Monte Cretis da
Villa Santina.
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Carniche
Avvicinamento: Lestans-Pinzano- Cornino- Interneppo-Cavazzo
Carnico-Tolmezzo-Villa Santina.
Località di Partenza: Villa Santino, ampio
Dislivello: 700 m.
Dislivello
complessivo: 730 m.
Distanza percorsa in Km: 9 chilometri.
Quota minima partenza: 365 m.
Quota massima raggiunta: 1041 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: 4,5 ore.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione:
Naturalistica.
Difficoltà: Escursionistica.
Segnavia CAI e bolli rossi.
Impegno fisico: medio.
Preparazione tecnica: bassa.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: No.
Ometto di vetta: No.
Libro di vetta: No.
Timbro di vetta: No,
Riferimenti:
Cartografici: IGM Friuli-Venezia Giulia – Tabacco 013.
Bibliografici:
Internet:
Periodo consigliato: Tutto l’anno.
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: Disastroso in alto, migliaia di
schianti rendono impossibile la marcia.
Fonti d’acqua: Si.
Consigliati:
Data: 10 maggio 2019.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Racconto:
In questa folle primavera friulana le giornate non sono più favorevoli
agli amanti della montagna; un tempo da lupi avvolge i colli, stimolando una
fuga tra le nebbie.
Così il viandante e il suo fedele amico a quattro zampe incominciano
il cammino per l’altopiano che sovrasta Villa Santina. Si ritorna in Carnia,
terra schietta e martirizzata dalla furia di un Dio sventato.
Dopo una lunga ricerca sulle mappe di un rilievo con una
quota abbordabile: che non sia né troppo alta né troppo bassa, né troppo
lontana né troppo vicina, mi viene in mente il monte Cretis; al tempo mi fu
segnalato dall’amico Roberto durante il rientro da un’escursione.
Conosciuto il nome, mi studio il percorso che appare poco
impegnativo, 700 metri di dislivello e un anello da compiere complessivo di 13
chilometri.
Il giorno seguente si parte, approfitto dell’ultimo giorno
di sole prima che le nerastre nubi coprano per giorni interi la volta friulana.
In pianura il cielo è coperto ma verso il lago di Cavazzo numerosi
squarci di azzurro mi consigliano di perseverare, raggiungendo in breve la
destinazione. La dolomitica e regale Amariana indossa un cappello grigio scuro,
saluto la maestà tolmezzina e dirigo l’auto in direzione di Villa santina.
Pochi chilometri e giungo nella cittadina carnica, a volo con
un ottimo intuito imbocco il vicolo del centro abitato, e come, se fossi
guidato da un nume, trovo l’inizio e la fine dell’escursione.
Mi appronto per l’avventura, zaino in spalle e fido al
seguito si parte. Percorriamo a ritroso la statale che attraversa la cittadina
di Villa Santina. Memore del percorso da fare, seguo le indicazioni della mappa
uscendo dal centro abitato per trovare l’innesto al sentiero, sito pochi metri
dopo una chiesetta (borgo S. Antonio) eretta alle pendici del monte. Il viandante con la bandana e seguito dall’anziano
cagnetto sfila per la cittadina, con un passo claudicante dovuto alle numerose
sortite in montagna. Trovato il sentiero (stradina in cemento) attacco l’ascesa.
Un cartello stradale arrugginito e una carrareccia di ghiaia mista a terra,
testimoniano che una volta gli umani passavano con più frequenza e con automezzi.
Procedo finché non scorgo alla destra di uno slargo un piccolo ometto di pietre posto come
indicante.
La ripida traccia segnata CAI, si inerpica sul ripido pendio
con la rada vegetazione tipica dei versanti assolati. La pendenza sostenuta non
molla per un lungo tratto fino ad arrivare a quota 740 m. circa. Ho percorso
400 metri di dislivello in un’unica tirata. Mi ritrovo in fondo a un canalone e
devo risalire una placca ben articolata che grazie alle provvidenziali guide di
colore bianco-rosso supero con facilità, il passaggio è un tantino esposto.
Mi fermo per una breve pausa, volgendo lo sguardo verso la piana
di Tolmezzo, alla ricerca dei sogni svaniti. Dal cocuzzolo di roccia dove
poggio la mano si eleva una solitaria viola che mi delizia con il suo fascino e
profumo. Proseguo per la traccia, mi sembra di percepire la cresta, mancano ancora
pochi tornanti prima che la raggiunga e dopo mi ritrovo dentro il fitto bosco.
Dalla cresta seguendo la traccia mi abbasso di alcuni metri,
scoprendo un verde prato dove spicca una remota stalla, la gioiosa immagine
bucolica per un attimo spegne la mia malinconia.
Giro intorno al rudere, per poi riprendere il cammino dentro
il bosco. Non ci sono indicazioni, solo una traccia che spesso scompare,
coperta dai tronchi d’albero rovinati. La vegetazione si fa sempre più fitta, cammino
sulla cresta individuando tra le fronde qualcosa di alto che sembra un poggio. Ma
ben presto mi devo arrendere all’ineluttabile, mi arresto davanti all’ immane
cimitero di abeti (schianti), che ostruiscono il passaggio.
Rimango afflitto della tragica visione, mi ritrovo sul bordo
di un cratere provocato dalla furia della natura. L’immane tragedia è manifesta,
i ciclopi della foresta non hanno resistito all’urto della forza devastatrice, cadendo
al suolo come eroici guerrieri.
Per aggirare il cimitero degli aghiformi mi abbasso molto di
quota a sud, per poi risalire e ritrovare il sentiero. Ripreso il comodo
cammino sbuco alle pendici dell’inerbito costone, seguendo i segni tinti sugli affioranti
massi che guidano sicuri ai prati sommitali.
L’erba smeraldina è accarezzata dal sole che non è più
timido, la meta è sempre più vicina. Oltrepassato un dosso raggiungo la massima
elevazione materializzata dall’eroica e giovane falange di faggi che sfidano le
ventate di Eolo a meridione.
A un ramo è fissata una targa con su scritto il nome del
monte e la quota, mi piace perché è minimalista! Adoro le vette senza l’inutile
e sgradevole supplizio della presenza di simboli neopagani.
Appendo lo zaino per la maniglia a un ramo, così se ne sta
sospeso, e imitando Colombo alla scoperta del Nuovo Mondo, ficco il bastoncino
da trekking per terra per suffragare la nuova conquista.
Il sole adesso scalda e le tinte della volta che vanno dal
cobalto al lapislazzuli si riflettono nelle mie iridi, mentre il fedele
compagno si abbandona al suo meritato riposino.
Mi adagio presso un masso, ed estraggo dallo zaino il libro
di canti del grande poeta cileno e mi arricchisco di alcuni versi, ma in mente
mi viene una scritta trovata incisa su una tavola di noce, posta poco dopo
l’inizio sentiero.
…amare è donarsi senza se o ma,
ricusando e ponendo i propri interessi in secondo piano.
Quello che tu chiami amore è solo egemonia, bramosia, protagonismo.
Mi chiedo se durante la tua esistenza hai mai amato,
o se ami una moltitudine che non vuoi svelare.
o semplicemente non sai amare…
F.D.
ricusando e ponendo i propri interessi in secondo piano.
Quello che tu chiami amore è solo egemonia, bramosia, protagonismo.
Mi chiedo se durante la tua esistenza hai mai amato,
o se ami una moltitudine che non vuoi svelare.
o semplicemente non sai amare…
F.D.
8 dicembre 1917
Già, colui che ha scritto queste parole ha incontrato
sicuramente un muro di ghiaccio. Per me amore è dare, donare, concedersi, librarsi
nel vuoto come Icaro senza avere paura di bruciare le ali.
Come l’amore incondizionato di questo vecchio compagno di viaggio
a quattro zampe, che da 14 anni mi segue in lungo e in largo, dividendo con me la
gioia di una meta o l’amarezza di una sconfitta. Questo sì che è amore! Anche dirsi
mi manchi, o chiederlo è amore. Puoi vivere senza di me? SI? Allora amore mio spiegami
perché non posso vivere senza di te. Io senza il sole ci sto male, e quando la
notte non sento battere il tuo cuore insieme al mio mi sembra di impazzire. Per
questo ti amerò senza darti mai un preannuncio e mai un dettame, faremo l’amore
con la finestra spalancata sul giardino e chi se ne fotte se i vicini odono o
peggio ancora vedono. Lo faremo anche sui campi di grano. Voglio sentire l’ebrezza
che mi dà la natura, anche il fresco soffio del vento sul culo ignudo, perché
amore è libertà e non uno vuoto affettivo da colmare a tutti i costi. Io sono
così, lo sai e mi conosci, la tempesta che si genera dal mio cuore innamorato è
più violenta di quella che ha investito questa foresta. Sei la mia musa e
regina, ma anche la mia puttana, sappilo!
Dopo questa riflessione intensa e passionale mi accingo a
lasciare la vetta.
Su, non facciamo i moralisti, fare l’amore, anche solo con
la mente, è sempre meglio di uccidere o discorrere male del prossimo.
Ripreso lo zaino e il compagno di viaggio, mi addentro tra
gli arbusti dove scopro una traccia e dei segni che seguo con brio. Dopo un centinaio
di metri mi arresto di nuovo, il passaggio è ostruito da altri immani schianti,
aggirati quest’ultimi ne incontro altri ancora. È un‘apoteosi e tutto questo mi
spossa. All’improvviso odo un dolce
canto, non quello delle sirene di Ulisse, ma di una motosega. Uomini, bipedi! La strada è prossima! Galvanizzato dalla
lieta scoperta, scendo ripidamente per il versante boschivo fino ad intravvedere
una carrozzabile di campagna, che tanto somiglia a quella decantata dal poeta
di Recanati.
Raggiunta la via di comunicazione e non incontrando la
donzelletta che vien dalla campagna, tiro a sorte su quale direzione prendere:
nord o sud? La fatalità mi indica di procedere a meridione dove ai bordi del
vecchio tratturo sorge una bella casetta da sogno, attorniata da un verde prato
da fare invidia a quelli del Mulino Bianco. Respirata la bucolica atmosfera e
fatte le dovute foto che incanteranno gli amanti del tempo che fu, proseguo in
direzione della cittadina di Lauco che dovrebbe trovarsi a occidente. La nobile
e arcaica strada di montagna mi conduce di nuovo dentro il bosco per poi svanire
all’incontro con un enorme trattore in sosta, attorniato da due operai intenti
a fare la siesta. Chiedo informazioni: <<Scusate, per Lauco vado bene?>>
Mi abbassano la testa in segno di consenso, e uno di loro (il più giovane e con
uno spiccato accento carnico) con le movenze dell’avambraccio e della mano mi
indica la direzione: <<Dritto e poi dritto!>> Per fortuna ho letto
bene i segni della mano, la lunga carrareccia aggira il Col Ventar a occidente,
conducendomi sulla strada che collega da nord a sud, Vinaio con Lauco.
Mi appresto a percorrere questo breve tratto di strada
asfaltato, effettuando la pausa presso un belvedere attrezzato con tavoli e
panche in legno; da esso ammiro il borgo di Lauco e la valle carnica. Finalmente
un po’ di riposo. Depongo lo zaino, e con il cucciolotto ci accomodiamo a
tavola per fruire del pranzo. Dalla piazzola possiamo ammirare le vicine catene
montuose ancora ricoperte di neve, tra cui spicca il col Gentile e il
Verzegnis. Tante montagne, di cui molte visitate, e altre ancora da esplorare. Saziata
la fame riprendo il cammino verso Lauco, il sentiero spesso è interrotto da schianti
e mi sospinge a percorrere il manto stradale, finché poco sopra Lauco si libera
in un antico camminamento (troi) che mi conduce dentro il borgo sopra citato. La
direzione di marcia è sempre la stessa, a sud, transito accanto al cimitero per
continuare la discesa a valle. La remota mulattiera è ben costruita, zizzagando
perde quota, in alcuni tratti conviene abbandonarla per seguire un ripido,
esposto e bollato sentiero, finché nelle ultime centinaia di metri di
dislivello, si è obbligati a scendere sopra Villa Santina, continuando a
percorrere gli stretti tornanti.
I tetti dell’abitato sono sempre più vicini, raggiunta la
fine del sentiero oltrepasso una barriera di cemento posta sicuramente per
difendere dalle frane l’insediamento.
Varcata la soglia della protezione in cemento mi ritrovo
presso lo spiazzo dove ho lasciato l’auto il mattino, missione compiuta. Soddisfatto
dell’esito dell’escursione mi cambio velocemente, la giornata ha retto, adesso
comincia a piovigginare.
Una volta pronto, e dopo essermi dato una sistemata, mi
concedo un desiderato caffè. Seduto al tavolino del bar, sorseggio la bevanda meditando
sul senso della vita.
Tra pensieri dolci e tristi termina la mia avventura, con
una montagna conquistata e una nuova storia da raccontare.
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
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