Monte Plananizza (1554 m.) e Jof di Chiusaforte (1295 m.) da
Chiusaforte.
Racconto.
Con l’avvicinarsi della partenza che mi terrà lontano dalla
terra adottiva decido di chiudere in bellezza il lungo periodo di peregrinare
per sentieri. Come compagno di viaggio mi avvalgo del mitico Roberto e l’infaticabile
Magritte, lasciando l’onore della scelta della meta all’amico. Roberto decide
per il Plananizza, da tempo me ne parlava, è un suo vecchio cruccio,
soprattutto perché l’ha sempre affrontato nel periodo invernale; deciso
l’obiettivo, prepariamo l’escursione studiando l’itinerario.
Arriva il giorno della partenza, l’appuntamento è prefissato
nello spiazzo antecedente il Fungo (bar-pizzeria), nei pressi di Gemona. Siamo
fortunati, la giornata fa ben sperare rispetto alle previsioni meteo, un cielo
azzurro leggermente velato ci dà il buongiorno, indirizzando i nostri desideri
nella Val Canale del Ferro.
Dopo pochi minuti
d’’auto raggiungiamo la piccola località di Chiusaforte, lasciando l’automezzo presso
la fontana contrassegnata da un bassorilievo raffigurante il leone alato della
Serenissima (q.373 m). Una volta approntati si parte, passando davanti lo
storico edificio appartenuto alla famiglia Zanier, alla sinistra di
quest’ultimo e al margine di una cantoniera un ramo di vite dalle forme
antropomorfe ci invita a seguire il sentiero CAI 425.
Il vecchio troi sin da subito è ben marcato e anche curato
di recente. Dopo aver attraversato la vecchia ferrovia (pista ciclabile) inizia
l’anello che percorreremo, la prima vegetazione che incontriamo è un fitto boschetto
di noccioli, chiaro monito di prestare attenzione a non prendere zecche. Il
sentiero antico ha il suo fascino, taglia le pendici meridionali del monte fino
alla cappella di S. Antonio posta a 650 metri di quota. Attraversiamo
molteplici e rigogliosi rivoli. La musica dello scorrere dell’acqua si amalgama
al canto mattutino degli uccelli, è piacevole ascoltare questa sinfonia. Una
salamandra intenta a mimetizzarsi tra i fili d’erba ci taglia la strada,
stavolta non mi fermo a dialogare, ne incontrerò una seconda poco più avanti.
Raggiunta la cappella di S. Antonio per sentiero con numerazione 426, effettuiamo
la prima di una numerosa serie di pause dedite alla contemplazione del
paesaggio.
Immersi nel bosco di pino nero risaliamo per tornanti,
passando sotto la parete rocciosa che ci incute timore. La pendenza finora abbastanza
sostenuta si fa lieve, attraversiamo la faggeta fino a raggiungere il prato
antistante il bivacco Stavoli Ceresarie (q.734 m). La struttura è privata, ne ammiriamo
le fattezze per poi procedere per il sentiero a nord con una pendenza costante.
L’abbondanza d’acqua che fluisce nei numerosi canali non è
solo dovuta alle recenti piogge, ma bensì all’innalzarsi della temperatura che
influisce sullo sciogliendo delle nevi a monte.
È impossibile sottrarsi al fascino della magica visione di
una cascata, le acque provenienti dal salto si dissolvono nella fossa sottostante,
la freschezza che si respira nell’aria inebria questo angolo di paradiso. Con
l’innalzarsi di quota la vegetazione è meno fitta, inizio a scorgere il profilo
del monte Jof di Chiusaforte, che gambe permettendo sarà la nostra seconda
meta.
Giunti presso la forcella Patok (quota 1140 m.), adombrata
da fitta vegetazione, effettuiamo una sosta per poi ripartire seguendo le
indicazioni apposte su rustici cartelli avvitati ai tronchi della vegetazione.
La nostra meta è il Plananizza, sorridenti ed entusiasti diamo
l’assalto alla fortezza. La bellissima mulattiera non ha più la numerazione e i
segni CAI, ben marcata procede da est a ovest, con moderata pendenza,
affacciandosi come un balcone sul bellissimo paesaggio alpino friulano. Tra le
catene montuose ammiriamo la lontana Alta Via di Gemona, la catena dei Musi e
il massiccio del Canin; montagne che sono interamente ricoperte di neve dai
millecinquecento metri in su. È un vero spettacolo, un’apoteosi di bianco, con
l’amico Roberto ci dilettiamo a riconoscerle nominandole. Una montagna spicca tra tutte ed è il regale Cimon
del Montasio, con il suo candore intimorisce i più bassi rilievi.
L’escursione, attimo
dopo attimo, grazie alla bella giornata diviene ancora più divina, andando
oltre le più rosee previsioni. Dopo una piccola serie di tornanti, con un lungo
traverso percorriamo un’area leggermente impervia e affascinante per via del
terreno instabile e delle spelonche che si aprono nella roccia. Finalmente giungiamo
presso la forcella che delimita il versante orientale da quello occidentale e
con essa la prima neve.
Saggiamente dopo aver effettuato l’ennesima sosta indossiamo
le ghette, e quindi procediamo per la nostra meta che dal luogo dove ci
troviamo appare incantevole come un castello medievale. L’istinto da spiriti liberi sarebbe quello di
cavalcarne la cresta che appare totalmente sgombra da neve, sfruttando i
passaggi più abbordabili per spingersi in vetta. Dai sogni passiamo ai fatti,
procedendo per la traccia che attraversa il bosco di faggi nel versante
occidentale. Il sentiero spesso sparisce sotto una coltre di neve, su alcuni
tronchi e massi notiamo dei bolli rossi, li seguiamo, la debole traccia supera
un salto dove conviene tenersi ai mughi per sicurezza.
All’improvviso il passaggio
è sbarrato da mughi franati per via della neve, sotto di essi intravedo quello
che rimane del sentiero, è inutile pensare a cosa fare, meglio agire. Con Roberto
e il fido Magritte, tenendoci ai mughi che adoperiamo come corde ci caliamo di
alcuni metri, superando l’ostacolo. Fatta! Ma non è finita, Roberto conoscendo il versante mi precede,
confermando la sua predisposizione per lo scoutismo.
Con il terreno ricoperto di neve è impossibile scovare
tracce, radi bolli sui massi ci guidano, siamo coscienti di attraversare un
terreno impervio. Effettuando un’ampia ansa da nord a sud speriamo di trovare
il versante orientale sgombro, ma è una pia illusione, ravaniamo fino a quasi
sotto la cima, affondando spesso anche di un metro nella neve che copre gli
insidiosi mughi. Gli ultimi metri che precedono la vetta sono difficoltosi, la
traccia labile si perde spesso nella fitta mugheta, e dietro di essa intravvediamo
le antenne del ripetitore. Ci siamo! Pochi metri ed è fatta. In prossimità
della struttura artificiale con le antenne invito Roberto ad andare avanti,
l’onore della conquista spetta a lui. Lo osservo, è galvanizzato e
ringiovanito, i 1200 metri di dislivello si sono dissolti trasformando le sue
apprensioni in sorriso. Di seguito lo raggiungo davanti la piccola croce in
legno che simboleggia la cima per noi fedeli della montagna (quota 1554 m.). Mi
spingo più in là con lo zaino, sul punto più panoramico, adagiando per terra anche
quello dell’amico. Pianto i bastoncini nell’erba, Magritte si accuccia vicino
ad essi. Mi guardo intorno, ammirando la bella cresta delle alte cime del moggese,
tra cui spicca lo Zuc dal Bor, esse sono totalmente imbiancate. Mi giro verso Roberto,
egli è intento, come sono i bimbi che giocano sulla spiaggia con il secchiello,
a sistemare un barattolo tra i sassi
dell’ometto di vetta; all’interno c’è il simbolo della Montagna per spiriti
liberi e soprattutto la firma del suo passaggio. Ho avuto l’onore di veder il
volto di un uomo quando raggiunge l’agognata meta, terrò quell’espressione in
serbo. Il vero uomo non abbisogna di eclatanti imprese o grandi cime per essere
autentico, basta anche un nome sconosciuto ai più, e soprattutto non si vanta di
saper fare il difficile quando si è incapaci di vedere il vero. Io mi rifletto
in Roberto e vedo cieli azzurri e sentimenti sinceri, ognuno è libero di
specchiarsi dove vuole per immaginare una realtà che non può mutare.
L’escursione non è finita, ci aspetta il ritorno a ritroso
fino alla forcella, dopo potremo dire di avere il gatto nel sacco (Trapattoni docet).
A ritroso lasciamo l’agognata cima, ci muniamo di ramponi per evitare le brusche
cadute, fortunatamente tutto fila liscio, e senza patemi raggiungiamo la
forcella.
Effettuiamo una sosta, stavolta deliziandoci con frutta
fresca ricca di potassio. La seconda meta è lo Jof di Chiusaforte, dalla
forcella Patok sembra che disti solo a uno sputo di lama, ma tra il dire e il
fare per rimanere in tema c’è la montagna. Raggiunta la forcella intuisco a
cosa è dovuto il risolino che Roberto fino a pochi minuti prima mi mostrava
amichevolmente commentando la mia frase: << lo Jof di Chiusaforte? Ce lo beviamo!>>
Subito dopo dalla forcella, con una rapida partenza affrontiamo
un prato ripidissimo, tale da spaccare immediatamente le gambe, la fatica
diminuisce con l’avvicinarsi della faggeta. Effettivamente la contropendenza in
alcuni casi può essere letale, ma siamo
allenati, con un bel traverso a meridione raggiungiamo l’ampia cresta dello Jof
di Chiusaforte (quota 1295 m.).
Seminascosta, tra
roccette e un mugo, è posta la cassetta in metallo dove è riposto il libro di
via dedicato a Gina. Dalla cima
ammiriamo il monte Plananizza conquistato in precedenza e nel cielo volteggiano
i temerari del parapendio, la giornata si mantiene splendida, finalmente
possiamo dedicare tempo al ripristino di energie.
Con il Cabernet brindiamo alle recenti conquiste e alla vera
amicizia, che con il passare delle avventure si rafforza. Il pranzo si chiude
con la buonissima torta di mele cucinata per l’occasione da Marina, la dolce
consorte di Roberto. Per completare l’opera dovremmo dedicare del tempo al
pisolino (quello che fa il buon Magritte), ma non possiamo e quindi ci
asteniamo. Ci attende una lunghissima discesa, ben 900 metri di ripido
dislivello.
Zaino in spalle si parte, seguendo dei vistosi e numerosi
segni rossi, sparsi tra paletti, rocce e vegetazione. La direzione della discesa è a oriente, e da subito
si rivela ripidissima, tale da farci rimpiangere di non aver calzato i ramponi.
Spesso ci aiutiamo con la vegetazione, aggrappandoci ai rami per non incorrere
in bruschi scivoloni. Dopo alcune centinaia di metri si entra in un fitto bosco
della pineta, rasentiamo gli stavoli Pineit e usciamo fuori sentiero di un centinaio
di metri per visitare un rudere restaurato.
Ripreso il cammino, per mezzo dei vistosi bolli rossi, percorriamo
la lunghissima diagonale che per esile traccia taglia il versante orientale del
monte a tratti leggermente esposta. La sete si fa sentire, con Roberto e
Magritte ci dividiamo le ultime scorte idriche sperando nell’avvicinarsi di
Chiusaforte, che tanto vicina non pare! Una lunghissima serie di tornanti ci
accompagna nei pressi della bucolica località chiamata Raunis (quota 560 m.), e
chi non volesse credere nei miracoli, abbia fede nella buona sorte nel vedere
una fontana che zampilla acqua in modo fragoroso. Come i viandanti nel deserto
in preda alla sete, lo stesso noi, lanciamo in aria gli zaini avventandoci sul
sacro liquido che sgorga dalla magica fonte. Messe da parte le convenzioni e le
buone maniere tutti e tre ci dissetiamo per poi saziarci e riprendere decoro.
Ripreso un aspetto dignitoso ci dedichiamo alla contemplazione del piccolo
borgo. Decido di lasciare Magritte di guardia alle proprietà (zaini e
bastoncini) mentre noi si va a visitare le strutture, ma Il disubbidiente fido
non ci sta, si accoda a noi con l’entusiasmo di un novello scout. Si sale per prati e scalini fin su la piccola
chiesetta dedicata alla Beata Vergine “Rosa Mistica” costruita dal laborioso
friulano Giovanni Pesamosca più di un secolo fa. Rispetto e reverenza merita il
lavoro dedicato alla fede, qualsiasi essa sia. Rifocillati e con risorse
idriche indicanti il pieno, ci avviamo per l’ultimo tratto della nostra
avventura. Udiamo dall’alto il frastuono della civiltà, presso una casetta
periferica un cagnetto di piccole dimensioni ci dà il benvenuto abbaiandoci,
per poi zittirsi in silenziosa riverenza riconoscendo nel trio di viandanti uno
dei suoi miti a quattro zampe. Poco sopra il paesello veniamo fermati da una
coppia di austriaci che risale la carreggiabile, ci chiedono informazioni sul
sentiero che abbiamo appena effettuato. La conversazione scivola velocemente e simpaticamente
nella briosità, ci invitano a bere giù in paese. Tra gli spiriti liberi
l’empatia è naturale, ma decliniamo l’invito. Negli ultimi metri
dell’escursione attraversiamo il borgo di Chiusaforte, sbucando presso la
fontana con il leone alato della Serenissima. L’escursione è terminata, siamo sani
e salvi anche questa volta, consapevoli che non abbiamo compiuto nessuna impresa.
Roberto e io siamo viandanti, che consumiamo le suole degli scarponi per
sentieri che qualcuno può definire facili, questo non ci tocca, come fu scritto
sulla tomba di Charles Bukowski “…Non provarci ma fai! Perché se perdi tempo a
provare a fare qualcosa, vuol dire che non la stai facendo"
Deliziati ed entusiasti dell’avventura ci avviamo verso il primo
locale per suggellare dietro un bicchiere il concludersi di una entusiasmante
passeggiata, con due montagne conquistate e una storia da raccontare.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa.
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Carniche
Avvicinamento: Gemona- la
strada statale n.13 Pontebbana, all’altezza a Chiusaforte si entra a sinistra
nel paese. Sosta nella piazzetta con fontana proprio di fronte alla casa Zanier,
quota 373 m.
Località di Partenza: Chiusaforte
Dislivello: 1300 m.
Dislivello
complessivo: 1350
Distanza percorsa in Km: 13.
Quota minima partenza: 373 m.
Quota massima raggiunta: 1554 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore
In: Coppia.
Tipologia escursione:
Escursionistica naturalistica.
Difficoltà: Escursionisti Esperti.
Segnavia: CAI 425; 426: bolli rossi sul sentiero che scende
a oriente su Chiusaforte.
Impegno fisico: Notevole, soprattutto nel versante
occidentale per via della neve e del sentiero selvaggio.
Preparazione tecnica: Medio alta.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: Si.
Ometto di vetta: No.
Libro di vetta: Si, impiantato un barattolo sulla cima Plananizza
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1)
Cartografici: Tabacco 018.
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo consigliato: Primavera-Autunno.
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: Ben segnato, poco marcato in alcuni
tratti.
Fonti d’acqua: Molteplici fonti.
Consigliati:
Data: 14 aprile 2018
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Chiusaforte
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