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martedì 2 giugno 2020

Anello del Monte Chiavals-Cima della Vacca e Creta Dai Rusei dalla Val Alba.

 Monte Chiavals, cima della Vacca e Creta dei Rusei dalla Val Alba (Moggio Udinese)
Note tecniche.

Localizzazione: Alpi Carniche. Alpi tolmezzine orientali. Gruppo dello Zuc Dal Bôr.
Dorsale Zuc Dal Bôr-Chiavals-Gleriis


Avvicinamento: Lestans-Pinzano-Osoppo-Gemona-Moggio Udinese- Da Moggio Udinese percorrere la carrabile per la val Aupa- Bivio per Pradis seguire le indicazioni per la Val Alba-  Piccolo parcheggio presso quota 1053 m.

Dislivello: 1000 m.

Dislivello complessivo: 1400 m.

Distanza percorsa in Km: 16 chilometri.

Quota minima partenza: 1053 m.

Quota massima raggiunta: 2098 m.

Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore

In: Coppia più Magritte

Tipologia Escursione: naturale-paesaggistica

Difficoltà: Escursionisti Esperti

Segnavia: CAI 425; 450; 428.

Impegno fisico: medio

Preparazione tecnica: medio-bassa

Attrezzature: si

Croce di vetta: si

Ometto di vetta: si

Libro di vetta: si

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

1)               Cartografici: IGM Friuli – Tabacco 018.
2) Bibliografici:
3) Internet:

2)               Periodo consigliato: maggio-ottobre

3)               Da evitare da farsi in: Condizioni del sentiero umido o in presenza di ghiaccio
Condizioni del sentiero: Ben marcato e segnato.

Fonti d’acqua: si

Consigliati:

Data: domenica 31 maggio 2020.

Il “Forestiero Nomade”
Malfa
 Dopo una assenza di sette anni dalla bellissima Val Alba, ritorno per esaudire il desiderio del mio fedele compagno di avventure, Magritte. Il fido dopo una lunga convalescenza si è ristabilito e ha ricominciato a macinare chilometri, è decisamente rinato a nuova vita.
Lungo i sentieri dello Sciober l’ho spesso ammirato mentre sciorinava tra i mughi, fresco e pimpante come un cucciolo, ma con la sola volontà non sempre riesce a nascondere gli acciacchi dovuti alla veneranda età. Insieme a me e al fido oggi il nucleo si completa con la mia signora, che ignora del tutto le cime della dorsale del Zuc Dal Bor.
Il giorno dell’escursione raggiungiamo alle prime ore del mattino la valle d’Aupa, dominata dalla cima regina del Friuli, la Grauzaria. Per chi come noi è proveniente dallo Spilimberghese il Moggese dista sempre tanto.
Stranamente, nel seguire un’auto sulla Pontebbana, ho intuito che i passeggeri si recavano in Val Aupa, non chiedetemi come abbia fatto, ultimamente ho la vaga sensazione di aver acquisito dei poteri magici di cui ignoravo l’esistenza e a cui, sinceramente, non ambivo.
Lungo i tornanti di Pradis fermo l’auto in curva, per una veloce meditazione presso un albero, nel frattempo un fragoroso frastuono preannuncia una interminabile e rombante scia d’auto (mai viste così tante di seguito da quando frequento la valle), simili ai cortei che seguono gli sposi dopo l’uscita dalla chiesa, e io ad essi fiducioso mi accodo, seguendo l’allegra brigata sino alla Val Alba.
Se un minuto prima avessi avuto una vacua speranza di trovare parcheggio, ora sarei stato sicuro che ogni tentativo sarà vano. Raggiunto il punto di partenza, parcheggio l’auto alla meno peggio, e ci apprestiamo per l’avventura. La compagine che ci ha preceduto è calorosa e agguerrita, appena sceso dall’automezzo scopro facce conosciute e soprattutto quella che speri ma non ti aspetti, lo Spirito Libero dalle mille Cime alias” Ilario”.
Ritornando ai super poteri in precedenza citati, direi che anche questo incontro lo percepivo, sentivo che oggi avrei incontrato l’amico. Lo chiamo, mi risponde non tanto sorpreso, forse mi ha riconosciuto in basso, mi si avvicina con cordialità e affettuosamente instauriamo una veloce conversazione con annessa foto che immortala il momento. Dopo i saluti in stile Covid 19 con gli altri membri, si parte: Ilario con la sua numerosa compagine e in senso orario, e io naturalmente con la mia in senso “anti”.
Ho sempre al seguito il GPS e una mappa della zona, ma li utilizzerò solo per misurare il chilometraggio e dislivello.
Il primo passo è accompagnato dai ricordi che mi guidano ancora dopo un settennato. Ci inoltriamo nel fitto bosco, guadiamo il rio Alba e iniziamo la lunga e tediosa ascesa all’interno della faggeta. Durante il cammino non siamo soli, oggi, straordinariamente, la Val Alba pullula di viandanti bramosi di montagna. La lunga serie di tornanti è utile per scaldare i muscoli. Un anziano escursionista ci è d’esempio per come incede: avanza con passo flemmatico, costante, e mai si ferma, direi ipnotico. Lo supero solo, per non costringerlo a indossare la mascherina, mi porto avanti di alcune decine di metri, per adottare il medesimo ritmo. Con questa comoda andatura non fatico ed essa mi porta lontano, è il noto “passo dell’alpino”. I sentieri che sto percorrendo li ho ancora impressi nella memoria, sono il 450 e il 428. Rivivo l’adrenalina di quando per la prima volta transitai sul cengione scavato nella roccia. Stavolta lo attraverso lesto, portandomi nei punti idonei dove poter fotografare Giovanna in alcune pose che amplificano gli effetti visivi del vuoto e il fascino del pericolo.
 Superato il bel cengione, con una serie di piccole svolte raggiungiamo l’avvallamento superiore dove è custodito come una perla rara nel suo scrigno il nuovo bivacco Bianchi.
Confesso, che il riparo precedente non mi dispiaceva, sarò romantico, ma difficilmente dimenticherò quel punto rosso dominato dall’immensità di sua maestà lo Zuc Dal Bôr.
La nuova struttura è in legno, e ricalca nella forgia le baite alpine. All’esterno trovo simpatici e loquaci escursionisti in compagnia dei loro amici a quattro zampe. La mia attenzione è attratta da una giovane coppia, ci conosciamo per via delle pubblicazioni su “Amanti della montagna friulana”, li ho osservati prima di raggiungere la baita e dalle maniere sembrano fidanzatini assai innamorati. Poter ancora osservare l’amore in questo periodo storico dove quello che conta è la distanza sociale sa tanto di surreale e anacronistico. Ma l’amore è una forza eccelsa, più poderosa di qualsiasi avversità e chi ama intensamente crea un autentico scudo protettivo contro ogni avversità. Vederli rapiti ed entusiasti come se fossero in gondola a Venezia, o in Egitto presso Giza, ai piedi della Sfinge, crea quel certo non so che di appassionante, e questo non mi è sfuggito. 
Anche il mio fido, l’eroe Magritte, non passa inosservato.  Famoso ai più per le sue imprese, lui è incurante della gloria di cui gode. Silenzioso e saggio come sempre, osserva i miei movimenti seguendo l’incedere dei miei scarponi per sincronizzarsi con essi, stimando le distanze e le lunghezze del passo da quota a quota, da masso a masso, da zolla a zolla. A volte, anzi direi spesso, sono preso e distratto dal mio ego che mi dimentico della sua esistenza, mi giro di scatto sperando di non averlo perso. Lui mi ama in un modo così irrazionale, come solo i cani sanno dare ai loro amici a due zampe.
Lasciato il bivacco Bianchi, si punta al monte Chiavals. Seguiamo prima il sentiero 425, e poi i bolli gialli-rossi.
Preso dalla bellezza del luogo mi distraggo, e mi ritrovo presso la forcella Chiavals. Fortuna nostra che nel frattempo sale una comitiva dal versante orientale. Lo scout che li guida mi avvisa che ho sbagliato direzione, ritorno indietro e ritrovo i bolli giallo rossi poco sopra dove erroneamente ho virato. Proseguiamo in salita per il sentiero dell’Alta Via di Moggio, procedendo spediti come un treno. Mentre mi districo tra le zolle mi viene in mente una crestina affilata e articolata e molto esposta, eccola, precede il cupolone sommitale. La supero tranquillamente, le esperienze fatte in montagna dall’ultima volta che conquistai il Chiavals mi hanno abituato a pericoli ben maggiori. Logicamente per Giovanna tutto questo è nuovo, la seguo nei movimenti e la fotografo nel suo procedere, l’adrenalina gliela si legge in volto, ma anche l’autostima, che man mano che avanza sta accumulando.
Ultimi divertenti tornantini da percorrere con facilità ed eccoci in cima. La croce di vetta non è più quella del giugno 2013, oggi è più corposa e appare come una scultura astratta. In cima non siamo soli, degli escursionisti ascesi tramite il sentiero che noi adopereremo per la discesa stanno a elencare per nome le cime che ci circondano. Opera pia di ogni spirito libero è quella di donare e non di togliere alla montagna. Quindi estraggo dal mio zaino un vistoso nastro tricolore con cui cingo e stringo i rametti rinsecchiti che compongono la croce, gesto in ricordo e onore dei soldati che hanno combattuto tra queste meravigliose montagne. Lego anche un altro nastro, stavolta di colore arancione, che per me ha un altissimo valore simbolico. Dopo aver aperto la cassetta porta libro di vetta, constato che le condizioni del diario sono in pessimo stato, estraggo dallo zaino anche un contenitore in plastica, con all’interno dei fogli di carta e un pennarello. Ci sono più correnti di pensiero rispetto l’etica da avere in montagna e la cura dei simboli della stessa. Molti pensano che la cosa non li riguardi, e se non lo hanno fatto gli altri prima, perché lo devo fare ora loro? Escludo i vandali da questa forma alta di pensiero, già schifarli è una forma di riconoscenza verso le loro losche figure; e infine ecco i viandanti innamorati, gli aristos, coloro che nel loro fardello (zaino) amano portare sempre qualcosa da donare o con cui curare la “Grande Signora”. Basta poco, un nastro rosso, un pezzo di fil di ferro, e costoro, questi folli idealisti, amano anche piegarsi la schiena per erigere ometti o accrescere quelli già esistenti. Naturalmente dalla massa sono visti come dei fessi, pardon, volevo scrivere idealisti, ma cito un vecchio detto: “Fare il bene costa fatica; ma la fatica passa subito e resta il bene; e col bene restano la pace della coscienza, la soddisfazione di sentirsi bene e la fierezza di quello che si è compiuto! “Quindi, personalmente e per il medesimo motivo, ogni ometto che incontro è un orfanello abbisognoso di cure e affetto, e basta un sassolino per nutrirlo e allietarlo. Tutti i sentieri abbisognano di essere puliti: basta poco, spostare o rimuovere i rami che ostruiscono il passo, e soprattutto riportare a casa le scorie che produciamo (carte e spazzatura di ogni genere). Ritornando alla Cima del Chiavals, ci godiamo l’immenso paesaggio e continuiamo l’anello che ci porterà alla Creta Dai Rusei.
Durante la ripida discesa dal monte percepiamo un brusio, voci, ed ecco spuntare per magia un folto gruppo di escursionisti che procede in senso opposto. È di nuovo il mitico Ilario che conquista la cima con la sua strepitosa ciurma. Ci spostiamo su una zolla di sosta e salutiamo tutti i membri della pattuglia che sfilano allegramente per conquistare altre cime e naturalmente la gloria. Raggiunta la sella in basso ci colleghiamo con il sentiero ufficiale 425 che ora assume le fattezze precedenti, ovvero di mulattiera di guerra. Opera notevolissima dei nostri genieri in divisa grigioverde durante il primo conflitto mondiale. Subito dopo la selletta incontriamo un’altra comitiva, ci riconosciamo sempre per via dei social, saluti, scambio di cortesie, foto, e si continua per la bella mulattiera. Lo scenario di roccia è strabiliante: bianca, viva, maestosa, infinita, dominante, aguzza e temeraria. L’animo si riempie di cotanta bellezza, e lo stupore ruba la scena alla stanchezza, riaccendendo energie nascoste. Il sentiero è agevole, solo qualche saltino, ma nulla di proibitivo, finché avvistiamo le nostre future mete, la cima della Vacca con annessi i ruderi di una casermetta e a seguire la Creta dai Rusei. Dopo aver perso quota iniziamo a risalire, più di 200 metri di dislivello da sommare ai precedenti accumulati.  Raggiunte le panchine panoramiche, con un ultimo sforzo (la volontà non latita) conquistiamo la cima Vacca con l’esile croce in legno, per poi ridiscendere e imbandire la tavola da pranzo presso le precedenti citate panchine ricavate da tronchi di albero.
Tutti e tre, affettuosamente si mangia con piacere e bramosità, Magritte al centro attinge un po’ di qua e un po’ di là.  Recuperiamo le energie disperse, ammirando dall’alto la val Alba e le attigue cime della Grauzaria e del Sernio, e naturalmente di seguito il proscenio delle amabili cime friulane, sino alle lontane venete.
L’attimo ludico non è sposato alla volta celeste, oggi il cielo non si è vestito di lapislazzuli, ma di un cenerino austero per via degli incombenti nuvoli neri. Ripreso l’assetto di marcia dopo la breve sosta, ci consultiamo se aggiungere al palmares odierno anche la Creta dei Rusei, visto che dista solo pochi metri dalla mulattiera. La decisione presa è affermativa, stabiliamo di sacrificare Magritte assieme agli zaini (brontola) lasciandolo di guardia a pochi metri dalla placca introduttiva, dopodiché si procede lesti sul delicato ed esposto sentiero.
L’asta in legno e il bollo tondo sulla roccia sommitale ci indicano che le nostre speranze sono state assolte, anche questa cima è conquistata, quindi, dopo l’ennesima foto di rito, rientriamo a recuperare il fido, e subito dopo ci avviamo per la lunga e comoda discesa verso il punto di partenza.
Sono stato convinto sin dall’avvio che l’anello andava compiuto in questo senso orario, cioè da destra a sinistra, memore che il sentiero di discesa è molto più comodo di quello dell’andata e sempre mostrato alla luce. Infatti, rientriamo comodamente, concedendoci una lunga conversazione. Raggiunto il parcheggio notiamo che le auto degli amici sono ancora, lì, in sosta, intuisco che non si sono limitati al Chiavals. Infatti, dopo pochi minuti udiamo un vibrante vocio, e di seguito spunta l’allegra brigata. Ci risalutiamo, cordialmente ci invitano a dividere con loro dolci e vino e frutta, un simposio degno di Dionisio. Gradiamo l’invito, terminando l’escursione in allegria e simpatia, cosa rara per me, che notoriamente sono un solitario che frequenta di solito cime selvatiche. Ma oggi avevo il desiderio di incontrare gente, volti amichevoli e allegri, e così è stato. Mi rendo conto che lassù qualcuno mi ama, non l’aquila, ma ancora più su, più su!
Il Forestiero Nomade.
Malfa.

































































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