulla mappa calibrata dell’IGM. Disegno un itinerario che ricalca quello CAI
nel ripercorrere il sentiero 840. Dalla Malga Cuvii, studiandomi le curve di
livello, tratteggio un percorso che conduce in cresta al Monte Masone, e di
seguito, continuando nell’operazione creativa, ripercorro un remoto sentiero
che dalla vetta, tramite la cresta mi riporti a San Francesco con un percorso ad
anello. Ideata la traccia la carico nel Garmin, ora non mi rimane che partire e
applicare il lavoro. Il mattino dell’escursione sono emozionato, il meteo
dovrebbe reggere. Scruto da casa il cielo che appare coperto di nubi, ma sono ottimista.
Più veloce della luce mi catapulto nella Val d’Arzino, raggiugendo la frazione
di San Francesco dove tutto è irreale. Un gallo con il suo chicchirichì
annuncia alla comunità che è giunta l’ora di destarsi dal torpore notturno.
Sosto l’auto nel solito parcheggio di Marins, proprio sotto una vecchia
abitazione dove alle porte di ingresso stanno appesi due ciondoli rossi in
legno: uno a forma di cuore e l’altro di stella. Volgo lo sguardo alla meta,
essa si eleva a oriente, e la piccola frazione è posta proprio ai suoi piedi.
Zaino in spalle,
parto, e sin da subito mi fermo a commentare con alcuni gentili Valligiani: per
prima incontro una signora che transita in bici, e di seguito colui che si
occupa della sentieristica locale, dedicando tutto sé stesso a questa nobile
causa. Il simpatico amico, durante la conversazione,
mi svela alcuni segreti. Saluto il nuovo conoscente e procedo per la mia meta,
imboccando la carrareccia che si inoltra nel vallone a oriente (indicazioni per
i sentieri 827 e 840 su tabella CAI).
I primi tratti
della strada forestale li conosco a memoria. Al primo bivio viro a destra, e sin
da subito cambia la caratteristica del percorso: dalla stradina si passa al
sentiero, nudo e crudo, e anche umido. Non ho nessuna idea di cosa mi aspetti,
ma fiducioso ed eccitato vado avanti. Poco più avanti sento lo scroscio
rumoroso dello scorrere
dell’acqua, sono
a ridosso del punto di congiunzione del Rio Armentaria con il rio Sclusons. Mi abbasso
dall’argine e guado il torrente tramite un esile ponticello in cemento armato,
che da subito mi da una botta di adrenalina per via dell’esposizione. Passato
sull’ argine opposto, mi barcameno tra i sassi e lo scorrere dell’acqua,
guadando l’affluente di destra. Saltello sui massi, sino a raggiungere una
meravigliosa cascata, che da sola per bellezza non ha nulla da invidiare ad
altre ben conosciute. Rimango incantato al cospetto del getto continuo d’acqua.
Il cielo pare tingersi di blu, e questa dolce armonia mi inebria. Lascio a
malincuore la vasca d’acqua color smeraldino e proseguo per il sentiero 840. Risalgo
un ripido e breve tratto macerato, sino a raggiungere il bel sentiero inerbito
che raggiunge la valle solcata dal Rio Sclusons sino all’omonima Forchia. Lungo
il tragitto ho modo di ammirare, anzi, di perdermi nella bellezza dei numerosi
ruscelli che alimentano il rio di fresche e zampillanti acque. Mi addentro nel
vallone, i colori ora sono ovattati dalle ombre dei faggi, scorgo solo un paio di
edificazioni umane: due muri di contenimento, il resto è solo quiete.
Dalla forchia di
Sclusons scruto dall’alto per comprendere bene la posizione geografica. Riesco
a riconoscere i ripidi versanti meridionali del monte Gran Pala e quelli
orientali del Monte Cuar. Il paesaggio è radicalmente mutato. In discesa dalla
forchia, percorro un sentiero inumidito da fiotti d’acqua che affluiscono da
varie sorgive e la vegetazione è quella tipica dei versanti assolati, ovvero aghiformi
di pini e abeti. Il sentiero scende ripidamente sino a guadare più volte il Rio
da Cita e di seguito il Rio Cuvii. Questo tratto ispira al sottoscritto
sentimenti indescrivibili, mi sento un uomo fortunato nel poter fluire di uno
degli scenari più incantanti della montagna. La melodia costante dello scorrere
dell’acqua, gli armonici giochi cromatici e l’odore emanato dalla stessa
vegetazione, mi inebriano, donandomi quelle sensazioni primordiali provate dai
nostri avi quando si avventuravano in territori ignoti. Percepisco che sono nei pressi della Malga
Cuvii, è proprio dietro la parte terminale della Forchiatta sbuca una stradina
di servizio, e dopo pochi metri avvisto la malga (769 m.). Scorgo una figura
umana fuori di essa, esce, entra dentro un automezzo e in retromarcia va via. Proseguo
per il prato e mi avvicino all’edificio della malga. All’esterno, proprio sotto
una pensilina è disposto un tavolo in legno e sopra di esso sono posati delle
bottiglie di vino, due tazze di caffè, una piccola moka e un portacenere colmo
di mozziconi. Sento ancora l’aroma del caffè, la porta è aperta, chiedo a voce alta
e più volte se c’è qualcuno all’interno della casera. Nessuna risposta. Una
scaletta porta in alto, sicuramente la zona letto, mentre nel caminetto
all’angolo ardono ancora dei ciocchi di faggio. Una sedia solitaria in stile
Van Gogh mi invita a sedermi per riposare, ma non posso anche se vorrei. Esco
fuori, chiedo ancora a voce alta se qualcuno mi ascolta. Tutto tace. Ai margini
del prato noto un tavolo con panca, mi reco presso di esso per fare una breve
pausa, per poi riprendere il cammino. Mentre consumo un alimento energetico,
vedo sopraggiungere un’auto, una figura femminile esce dall’abitacolo,
gironzola intorno alla malga e poi mi si avvicina chiedendomi se ho visto i
residenti. Le riferisco ciò che ho visto poco prima. Dopo alcuni minuti, la
donna mi si avvicina ancora. Ella ha un aspetto simpatico, capelli color
argento e gli occhi furbetti del colore del cielo. Ci presentiamo e instauriamo
una simpatica conversazione. Mi spiega che le acque del Rio Cuvii vengono
soprannominate dai locali “Fonte del Conte” con riferimento al Conte Cecon. Una
legenda locale narra che il nobile si dilettava a mandare i messi alla fonte
per usufruire di queste acque e di altro. E per altro, ridiamo con la signora, la
causa potrebbe essere stata oltre al logico approvvigionamento idrico un
interesse del conte per le spose dei sudditi. Mi congedo dalla simpatica Elena,
e mi avvio per il mio proposito. Proprio al margine del prato noto un
ponticello in legno, attraverso codesto, guado l’impluvio, e risalgo il costone
che porta il nome di “La Forchiatta”. Procedo
a ruota libera. Finora la traccia creata sul GPS si è dimostrata esatta, quindi,
fiducioso, séguito d’istinto, ben cosciente che in caso che mi perda ricorrerò
allo strumento. Risalgo il costone per balze erbose come un furetto, mantenendomi
vicino il Rio da Pinet. Ad un tratto individuo
una labile traccia che aggira il costone, mantenendosi regolarmente sotto
cresta, finché la forcella che precede
il Monte Mason svanisce nella faggeta.
L’azzurro cielo filtra all’orizzonte, mi avvicino all’impluvio,
ritrovando la traccia e la seguo fino alla forchia (982 m.).
Alla mia destra
in direzione nord sale il ripido costone che porta alla vetta del monte Mason.
Decido di privarmi del superfluo, lasciando il contenuto in un sacco che
riprenderò al ritorno. Procedo con il solo zaino, dove all’interno serbo una
giacca tecnica, una borraccia d’acqua e i ramponcini da erba. Una volta pronto
mi avvio, scorgendo una leggera pesta che seguo, di seguito la traccia si perde
sul versante orientale del monte. Alla mia destra ho solo ripide e insormontabili
pareti. Ritorno indietro sino al ripido costone, dove noto un tratto erto ma
articolato. Lo risalgo piano piano, afferrandomi ai piccoli ramoscelli e ai
ciuffi d’erba. È molto verticale in alcuni tratti, ma non mi perdo d’animo,
guardo sempre in su mirando ai prati sommitali di cresta. Raggiunti
quest’ultimi spero di trovare un comodo crinale. Mi guardo intorno, finalmente
posso ammirare un panorama degno di nota, vasto e luminoso. Improvvisamente avverto
un senso di felicità, ma non è ancora finita. Una fitta vegetazione ostacola il
cammino in cresta, decido quindi di calzare i ramponi e procedere, calandomi spesso
sul versante orientale per superare alcuni ostacoli. Dopo un altro rilievo (anticima)
dove mi arrampico, ne scopro un terzo, dovrebbe essere la vetta effettiva e
definitiva. Ultimi tratti di salita ed eccomi in cima (1091 m.), ovvero un
fazzoletto di erba tra arbusti selvaggi e senza alcun segno di passaggio. Sono felice, soddisfatto, provo sensazioni
indescrivibili, quelle che tutti avvertiamo quando raggiungiamo una meta ambita.
Istallo su un ramo (legandolo con nastro adesivo) il classico barattolino in
vetro con il materiale dove appuntare i segni del passaggio. Per scrutare il
paesaggio mi tocca uscire fuori dal fazzoletto selvaggio e girargli intorno a
360 gradi. A nord notevoli appaiono le pareti verticali del Monte Gran Pala, a
sud il versante boschivo del Cuar, a ovest la cresta del Monte Giaf e Agarial, e
a Nord Ovest l’inconfondibile sagoma del Piombada. Le dolomiti friulane, lontane,
sono ancora imbiancate, e coperte da nubi.
Finita la rapida sosta, penso al rientro, e ho intuito una via meno
impegnativa. Proprio sotto la vetta, a sud, dopo la selletta, mi calo a occidente,
dentro il ripido versante, che è meno erto rispetto a quello fatto in salita. All’interno
della faggeta procedo con sicurezza, mi par di seguire un’ideale traccia, ma è
solo intuitiva. Istintivamente seguo la logica, come se fossi un lupo, e
raggiunta una selletta che collega il monte Mason al colle senza nome, viro a
sud, indirizzandomi verso la forcella dove ho lasciato il sacco. Sono fortunato!
Dopo un centinaio di metri ritrovo la traccia e con somma sorpresa essa mi guida
direttamente al faggio dove avevo adagiato il sacco. Rimango basito, è davvero
magico quello che è avvenuto, la montagna mi sorprende sempre, e in positivo.
Ripreso il carico, proseguo per i miei propositi, percorrendo la cresta a sud.
Guadagno da subito una cinquantina di metri di quota, e spero di trovare la
traccia di un sentiero segnato sulla mappa. Anticipo di qualche metro la scelta
a occidente, e mi ritrovo dentro una faggeta che con il crinale forma un ampio teatro
naturale (1019 m.). Vengo tratto in inganno. Infatti, dando un’occhiata al GPS,
scopro che sono ben 70 metri di quota al sopra all’ipotetico sentiero, quindi,
senza perdermi d’animo, mi calo in basso, attraverso il solco scavato da un
impluvio, naturalmente coadiuvato dalla vegetazione. Raggiunta la quota dell’immaginaria traccia,
proseguo a intuito fino alla base del vallone cercando i segni di passaggio. Lo
scroscio continuo dello scorrere dell’acqua accompagna il mio incedere a
ridosso delle pendici meridionali del monte Bierbi. Tra l’assolato pendio scovo
una labile traccia, la seguo sino a un impluvio con copiose acque, una volta
guadato ritrovo la traccia, ben marcata, che mi guiderà fino a San Francesco.
Il sentiero, seppure ben netto, è coperto dalla fitta vegetazione, e taglia a
mezza costa il ripido versante con delle pareti verticali. Constato che si
tratta di un’area e ardita cengia, che percorro con pacatezza, intuendo che il
peggio è passato. Il proseguo è aiutato dal meteo che migliora attimo dopo
attimo. Il comodo e selvaggio sentiero,
dopo aver aggirato le pendici occidentali del monte Bierbi, perde dolcemente
quota, fino a fiancheggiare dall’alto la strada provinciale che precede San
Francesco. La traccia persiste ma è sempre occultata dall’invadente
vegetazione, a volte riesco a intuirla tramite l’allineamento degli alberi, che
attestano che il sentiero è remoto. Una leggera deviazione mi porta a lasciare
la selva e ritrovarmi sul ciglio della strada, difronte a una cappella votiva. Fine dell’escursione selvaggia. Non rimane che
percorrere la strada che da San Francesco mi conduce alla frazione di Marins.
Durante l’ultimo tratto di strada, spesso scruto nella direzione del monte che
ho appena conquistato. In un bar di San Francesco, dall’esterno mi giunge il
brusio dei frequentatori, molti sono i centauri, visto l’aspetto sicuramente sono
teutonici. Il viandante stralunato
procede tra i simili come se fosse un marziano.
Al mio passaggio percepisco lo sguardo curioso di alcuni giovani. Raggiungo
il posteggio, spengo il GPS e adagio lo zaino nell’auto, sui sedili posteriori.
Mentre mi appronto per il rientro saluto una signora intenta a curare il suo
piccolo orto, ella mi risponde e mi chiede se ho trovato delle vistose
fioriture. Le rispondo che ho trovato di tutto, e instauriamo una felice conversazione.
In pochi minuti vaghiamo nel passato: mi parla dei suoi nonni, e di episodi
ormai confusi nel tempo. Sono assorto e incantato nell’ ascoltarla. La saluto,
e mi avvio per il ritorno. Rientro percorrendo a ritroso la Val d’Arzino, accendo
l’autoradio per ascoltare le gioiose note di Paul McCartney, e lassù il cielo è
sempre più blu. Non solo amo sognare ma anche realizzare ciò che sogno, e anche
oggi ho realizzato.
Il Forestiero
Nomade.
Malfa.
Nessun commento:
Posta un commento