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lunedì 7 giugno 2021

Cima di Camp da Pineda (Valle del Vajont)

Cima di Camp da Pineda (Valle del Vajont)

 

Note tecniche. 

 

Localizzazione: Gruppo Col Nudo- Cavallo.

Avvicinamento: Montereale Valcellina-Barcis-Cimolais-Erto-rotabile per le frazioni di Pineda- Lasciare l’auto presso una cappella votiva al margine della stradina.

 

Regione: Friuli-Venezia Giulia

 

Provincia di: Pordenone

.

Dislivello: 900 m.

 

Dislivello complessivo: 1200 m.


Distanza percorsa in Km: 18 Km.


Quota minima partenza: 770 m.

 

Quota massima raggiunta: 1671 m.

 

 

Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore

In: Coppia

 

Tipologia Escursione: Selvaggio-naturalistica

 

Difficoltà: E.E.S - Escursionisti esperti dotati di ottimo senso dell’orientamento e idonei ad agire in ambiente selvaggio con percorso spesso privo di segni e di tracce

 

Tipologia sentiero o cammino: Dalla partenza ala casera Ditta percorso turistico- dalla casera Ditta alla forcella Col de Pino, escursionistico, con alcuni tratti da stare attenti.

Dalla forcella Col de Pino alla Vetta, e proseguo sino alla forcella il Camp solo per Escursionisti esperti dotati di ottimo senso dell’orientamento e idonei ad agire in ambiente selvaggio con percorso spesso privo di segni e di tracce. Dalla forcella Il Camp fino agli stavoli di Case Liron escursionistico. Dalle casere Liron al punto di partenza- turistico.

 

 

Ferrata-

 

Segnavia: CAI 905; 904; Dalla forcella Col Pino rari segni.

 

Fonti d’acqua: Si, molteplici, soprattutto il versante meridionale

 

Impegno fisico: medio alto

Preparazione tecnica: medio alta

Attrezzature: no

 

Croce di vetta: Si, creata una minimalista

Ometto di vetta: si, minuscolo.

Libro di vetta: istallato barattolino di vetro a uso dei viandanti.

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

1)               Cartografici: IGM Friuli – Tabacco 021
2) Bibliografici:
3) Internet: 

2)               Periodo consigliato: primavera-autunno

3)                

4)               Da evitare da farsi in: Con condizioni di sentiero umido o gelato

Condizioni del sentiero: Ben marcato e segnato sino alla forcella Col de Pin; Sul versante settentrionale, letteralmente sparito a causa di non frequenza.


Consigliati: Ramponcini per erba.

Data: 30 maggio 2021

Il “Forestiero Nomade”
Malfa


Finalmente ho avverato il desiderio di visitare la valle che ospita la casera Ditta. Sono anni che percorro in lungo e largo i sentieri della valle del Vajont, ma per svariati motivi ho sempre glissato di visitare la valle del torrente Mesaz. Per l’ascesa alla Cima di Camp ho studiato un mio itinerario, quindi, con la compagna di vita ci siamo organizzati per l’avventura. Il mattino dell’escursione sembra quello propizio, le nubi latitano, solo qualcuna birbantella fa da cappello alle grandi montagne, tra cui il Raut, Cima Manera e il Col Nudo. Percorriamo in auto e con prudenza la valle del Cellino, sia per non travolgere qualche animale selvatico che si è attardato nel rientro dalla libera uscita, o per i numerosi autovelox, noti per la loro non indulgenza. Il limite è di cinquanta chilometri orari, e quando passi lentamente sotto le telecamere ti par di accompagnare un funerale. Una volta usciti nella valle che precede Cimolais ci attende una delle più belle cartoline della montagna friulana, in un solo fotogramma catturo il monte Lodin, il Duranno, la Cima dei Frati e la regina Cima dei Preti. Da sola tale visione merita una levataccia.

Valicato il passo di Sant Osvaldo ci inoltriamo nella valle del Vajont. La visione di questo magico luogo è sublime, tra le signore montagne che catturano la nostra attenzione cito il massiccio del Monte Borgà, Lo Zerten o Certen e la Cima Mora (che sovrasta la nota frana), anche se molti la chiamano erroneamente il monte Toc (poco distinguibile dalla valle). Procediamo con calma, siamo rapiti dalla bellezza del luogo. Presso i resti della disastrosa frana del 1963, poco prima della diga, viriamo a sinistra, percorrendo un tratto tetro e simbolico, ovvero l’abnorme materiale depositato dalla frana nel lago del Vajont. Tale tragedia 58 anni fa provocò notevoli danni e più di duemila morti. La strada che percorriamo porta alla località Pineda, dove cerchiamo un posteggio per  l’auto lungo il margine della rotabile, lo troviamo presso una cappella votiva. Si scende dall’automezzo, si indossano gli zaini, e si parte per questa nuova avventura. Seguiamo le indicazioni per la Casera Ditta, risalendo un breve sentiero che si collega alla carrareccia che scorre pochi metri sopra. La strada battuta è l’inizio del sentiero CAI 905, essa ci accompagnerà per un breve tratto. Durante lo spostamento incontriamo una coppia di escursionisti, con cui ci alterniamo nella marcia. La strada forestale risale la valle scavata dal torrente Mesaz, essa è protetta dalle catene montuose delle Cime di Pino, Col Nudo e Monte Toc. Un autentico paradisiaco teatro naturale. Ad un bivio lasciamo la strada per imboccare il viottolo numerato 905 che si abbassa di alcune decine di metri per poi seguitare sulla sinistra orografica del torrente. Alcuni scorci panoramici sono sbalorditivi, da uno di questi ammiriamo la cuspide inconfondibile del Duranno. Con brio incediamo lungo il bel sentiero, di tanto in tanto ci fermiamo donandoci un sorriso, per poi riprendere il passo scaldati dal sole e guidati dalla dolce melodia scandita dall’ininterrotto scorrere delle acque del torrente Mesaz.

Presso un tratto delicato da superare incontriamo due simpatici escursionisti, loro, una volta informati della nostra meta, ci mettono in guardia, avvisandoci che il gestore della casera Ditta non è di buon umore. Ci consigliano vivamente di non passare dalla casera. Ci congediamo dall’incontro, non ho osato confessare che non ho mai visitato il rifugio, quindi accetterò il cimento e transiteremo per casera Ditta. Gli ultimi metri che precedono il sentiero sono all’insegna dello spettacolo, guadiamo il torrente transitando su una passerella in metallo abbastanza inclinata. Giunti a ridosso della casera, ci accoglie un prato dagli accesi colori della primavera che preannuncia la recinzione della casera, dove un cartello ci invita a girare al largo se non abbiamo prenotato. Il tassativo avviso è dovuto alla sicurezza e il distanziamento per il Covid. Impavidi ed eroicamente varchiamo lo steccato e un bel cagnetto bianco, assunto come portiere diurno, ci viene incontro, sicuro di impaurirci con il suo latrare poco convinto. Di seguito udiamo l’inconfondibile voce di Gaia:<<Andate via! Andate via! Ma... Ma voi siete Giovanna e Giuseppe! Venite avanti, venite su!>> Ecco, Gaia è la nostra password per accedere al luogo tanto temibile. Una splendida e gioiosa ragazza che da anni coadiuva il gestore nelle attività del rifugio. Una mansione che tanti amanti della montagna agognano. La fanciulla ci inizia alla casera, in attesa di presentarci il gestore. Io non ho mai visto l’uomo misterioso e temerario, Giovanna sì. Lei è stata ben due volte, essendo amica di Gigliola, la mamma di Gaia. Ispeziono i locali, e scopro musica per le mie orecchie e segni per la mia vista. Più che un classico rifugio di montagna pare un circolo per spiriti liberi. Ammiro l’effige del Che tinta in nero sulla parete esterna, e stimo il cartello con la scritta” Razzisti, sovranisti e fascisti, non siete benvenuti”. Lo stesso gruppo “La montagna per spiriti liberi” è stato ideato per unire e non per dividere. La montagna non ha confini fisici o ideali, e chi li crea è solo un povero di spirito. Il gestore è in cucina, sta preparando il pranzo per una comitiva di giovani, tra di loro noto un volto orientale, e questo amplifica la sensazione di universalità che sto avvertendo. Finalmente l’uomo misterioso esce dalla cucina, ci presentiamo, si chiama Adriano Roncali. Ha un aspetto giovanile, simpatico e un volto che emana luce, fisico asciutto e in forma, sbarbato (chissà perché lo immaginavo con una barba tipo Mangiafuoco di Pinocchio) e sfoggia una cortesia smisurata. Mi chiede dove andiamo, tiro fuori la mini-mappa che ho al seguito e gli illustro i miei propositi escursionistici. Mi avverte che quello che ho in mente è un percorso selvatico, troverò sicuramente degli schianti dopo la forcella Col de Pin.  Si ferma nella locuzione, ci scruta ed emana la sentenza, che par essere una benedizione: <<Per voi non sarà un problema!>> Ci congediamo con l’amico dopo esserci salutati alla maniera nostra (vedere foto), e soprattutto con la promessa di telefonargli una volta che abbiamo compiuto la missione, sia per rassicurarlo che per informarlo sulle condizioni del sentiero. Partiamo da casera Ditta, salutiamo Gaia, intenta nelle ordinarie operazioni, e seguiamo la nostra via. Poco sopra la casera il sentiero si biforca, noi procediamo per quello a sinistra numerato 904, esso conduce alla forcella Col de Pin. Il primo tratto di cammino è ripido e adombrato dalla faggeta.  Presso i ruderi della casera Fratton (che mantiene intatto il fascino poetico della vestigia di montagna) ci dilettiamo a fotografare i particolari architettonici misti a quelli naturali. Di seguito, proseguendo il cammino, usciamo allo scoperto, percorrendo una bellissima, selvaggia e soleggiata mulattiera, che taglia il fianco meridionale della Cima di Camp. Alla nostra destra dominano la scena le piramidali e imponenti cuspidi rocciose delle cime di Pino, che si pongono come un insuperabile baluardo alla maestosità del Col Nudo. A volte superiamo dei tratti esposti ma non pericolosi, e un paio di piccoli franamenti, ma ben segnati. Guardando all’orizzonte percepiamo l’avvicinarsi della forcella. A volte è istintivo fermarsi per volgersi all’indietro e ammirare la valle che abbiamo percorso. Colmiamo gli occhi di tanta bellezza e con essi lo spirito, ricordi che serberemo come energia positiva. Raggiunta la forcella Col de Pin, rudere di edificio, lasciamo il sentiero 904 e viriamo a sinistra, dove troviamo sulle cortecce dei faggi alcuni segni sbiaditi e dello stesso colore del CAI. Non immaginavo che li avrei trovati, ne sono felice, e continuiamo a seguire la pesta a occidente, finché non percorriamo il versante settentrionale del monte.

Proprio sotto delle pareti rocciose decidiamo di calzare i ramponcini da erba. Percepisco la vetta della Cima di Camp proprio sopra di noi, ma per raggiungerla dobbiamo effettuare un percorso astruso. Dopo la breve pausa riprendiamo il cammino, entrando in una ripidissima ed esposta distesa prativa, erosa in più punti da un inizio di frana. La percorriamo zizzagando nell’ascesa per diminuire la fatica e trovare dei passaggi più comodi, finché raggiunta la cresta del monte tutto si agevola. La Vetta è a oriente e il crinale è protetto ed indicato dai faggi più coraggiosi, quelli che in tutte le stagioni osano sfidare le intemperie in cambio del dono di poter tutti i dì ammirar l’aurora e il crepuscolo.

Procediamo con gioia verso la meta, sorridiamo, e dopo la quota più alta (un faggio) procediamo verso quella panoramica, selvaggia e incantata, toccata da un infuocato raggio solare come se fosse un fiabesco castello incantato. Un paio di arditi faggi e un mugo materializzano la vetta, e poco oltre sta uno smussato ed esile precipizio proiettato nel vuoto, come fosse una rampa da dove spiccano il volo le aquile per un volo pindarico nel cielo che sovrasta la valle sottostante. Siamo emozionati, spesso nelle piccole elevazioni troviamo l’estasi. Presso un incavo creato dalle possenti radici del faggio sommitale trovo uno scrigno dove serbare il barattolino di vetro per i viandanti.  Di seguito ci spingiamo verso l’estremità esposta, per ammirare il Col Nudo e le altre regine che ci attorniano. Raggiunta e goduta la cima ci apprestiamo al rientro, compiendo un anello che aggira il versante settentrionale del monte. Ripercorriamo a ritroso la cresta, sulla quota più alta (un faggio) erigiamo con dei rami una croce minimalista, e procediamo verso un tratto di cresta dove possiamo discendere con prudenza sino a ritrovare in basso la traccia lasciata in precedenza.

Sembra che il cammino sia agevolato, ma presso un pulpito panoramico perdo la pesta, quindi di istinto passiamo alla configurazione di lupo, avviando gli istinti selvaggi, tra cui l’orientamento e il procedere in terreno sconnesso. Aggiriamo il versante, stando attenti a non scivolare giù a valle. Superato un canalone con residui di neve, continuiamo l’aggiramento del fianco sino a scorgere una chiara traccia che ci guida fino alla forcella del Il Camp. Da quest’ultima compare un’ampia mulattiera che ci porterà a Valle. Dopo pochi metri di cammino, alla nostra sinistra è posto un altarino basilare con lumini in cera donati in segno di devozione. Da questo tratto il nostro viaggio sarà comodo e rilassante, solo due schianti da superare con facilità, per il resto la lunga mulattiera con la dolcezza donata dalla folta vegetazione ci guida sino alla periferia degli stavoli in basso. Raggiunte le case di Liron, ne ammiriamo le forme, cercando negli oggetti disposti all’esterno i segni del tempo trascorso. Ne approfittiamo finalmente per fare la dovuta pausa pranzo, sostando presso un muretto a secco che adoperiamo come panca. Siamo soddisfatti. Dalla località, immersi nel verde, ammiriamo il vicino monte Zerten e il dirimpettaio monte Borgà, essi risvegliano al sottoscritto tanti ricordi  perduti che racconto a Giovanna. Finita la breve sosta, riprendiamo il cammino, per la mulattiera che ci guida sul ciglio della stradina asfaltata proveniente da Pineda. L’ultimo tratto dell’escursione è il          raggiungimento della località Pineda tramite il superamento di due gallerie scavate nella roccia. Fine dell’esplorazione! Siamo stanchi ma lieti per aver portato a termine la missione. Una volta pronti, rientriamo a casa. Le note musicali dell’autoradio con la voce di Franco Battiato si sposano con la nostra beatitudine di aver trascorso un dì dell’esistenza in uno dei luoghi naturali più affascinanti del Friuli.

Il forestiero Nomade.

Malfa.





















































































































 

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