Anello dei Falcons e monte Slenza Ovest dalla val di Gleris (anello
completo con un solo automezzo)
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Carniche centrali.
Avvicinamento: Pontebba, carreggiabile per la Val Aupa. Poco
prima del borgo di Aupa, girare a sinistra percorrendo la forestale che si
inoltra nella Val Gleris. Presso un cartello CAI con indicazioni lasciare
l’auto in un ampio spazio adibito alla sosta.
Località di Partenza: Presso un cartello CAI con indicazioni
lasciare l’auto in un ampio spazio adibito alla sosta.
Dislivello: 700 m.
Dislivello
complessivo: 1000 m.
Distanza percorsa in Km: 16 chilometri.
Quota minima partenza: 812 m.
Quota massima raggiunta: 1693 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: 6 ore.
In: Solitaria
Tipologia Escursione:
Selvaggia-escursionistica.
Difficoltà: Escursionisti esperti.
Segnavia CAI 429.
Impegno fisico: Alto.
Preparazione tecnica: media.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: Si, creata una dal sottoscritto.
Ometto di vetta: Si.
Libro di vetta: Si sullo Slenza.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
Cartografici: IGM Friuli-Venezia Giulia – Tabacco 018.
Bibliografici:
Internet:
Periodo consigliato: giugno -ottobre
Da evitare da farsi in: Con meteo ostile o in presenza di ghiaccio
o terreno umido.
Condizioni del sentiero: Ben segnato e marcato, tranne lo
Slenza che necessita di perizia tra i mughi.
Fonti d’acqua: Nessuna.
Consigliati:
Data: 09 giugno 2019
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Racconto:
Per questa nuova avventura ho riletto la mia precedente
relazione ambientata nella valle di Gleris, ricopiando parte dell’introduzione.
Allora la mia meta era la cima Valeri, stavolta percorrerò la lunga cresta, dai
Falcons sino alla Cima Slenza Ovest. Di seguito riscrivo le emozioni che ho riprovato
nel tragitto di avvicinamento.
…raggiunta la cittadina di Pontebba, seguo le indicazioni
per la Val Aupa, percorrendo la stretta e panoramica rotabile. Giunto nei
pressi di Studena Alta, mi fermo ad ammirare il bellissimo borgo sottostante,
dipinto sui verdi pascoli dominati dalle lontane cime del Malvuerich e Creta di
Pricot. Sentimenti di felicità, misti a
nostalgia si impossessano del mio stato d’animo. Io, che sono nato sul mare,
provo malinconia per un mondo non vissuto. Io, che sono stato bagnato e unto
dalla salsedine e ho respirato lo smog della città, mi commuovo nel sentire il
profumo dell’erba, e ascoltare il suono dei campanacci appesi ai collari delle
mucche. Me ne sto accanto al camino, a montare il latte dentro la pentola,
mentre sotto di essa arde il fuoco.
Aspettando gli ordini del vecchio malgaro, per poi vagare libero nei
prati, respirando quella sensazione di libertà. Riprendo il viaggio per la
meta, inebriato, fino a raggiungere il successivo borgo di Frattis. Pochi metri
dopo, proprio sotto il borgo di Aupa, un carreggiabile si dirama alla sinistra
della rotabile, proseguendo per la bellissima Val Gleris. Mi fermo un attimo ad
ammirare le Crete di Gleris, che si innalzano al cielo come pinnacoli. È
impossibile resistere all’incantesimo. Se chiedete ad un bimbo di disegnare le
montagne, in qualsiasi parte del mondo, egli le illustrerà come una serie di
punte, poste in fondo ad una valle di abeti. Credetemi, tutti i bambini del mondo,
inconsciamente disegnano la “Valle di Gleris”, e io, oggi, sono ritornato bimbo
e ho ritrovato il mio disegno dell’infanzia perduta, riconoscendolo tra mille,
e in esso vado a perdermi. La carrozzabile raggiunge il fondo valle, lascio
l’auto presso un ampio parcheggio, preceduto da un cartello con indicazioni
CAI. È un abbandono, perché essa, l’auto, in questo contesto è fuori luogo…
Dopo aver riletto il racconto, ho nutrito gli stessi sentimenti
d’allora, la Val di Gleris è magica, solitaria, per spiriti liberi, e oggi ho di
nuovo bisogno di dare sfogo al mio istinto primario, ovvero quello di errare
per i monti.
Dopo aver sostato l’automezzo mi preparo, la solitudine ha
il colore grigio delle prime ore del mattino, un silenzio da brivido pervade
l’atmosfera, cerco invano calore accarezzando con lo sguardo le guglie delle
sette picche baciate dal sole nascente.
Per la meta odierna seguo le indicazioni poste sui cartelli
CAI. Guado l’ampio, secco e ghiaioso letto del Rio Gravon di Gleris, un paio di
paletti con segni e radi ometti mi guidano fino alla sponda opposta. A tratti è
anche divertente il passaggio, soprattutto quando saltello sui macigni.
Mi fermo a osservare per intuire lo svolgimento del cammino
per la cresta e la risposta è eloquente: devo risalire il canalone che si
chiude come un imbuto rovesciato, percorrendo la traccia segnata con evidenti
bolli rossi che spiccano tra i mughi e le rocce perlacee e umide del mattino.
Procedo con un passo leggero che mi guida nell’ascesa. Le rade
chiazze bianche di neve ricordano l’inverno che fu, mentre la luce mi attrae alla
Forcella Alta di Ponte di Muro, dove una guglia dolomitica è di guardia. Mi
fermo poco sotto l’intaglio ad ammirare le pareti orientali della Cima Est di
Gleris e tra esse mi si svela un
intaglio di una forma che a me piace assai, vedo l’azzurro oltre i petali di
roccia.
Sono preso dal panismo, tutto è natura e poesia, e con una
intensa emozione giungo alla sella, dove la traccia si biforca: a destra per la
forcella di Pecora, e a sinistra per i Falcons.
Sono rapito dal
fascino delle pareti settentrionali del Zuc dal Bor, un’altra incantevole cartolina
mi rapisce lo spirito. Basterebbe solo questa visione per proferire che
l’escursione è stata magnifica, ma sono appena all’inizio della magica e misteriosa
avventura.
Procedo a sinistra per il detritico sentiero sfiorando un
gendarme di pietra, e sceso di alcuni metri, percorro un’esile ed esposta cengia,
l’adrenalina galvanizza l’anima.
Il traverso mi porta sopra una fitta mugheta, il sentiero
scende rapidamente, fino a trovarmi in una posizione dove a oriente posso ammirare
il dirupato e lunare versante che precede i Falcons.
La calata tra i mughi continua, tralascio di salire sulla
creta di ponte di Muro, mi preoccupa di più la rapida perdita di quota visto
che dovrei risalirla al ritorno. Attraverso alcuni repentini balzi e mi porto
sulla labile traccia che taglia a mezza costa il versante orientale, fino a
raggiungere una faggeta. Pochi metri dopo, in una aperta radura, sono al
cospetto dei miseri ruderi di quello che resta della casera Ponte di Muro, mi
attrae in particolare una cucina in muratura di chiara fattura militare.
Dei cartelli CAI sono posti al centro del crocevia, seguo le
indicazioni per Pontebba, e continuo il viaggio tramite una mulattiera che si
districa tra gli edifici bellici risalenti al primo conflitto mondiale.
Seguo il sentiero che si perde tra la vegetazione per poi
ritrovarlo poco sotto uno scosceso tratto che risalgo con stretti tornanti. Raggiugo
per cresta la prima meta odierna, la vetta dei Falcons. Trovo sull’elevazione
solo uno sparuto ometto e un paio di legni( rami secchi di mugo) per terra che sembrano
dirmi: <<Beppo, uniscici, sposaci in una croce latina e crea un simbolo
per chi ha fede nel dio dei poverelli.>> Ed è quello che realizzo, estraggo
dalle tasche il filo di spago e lego i due rametti assieme a una fettuccia bianca-rossa,
collocando il manufatto tra i sassi dell’ometto, mentre altri ne cerco e ne pongo
per rendere più stabile la piccola croce lignea. Da agnostico ho trovato saggio
e benevolo creare qualcosa per chi ha fede in questo simbolo, mi auguro che
coloro che professano questa religione avranno lo stesso rispetto per quelli
che non credono.
La visione dalla cima è a dir poco fantastica, da essa ammiro
gran parte delle catene montuose del Friuli e della Carnia, lo spettacolo a cui
assisto è semplicemente sensazionale, commovente, e non sono ancora finite le
sorprese.
Dalla cresta osservo il proseguo dell’escursione, la cima
del monte Slenza Ovest non appare tanto lontana, anzi sembra invitarmi, e ho
ancora tantissime ore di luce a mia disposizione. Abbandonata la cima dei
Falcons procedo a settentrione, il sentiero che segue è dolce, solo alcuni sali
scendi per un cammino che si mantiene aereo.
Giunto presso un bivio, noto che la traccia principale
scende a destra della cresta, sicuramente porta in basso, seguendo il percorso
del sentiero CAI 429. Io, fidandomi del mio istinto, proseguo per la cresta e
dopo pochi metri scorgo una fettuccia legata ad un ramo, ci sono! vado con
emozione sullo Slenza ovest.
Il primo tratto è intuitivo, mi faccio largo tra i mughi e a
volte mi dispero. Poi scorgo qualcosa che sa di passaggio e dei rami tagliati
ne sono la prova, senza remore mi incanalo in questa via. Alcune fettucce in
plastica lasciate da chi è passato in precedenza mi guidano nell’aggirare alcuni
ostacoli. Raggiunta l’ante-cima percorro una cengetta fino a raggiungere la
cima, dove un corposo ometto con annesso barattolo e libro di vetta mi annunciano
che le mie fatiche sono finite.
Dalla cima dello Slenza la visuale si apre a 360 gradi,
soprattutto sulle vicine montagne di confine tra cui troneggia il monte Cavallo
da Pontebba. Finalmente posso concedermi una meritata pausa, me la prendo
comoda, sistemo i materiali e filmo il paesaggio e poi dedicarmi a saziare
l’appetito. Il libro di vetta consiste in un modesto barattolo di vetro con
all’interno un paio di matite e un blocco note. Il primo visitatore è un certo
P. C. ha impiantato il libro nell’ottobre del 2016, l’altro visitatore è asceso
sempre di ottobre ma nel 2017, non ha molti frequentatori questa cima. Mi godo la quiete, sono galvanizzato e sto
divinamente bene. Nel contemplare la
bellezza che mi circonda mi prendo tutto il tempo che voglio, concedendomi
anche poche parole della poesia del mitico Gabriele Dannunzio, tratte da
“Meriggio” che bisbiglio a occhi chiusi, per amplificarne la poetica.
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
Gabriele Dannunzio
Finito il momento d’estasi e di poesia, riprendo lo zainoe
mi cingo con esso per proseguire il cammino. A metà cresta dello Slenza, sul versante
meridionale e tra i mughi scorgo un canalino che scende in basso, non è tanto
ripido, e da spericolato che sono mi calo giù, quasi forse un gioco, uno
scivolo. La fortuna anche stavolta mi è amica, sembra proprio che qualcuno sia
passato da questo secco impluvio. Così seguendo il sinuoso alveolo del canale
raggiungo i prati in basso sino a ritrovare il sentiero 429, ma l’avventura non
è giunta a termine.
Pochi passi nel prato tra le due Slenze, il paesaggio è bucolico,
da far fantasticare anche a chi nei sogni non crede e non cede. Seguendo il
sentiero CAI, mi sposto a settentrione, ma pochi metri dopo i primi schianti mi
figurano un ritorno non proprio riposante. Rapito da uno insolito intuito,
decido di tagliare per boschi mirando in basso, tenendomi a destra del crinale
del monte e del Rio della Croce. Ad un tratto non riesco ad andare avanti, mi
sono smarrito e pentito della scelta: a destra ho delle esposte e infide pareti,
di sotto solo dirupi, mi sposto a sinistra, anche perché tornare indietro è improbabile.
Mi fermo, guardo in basso nella selva, e scorgendo i tratti
meno ripidi li seguo, zizzagando da destra a sinistra e viceversa, e cercando
nel terreno tracce di passaggio di selvatici animali.
A volte scorgo qualche traccia, per fortuna so leggere la
montagna e mi fido del mio istinto selvaggio, esso mi guida con sicurezza, come
se in un’altra vita fossi stato un lupo, eh si, sono convinto di esserlo stato.
Ultima indecisione, ma scorgo alla mia destra una traccia,
guado il rio ed eccomi percorrere un meno ripido terreno dentro il bosco. Stavolta
odo anche il rumore di un arnese che un umano adopera poco lontano, e tra i verticali
tronchi d’abete mi dirigo verso il suono, finché scorgo una carrareccia, un‘auto
con una ragazza all’interno, e poco più là un uomo a liberare con un
decespugliatore il tratturo dall’erbaccia. Ho sete, non lo nego, ho esaurito le
scorte, mi avvicino e chiedo sfacciatamente dell’acqua e delle informazioni. Il
ragazzo mi invita alla sua baita che dista solo cento metri. Dissetandomi con l’acqua carnica e del fresco
tè di pesca, instauro una veloce e affettuosa conversazione. Il generoso
ragazzo conosce l’ospitalità, manifestando al viandante come ci si deve comportare,
confermando l’animo munifico del grande popolo carnico.
Dopo essermi congedato, riprendo il cammino verso l’interno
della valle di Gleris, e visto che mi trovo all’imbocco della stessa, dovrò
camminare meno di un ‘ora. Purtroppo al causa del claudicare son lento, ma non
è un problema, lo spirito è al massimo, oggi di più non avrei osato sperare.
Poco prima dell’auto scorgo un camper, e da esso escono fuori due strane figure.
L’uomo è pelato e dal volto bruciato dal sole, la donna dall’aspetto teutonico si
muove con sensualità e dal volto somiglia ad un’attrice famosa, l’allegro
pensiero vola ad una poesia di Guido Gozzano “Il rimorso”. Scambio alcune
impressioni con l’uomo, poi mi avvio all’auto che dista solo pochi metri. Missione
compiuta! È stata dura, ma ce l’ho fatta. Mi riprendo con calma dalla fatica,
mi cambio gli abiti sudici di sudore. Dopo
essermi ripreso dalla fatica mi avvio lemme lemme per la strada del ritorno. Ripasso
per il camper, l’uomo sta disteso sull’amaca mentre la compagna ignuda cattura il
sole che sa di roccia, la dolce visione si sposa ai versi del cantore
dell’amore.
Esco dalla valle disegnata dal bimbo con una dolce
sensazione e una sicurezza “la vita è bella è va vissuta”, e chi non osa non
gode.
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
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