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mercoledì 1 maggio 2019

Cuel de la Bareta da Cadramazzo

 
Cuel de la Bareta da Cadramazzo                                

Note tecniche.



Localizzazione: Alpi Giulie

Avvicinamento: Lestans- San Daniele-Gemona- Moggio Udinese- Chiusaforte- Cadramazzo (sostare lungo la statalearea sosta)

Località di Partenza: Cadramazzo



Dislivello: 1100 m.





 Dislivello complessivo: 1120 m.





Distanza percorsa in Km: 15 chilometri.





Quota minima partenza: 400 m.



Quota massima raggiunta: 1522 m.



Tempi di percorrenza escluse le soste: 6 ore

In: Coppia.



 Tipologia Escursione: Storico -Naturalistica



Difficoltà:  Escursionistiche

Segnavia: CAI 619

Impegno fisico: Medio.

Preparazione tecnica: Bassa.

Attrezzature: No.


Croce di vetta: Si, ante cima

Ometto di vetta: Si.

Libro di vetta: Si.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:

Cartografici: IGM Friuli-Venezia Giulia – Tabacco 018.

Bibliografici:

Internet:

Periodo consigliato: maggio-ottobre

Da evitare da farsi in:

Condizioni del sentiero: Ben segnato e battuto.

Fonti d’acqua: Si.

Consigliati:

Data:  20 aprile 2019

Il “Forestiero Nomade”

Malfa

 
Racconto:

Confesso che ignoravo l’esistenza del Cuel de la Bareta, tantissime volte ho percorso in auto il Canal del Ferro, e mai ho puntato gli occhi in direzione della piccola elevazione, sicuramente distratto dai giganti attigui, i due colossi di roccia chiamati Cimon del Montasio e Montasio.

L’idea dell’escursione l’ho avuta dal buon Ilario Morettin, e soprattutto mi ha colpito la sua frase: <<Giuseppe, questo itinerario fa per te>>. Dopo una veloce ricerca di dati sul web, preparo la mappa e lo zaino, per l’avventura ho invitato Giovanna e Magritte, che hanno prontamente aderito con entusiasmo.

Il mattino seguente la giornata promette bene, il cielo è terso e la temperatura primaverile, quindi di buon’ora siamo per le strade della bassa friulana, dopo una mezzora di viaggio alla fatidica domanda di mia moglie: <<Hai preso i viveri?>> Rispondo con un colpevole <<No! ...zzo, li ho dimenticati.>> Nessuna tragedia, oggi ci nutriremo come scoiattoli, di semi, esattamente quelli di noce e mandorlo e berremo solo acqua naturale; naturalmente lo sfigato di turno sarà Magritte, che vegetariano non lo è mai stato, tanto meno vegano.

Arriviamo nella località Cadramazzo, lungo la statale che collega Moggio a Pontebba. Accosto l’auto in un piccolo spiazzo, pochi metri prima del ponticello sospeso che collega le due sponde del fiume Fella. Passiamo sulla sponda a sinistra dell’orografia, passando esattamente sotto i piloni dell’autostrada e seguendo una traccia tra la fiorente vegetazione selvatica. Il primo impatto non è bello, sui bordi dell’asfalto autostradale scorgiamo dei sacchetti di immondizia sfaldati e tanta incuria, il passaggio costante del genere umano è documentato in tutta la sua mestizia.

Un cartello nei pressi del piccolo borgo di Cadramazzo ci invita a seguire il sentiero 619, Cuel del la Bareta dista poco più di tre ore, traduco, almeno 1000 metri di dislivello. Il primo tratto è ripidissimo, con una lunga serie di serpentine scavate nella roccia. La mulattiera si erge velocemente, il tratto è anche esposto, tale che in pochi minuti dominiamo dall’alto l’autostrada e le automobili che la percorrono appaiono piccine come formiche. Raggiunto un pulpito panoramico, il sentiero, stavolta meno ripido cambia pendenza e s’inoltra nella valle fluviale scavata dal Rio Cadramazzo. Percorriamo il versante meridionale delle pendici del Cuel de la Bareta, la bella mulattiera di guerra con la sua dolce pendenza sale di quota dentro la lussureggiante pineta, più volte superiamo dei canalini torrentizi, poveri d’acqua, fino a incrociare in alto il sentiero 620 proveniente da Patoc.

La nostra meta è a sinistra del bivio, seguiamo le indicazioni per il Cuel de la Bareta, tra le fronde appaiono le vicine crete, sono impressionanti, ardite e dalle forme dolomitiche, sicuramente più complesse del sentiero che stiamo percorrendo.

Con una serie di anse all’interno del bosco di faggio, guadagniamo quota, raggiungendo la forcella che unisce il Cuel de la Barete con le pendici occidentali del Jof di Miezdi.

Il sentiero 619 scende sull’altro versante, esattamente nella Val Dogna, noi seguiamo le indicazioni di una freccia in legno apposta sul tronco di un faggio.  Mi guardo intorno e mi accorgo che mi trovo in un luogo tragico, non per il lontano conflitto mondiale, ma per la vegetazione. I sofferenti faggi a causa della costante esposizione ai fenomeni atmosferici hanno assunto forme antropomorfe, e dalle loro espressioni ne leggo il phatos.

 La sofferenza che provo si trasforma nella mia mente in una fantasia, una storia d’amore, quei due faggi avvinghiati tra loro li immagino come amanti, per un attimo mi ricordano i due draghi marini mandati dalla dea Atena a stritolare Laocoonte, lo sfortunato veggente e gran sacerdote Troiano.

I faggi non sono la trasfigurazione di personaggi mitologici, ma di due amanti, un soldato e una montanara.

Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale, per queste mulattiere marciavano i soldati italiani, con al seguito i muli che trasportavano vettovaglie e artiglierie.

Il confine dove si perpetrava il conflitto è poco più avanti, qui ci troviamo nelle retrovie, dove si ode solo il tuono dei cannoni. Nella pesta della mulattiera si incontrarono Marianute (Marianna) e Giovanni. Lei bella, mora, alpina, madre di due ragazzi, intenta a fare la portatrice per racimolare qualche soldo oltre le spontanee donazioni dei soldati più caritatevoli. Il marito di lei era un poco di buono, conosciuto in gioventù, lo sposò per fare un dispetto al proprio padre, che ne aveva intuito l’immaturità e la poca voglia di lavorare. Un legame di cui ella si pentì amaramente, soprattutto quando il brutale marito rientrava a casa ciucco, a tarda ora, dopo aver oziato nelle taverne di vicini borghi. Non era raro che la poveretta fosse anche picchiata, accusata ingiustamente di nefandezze, e a tutto ciò assistevano impavidi i bimbi. Come si suol dire nella lontana isola baciata dal sole” Curnuta e mazziata”

Lui, Giovanni, è un sottotenente di artiglieria, bel ragazzo, aspetto somatico e tempra da normanno, un idealista incallito. Da convinto interventista è partito volontario per la guerra, cresciuto a pane e libro Cuore. Carico di fulgore risorgimentale, credeva in una nazione unita sotto il tricolore, prima di scoprire il vero volto della guerra. Aveva completato gli studi a Palermo, laureandosi in lettere, sognava di errare, girando il mondo per terra e mare, finché scoppiò il primo conflitto mondiale che arrestò i suoi sogni. Cosa aveva colpito Giovanni della bella Mariane? La semplicità, la timidezza dello sguardo, la regalità dei modi malgrado le umili origini, la caparbietà nel lavoro, il carattere e la bellezza.

Ella, rispetto alle altre (portatrici e crocerossine) se ne stava spesso in disparte, non amava civettare con i militi, si distingueva dalle altre donne, che spesso per schiamazzo e ilarità superavano lo strepitio delle mitragliatrici. Aveva un grande sogno, un principe, azzurro, nero o rosso non conta, un principe che la rapisse e la portasse via da quella terra, lei e la sua prole. Come l’Araba Fenice, ogni mattino risorgeva con nuovi sogni, intatti e trasparenti come calici di cristallo.

Un giorno Mariane e Giovanni si incrociarono per caso, si proprio sulla sella tra i due monti, si fissarono, e venne naturale prendersi per mano, perdersi, senza badare ad altri o a un Dio.  Si amarono, distesi dietro i due faggi a mezzodì, all’ora che nulla si può celare. Erano belli, giovani, e tra l’erba ingiallita dal sole consumarono il tempo donato dall’amore. Non vi fu pudore! Perché doveva comparire? Non era bastato il dolore provato per giorni, mesi, anni, e i lividi segnati sulla pelle della bella? Il pudore non può giustificarsi a un rapimento d’amore. Nemmeno a Giovanni bastarono le principesse bramate sui libri, solamente sognate, malgrado l’apparente libertà della cultura. E quel volto, visto solo di notte, trasparire dalle ombre della luna, senza sapere che inflessione avesse? La passione giustifica i due corpi che si fanno uno, rapiti dal sogno in un’unica anima. Nell’amplesso, finalmente più non udivano i colpi dei cannoni, né le voci dei soldati intenti a trasportare le salmerie o le risa prosaiche delle comari.

Mariane e Giovanni sentivano solo l’amore, rapiti come Eros e Psiche, lasciando agli umani l’erratico pensiero del quotidiano vivere.

Non so quanto durò il rapimento dei sensi, so solo, che si rivestirono e divisero, dandosi un arrivederci e un ultimo sguardo: << A presto amore>><<A domani!>> <<Si a domani, ti penso.>> <<Anch’io.>> <<Come ti chiami? Io Giovanni.>> <<Io? Mariane…Marianute.>> E così fissarono un arrivederci, non sapendo che la stessa notte sarebbe scoppiata l’offensiva austroungarica.

Era il 24 ottobre 1917, Giovanni e il suo reggimento in rotta, lasciarono le postazioni, lui impazzì, ma non sapeva dove risiedeva il suo amore. Mariane, come tutta la popolazione civile, iniziò il lungo esodo verso il Veneto, lei, i suoi figli e il bruto.

La bella, durante la lunga fuga, guardava i soldati cercando nei loro volti il bel normanno dall’accento strano e gentile. Giovanni purtroppo morì, cadde sul fronte l’anno seguente, sulle rive insanguinate del Piave, durante l’ultima e vincente controffensiva. Fu colpito alla fronte da un proiettile disonesto, la pallottola ne spense la vita ma non il sogno, nel suo ultimo sguardo da morente fu sorridente, spirò con il volto della sua bella impresso nell’iride azzurro, che specchiava i colori del cielo, del mare e dell’amore. Mariane ritornò nella sua terra, e dopo qualche anno sulla sella.  La sella dell’amore, tornò per falciare il grano, riconobbe il giaciglio che aveva visto nascere per un solo giorno il suo unico e vero amore. Dal giaciglio nacquero due faggi, tanto vicini, e anno dopo anno, sempre più vicini, finché aiutati dal vento si avvinghiarono in un intenso abbraccio. Al soffiare del vento tra le fronde si odono delle voci che si propagano nella valle:<< A presto amore>><<A domani!>> <<Si a domani, ti penso.>> <<Anch’io.>> <<Come ti chiami? Io Giovanni.>> <<Io? Marianute… Mariane.>>.

Mariane visse a lungo, diventò bisnonna, mai nessuno seppe del suo amore, solo i monti ne serbano il segreto. I due faggi continuano a crescere, con i rami accarezzati dal vento e protesi verso il cielo, in attesa di un nuovo amore che li liberi per dare loro finalmente una dolce morte.



Con la mente confusa dalla struggente fantasia, proseguo per la vetta, passando prima presso i ruderi di una fortificazione, sicuramente un comando militare, infine raggiungo la crestina che ci porta alla meta di oggi, ovvero l’ante-cima e la cima.

Poco sotto la massima elevazione noto un’apertura artificiale, è la galleria scavata sotto la vetta, che visiteremo dopo con l’ausilio della torcia frontale.

Tra l’ante-cima e la cima ci sono una serie di costruzioni militari: l’ante-cima è caratterizzata da una piccolissima croce lignea, mentre la cima da un tondino d’acciaio e dalla forma attorcigliata, sicuramente risalente al periodo bellico e posto a simboleggiare la massima elevazione.

Annesso al simbolo di vetta una cassettina in metallo contenente il libro dei visitatori. Poco prima si passa da un tavolo e una panca costruiti con tronchi d’albero che invitano a una pausa ristoratrice, memore di aver lasciato i viveri a casa, questa visione mi sembra una presa in giro. Adagiamo gli zaini presso il tavolo e ci concediamo alla contemplazione. Il paesaggio è a dir poco fantastico, dal vicino Montasio fino alle lontane catene montuose, siamo letteralmente in paradiso, e devo ammettere che la vetta è una onesta ricompensa, soprattutto dopo aver percorso il lunghissimo sentiero che più di una circostanza si è rivelato tedioso.

Ci prendiamo tutto il tempo che vogliamo, Magritte astutamente decide di stazionare sotto il tavolo, per usufruire della frescura dell’ombra. Noi umani ci concediamo alle carezze del sole, che oggi scalda parecchio. Superato il lungo periodo di permanenza si riprende la via del ritorno, ma prima visitiamo le gallerie, proprio sotto la cima. Il gigantesco scavo sicuramente ospitava un reggimento di artiglieria. Una volta lasciate le opere belliche, riprendiamo il sentiero, lungo, ma tanto lungo, fino a raggiungere il punto di partenza.

Raggiunta l’auto ci apprestiamo per il rientro, lasciando l’ombrosa valle del Fella, che si apre alla pianura.  Soddisfatti si rientra a casa, con una cima conquistata e una nuova esperienza da raccontare.

Il Forestiero Nomade.

Malfa
























































































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