Monte
Schenone 1950 m. da Malga Poccet.
Note tecniche.
Localizzazione:
Alpi Giulie.
Avvicinamento: Gemona-Moggio-Risalendo il Canal del Ferro lungo la
statale 13, Pontebbana bivio per Pietratagliata (comune di Pontebba),
attraversare il nuovo ponte sul Fella cartello per la strada di malga Poccet.
Seguire la carreggiabile fino alla malga Poccet (m 1362)
parcheggio poco più avanti presso un tornante.
Dislivello: 650
m
Dislivello
complessivo: 700 m.
Distanza
percorsa in Km: 10 km.
Quota minima
partenza: 1362 m.
Quota
massima raggiunta: 1950 m.
Tempi di
percorrenza. Con neve e percorso libero 5 ore.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione: Selvaggia.
Difficoltà: Escursionisti
esperti.
Segnavia:
CAI 601.
Fonti
d’acqua: Si, ruscelli.
Attrezzature:
Nessuna.
Croce di
vetta: Si.
Libro di
vetta: Si.
Timbro di
vetta: Si.
Cartografia
consigliata: Tab 018.
Periodo
consigliato: giugno-ottobre.
Condizioni
del sentiero: Ben segnato e marcato.
Data: 01
aprile 2017
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa
Relazione:
Le montagne intorno a Pontebba conservano ancora
dopo cento anni i ricordi e le ferite della “Grande Guerra”. È facile
imbattersi in camminamenti, postazioni, targhe commemorative durante le
escursioni, gran parte della sentieristica delle alpi orientali è di matrice
bellica. La meta scelta per questa escursione è monte Schenone, una cima che
domina la val Dogna, posta sulla naturale prosecuzione della dorsale che dallo
Jof di Miezegnot, passando per il monte Piper e i due Pizzi porta fino
all’estremo occidentale del Jof di Dogna. Questa lunga dorsale durante il primo
conflitto mondiale era munita di una serie di manufatti militari comprese postazioni
per batterie (artiglieria). Essa costituiva il baluardo di difesa italiano opposto
alla linea difensiva Austro-Ungarica che occupava le cime dirimpettaie. Paradossalmente,
nel settore alpino, malgrado le notevoli fortificazioni e il cospicuo
armamento, le vittime tra i belligeranti furono più per cause naturali (gelo,
valanghe e slavine) che per armi da fuoco. Le mie escursioni, soprattutto nell’ultimo
periodo, mi hanno portato a ripercorrere le vecchie mulattiere di guerra, un
modo romantico di rivivere la storia visitando i luoghi della Grande Guerra,
rivivendo gli episodi bellici, e perché no? Fantasticando anche storie immaginarie,
viaggiando a ritroso nel tempo,
percependo lo spirito dei soldati. Monte Schenone è un altro tassello
che aggiungo a questa serie di avventure nelle alpi friulane e allo stesso
tempo è un viaggio introspettivo, che spero faccia di me un uomo migliore. Come
sempre lo zaino e i materiali sono pronti da giorni, finalmente arriva il
sabato mattino. Il meteo annuncia che il cielo non sarà lindo, ma non dovrebbe
piovere. Si parte con il fido Magritte per la nuova avventura. Oggi avrò grazie
all’ora legale un’ora in più di luce, questo mi permetterà di godermi di più
l’escursione. Arrivo a Pietratagliata nelle prime ore del mattino, con cautela
percorro la stretta carreggiabile che con una lunga serie di tornanti risale il
ripido pendio boschivo del monte Poccet fino a raggiungere l’omonima malga.
Intuisco dal percorso che la stradina è opera dei genieri militari. Arrivato
alla Malga, visito la struttura, sulla parete noto una targa “97esima compagnia
del Battaglione Monte Canin dell’8° Alpini”. L’edificio durante il conflitto
ospitava un comando militare. Poco sopra la malga presso un ampio tornante
trovo un comodo parcheggio. La giornata è calda con cielo velato, alcune nuvole
all’orizzonte fanno presagire che l’azzurro non regnerà sovrano. Indosso gli
scarponi e le ghette, portandomi al seguito le ciaspole, presagisco che mi
saranno utili. Zaino in spalle e Magritte e sogni al seguito si parte. Poco
sopra il tornante, a destra su un albero è posta una piccola targhetta CAI con
la scritta “Jeluz-Schenone”, essa segna l’inizio del sentiero che taglia il
bosco di conifere, ricollegandosi in alto con la carreggiabile, che nel
frattempo è diventata carrareccia (manto stradale dissestato). Pochi metri di
dislivello ed eccomi nell’ampia cresta che collega il monte Poccet al Monte
Agar, la percorro per comoda carrareccia che dopo pochi metri trovo coperta da
neve. Passo davanti la bella casera -rifugio di Jeluz, la visiterò al ritorno.
Inoltrandomi e seguendo a meridione le tracce, constato che lo spessore della
neve con il salire di quota aumenta considerevolmente, decido di indossare le
ciaspole, e proseguire con meno patemi. Alla mia destra in alto scruto le verticali
pareti del versante settentrionale dello Schenone. Presso un tornante la
traccia si biforca: la carrareccia prosegue a sinistra e il sentiero CAI per lo
Schenone va a destra. Seguo la direzione per quest’ultimo, prima attraversando
un’ampia distesa sempre innevata, e successivamente risalendo il costone che mi
porta presso la forcella posta tra il Clap di Jovel e le pendici orientali dello
Schenone. Risalgo gli ultimi metri, avendo la brutta sorpresa di trovare anche neve
sul versante meridionale, cosa che speravo di scongiurare. Il manto nevoso è
molto profondo, raggiunge anche il metro. La situazione non è positiva e né
stimolante. Provo a proseguire per lo Schenone, cercando di intuire una
direzione logica, ma ad ogni passo affondo, provo ad aiutarmi con i mughi. Per
un tratto proseguo, cercando di risalire il canalone innevato, ma non è
un’ottima idea. Il sentiero coperto dal nevaio prosegue in diagonale, da
lontano avvisto la forcella dove confluisce il sentiero. Ma l’immenso nevaio
copre tutto, e non so cosa mi aspetta oltre la forcella. Decido di ritornare
indietro, osservo i colli ad oriente, rassegnato penso di cambiare itinerario.
Ma la vocina interiore (il lupo) mi invita a voltarmi indietro e guardare in
alto, dove la roccia è priva di neve e la presenza dei mughi è una tentazione.
Follemente cedo al peccato, decidendo di tentare l’impresa. Lascio Magritte,
con lo zaino, al sicuro sotto un abete e parto per l’avventura. Porto al
seguito soltanto i due bastoncini telescopici e i ramponi a sei punte. Stavolta,
sono deciso e miro alle pareti rocciose dello Schenone. Aiutandomi con i mughi
salgo i primi metri di dislivello, fino a raggiungere la base della cresta,
dove con perizia seguo le balze erbose e gli appoggi utili nella roccia.
Guadagno velocemente quota, cerco di memorizzare alcuni passaggi, utili se al
ritorno dovessi scendere per la stessa direzione. Salendo attraverso alcuni
nevai, la neve è meno profonda e sempre per rocce e balze erbose raggiungo un
crinale esposto a occidente, arrampicandomi ad esso con passaggi di primo grado.
Superato il primo punto critico, a sinistra mi trovo una parete esposta a
occidente. Mi porto sull’esile filo di cresta di quest’ultima spostandomi a
sinistra, affiancando la parete meridionale. Percorro un tratto anch’esso molto
esposto, coperto da una lingua di neve che sovrasta un esile cengia. Aiutandomi
con gli appigli sulla paretina, con cautela, passo dopo passo (tastando gli
appoggi) supero l’ostacolo, sperando che sia l’ultimo. L’adrenalina cresce
vertiginosamente, raggiunto il secondo tratto, mi rendo conto che mi sto
impelagando in una brutta avventura. Mi tengo aggrappato ad uno sparuto mugo,
trovandomi in una situazione difficile da gestire. Provo a salire sopra la
paretina friabile, ma il terreno è sdrucciolevole (cadono pezzi mentre salgo) e
non saprei dove tenermi. Vista la verticalità, ridiscendo con cautela, sempre
tenendomi al provvidenziale mugo (da santificare), mi studio il proseguo a
destra, che mi appare più problematico del precedente (secondo grado su parete
friabile). Indietro non posso tornare, rischierei di più. Penso! <<Calma,
e sangue freddo.>> E continuando nel pensiero, esclamo. << Ca… mi
sono incrodato! O chiamo il soccorso alpino (cosa che non desidero), o trovo
una soluzione!>> Ritorno a salire, stavolta un passo alla volta, mi fermo
un metro sopra il mugo, studio la situazione: ci sono quattro metri da superare
in sicurezza. Allora procedo, creando con le mani degli appoggi, smuovo dei
sassi, così creo degli incavi. Passo dopo passo, con cautela, risalgo l’esposto
punto, gli ultimi metri sono iper-adrenalinici, il cuore va a mille. Mi
appiglio ai piccoli spunti di roccia (sono tremendamente instabili), sperando
nella loro tenuta. Uscito dal tratto esposto, mi ritrovo nel ripido pendio,
sempre ripidissimo, ma almeno posso respirare. Con calma proseguo, cercando
appoggi sicuri e camminando quasi sempre con le mani per terra. Mi fermo di
tanto in tanto presso qualche raro mugo o zolla erbosa, più salda delle altre.
La cresta è vicina, con un ultimo traverso nel ghiaino raggiungo l’inerbito
costone, dove mi aiuto tenendomi aggrappato ai ciuffi d’erba e piantando bene i
ramponi. Finché raggiunta la cresta effettuo un lungo respiro, così scarico la
tensione. Il sentiero non passa dalla
cresta, ma poco più sotto, decido di proseguire lungo l’inerbito filo di
cresta. Raggiunto il vertice estremo vengo bloccato da una fitta mugheta,
ritorno indietro calandomi per un canalino, fino ad incrociare la comoda
mulattiera di guerra. Effettuo una breve sosta, ammirando le pareti meridionali
dello Schenone. Una lingua di neve disegna la mulattiera che zizzagando lo
percorre, riesco a vedere la croce di vetta, la meta è vicina. Percorro con
emozione quest’ultimo tratto, passando per una piccola forcella, seguendo la
bella traccia scavata nella roccia. Alcuni tratti sono suggestivi, l’emozione è
forte, tale da farmi dimenticare le fatiche appena compiute. Sono estasiato e mi
godo l’avvicinamento. Seguendo l’imbiancata mulattiera raggiungo i resti di una
postazione militare e subito dopo la cima dello Schenone, materializzata da una
croce. La visione dalla vetta è ampia, spazia su tutte le alpi Carniche e
Giulie. Leggendo il libro di vetta constato che l’ultimo visitatore risale a metà
dicembre dell’anno scorso, la cima non ha molti frequentatori. Il paesaggio è
grandioso, rovinato solo dalla velatura di alcune nuvole di passaggio. Mi
concedo attimi di riflessione, per poi riprendere il cammino del ritorno. Presso
i ruderi sotto la cima scorgo qualcosa di colorato, è una bandierina tricolore
adagiata sulle rocce. La raccolgo, e nel medesimo istante sento una voce, un
ordine, Imperativo! <<Tutti attenti!>> Inconsciamente mi metto
anch’io sugli attenti, reminiscenze del passato, osservando la scena che sto
descrivendo. Mi trovo dentro una postazione di artiglieria, cannone calibro
75/27 e tante granate, e tutto intorno il personale addetto all’artiglieria. Il
responsabile, il capopezzo è un sergente, carnico, della Val Pesarina. Egli si chiama
Giovanni Martin, è alto, biondo, occhi azzurri, nella vita fa il boscaiolo, ma
vorrebbe studiare e girare il mondo. Egli ha molto carisma, e spesso è
circondato dai suoi commilitoni. L’attenti è stato dato dallo stesso sergente
al sopraggiungere del capitano comandante della batteria (compagnia). Il
capitano ispeziona l’assetto formale della truppa e lo stato di manutenzione materiali.
L’ufficiale rimane soddisfatto, congratulandosi con il sottufficiale.
<<Bravo sergente, complimenti, il tuo pezzo è uno dei migliori
dell’intero Gruppo, continua così.>> Il capitano accompagnato dal sottotenente,
comandante della sezione (plotone) abbandona il sito, per andare ad ispezionare
altre postazioni. Il sergente, ha un carattere rude, deciso, è un idealista,
per difendere un amico e i suoi uomini si farebbe tagliare un braccio. Dotato di
animo coraggioso, teme solo l’ipocrisia del genere umano. Mi intrattengo,
ascoltando la conversazione del sottufficiale con un soldato “il caporal
maggiore Alessandro Di Francesco “, bravo quanto lui al pezzo. Quando
all’improvviso sento il sibilo di una granata. <<Tutti a terra, tutti a
terra!.>> Grida il sergente, la granata esplode poco sotto la postazione,
facendo più trambusto che danni. Per alcuni minuti si ode solo il silenzio, interrotto
solo dal fischio dell’artigliere Enrico Manfredini che intona un motivetto, conosciuto
a molti, soldati e non, e il resto della squadra lo accompagna con il
canto.
<< Sul
cappello, sul cappello che noi portiamo
c'è una lunga, c'è una lunga penna nera,
che a noi serve, che a noi serve di bandiera
su pei monti, su pei monti a guerreggiar.
c'è una lunga, c'è una lunga penna nera,
che a noi serve, che a noi serve di bandiera
su pei monti, su pei monti a guerreggiar.
Oilalà! …
Commosso, ho i brividi
per l’emozione. Riprendo l’escursione, continuando a fischiettare il motivetto
degli alpini e ripercorro a ritroso la comoda mulattiera, superando il tratto
dove mi sono congiunto con il percorso. Per il ritorno seguo il sentiero naturale
segni CAI sulle rocce. Raggiunta la forcella, titubante, scendo per il nevaio,
lo spessore della neve è di ameno un metro. Creo una diagonale sul manto
nevoso, mi abbasso con cautela, passo dopo passo. Il primo tratto è molto esposto
su uno strapiombo, il successivo è ancora peggio. Mi ritrovo al vertice di un
verticale e impressionante nevaio, devo scendere in basso, ma è pericoloso. Mi viene
un’idea, sgancio dai bastoncini telescopici le rondelle utilizzate per la neve,
conservandole in un taschino. Procedo conficcando i bastoncini nella neve per
tutta la loro lunghezza, così mi creo una sicurezza. Naturalmente scendo con la
parte anteriore del corpo protesa verso la neve, pensando a una delle regole
base dell’alpinismo” Come sali devi scendere”. Così facendo oltre a crearmi una
sicurezza, procedo lesto, perdendo velocemente quota fino a raggiungere il
mugheto posto in basso. Una volta raggiunti i mughi li adopero come corde, scendendo
con cautela fino a raggiungere la base del nevaio. Guardando a oriente osservo
più o meno da dove sono partito, mi mantengo in quota e con una lunga diagonale
procedo verso la forcella da dove ho iniziato l’ascesa. Il lungo traverso è
faticoso, stavolta, inserisco una rondella in uno dei due bastoncini, l’altro continuo
a usarlo come piccozza, procedo lesto, avvistando le tracce lasciate dal
sottoscritto e Magritte poche ore prima. Raggiunte le impronte, le ricalco fino
a scorgere lo zaino. Chiamo Magritte, ma non da nessun segno, non si muove, mi preoccupo.
Mi avvicino sempre di più finché non scorgo la testolina muoversi, l’eroico
cagnetto si era appisolato. Magritte scodinzola, contento di vedermi, e io sono
felicissimo di rivederlo, lo abbraccio, lo accarezzo. Indosso lo zaino e con
l’amico a quattro zampe al seguito mi sposto verso il monte Piccolo, alla
ricerca di una zolla d’erba priva di neve, dove poterci sollazzare. Raggiunte
le pendici occidentali del monte Piccolo, ci fermiamo presso l’inerbito prato posto
accanto alla carrareccia. Zaino a terra e finalmente la meritata pausa. Mi do
una sistemata e tiro fuori dallo zaino i viveri. Sfamo l’amico, io non ho molta
fame, la tensione mi ha tolto l’appetito, preferisco raggiungere l’auto per poi
concedermi al lauto piacere. Terminata la sosta, sì riparte, calzo le ciaspole
e con molta calma inizio il rientro, gustandomi il bucolico paesaggio.
Raggiunta la casera di Jeluz, visitiamo l’interno con Magritte. L’ambiente è
piccolo, ordinato e ben curato, un bel rifugio, utile in caso di intemperie.
Ripreso il cammino pochi tornanti ci separano dall’auto. Raggiunta quest’ultima,
mi appronto per la partenza, da lontano ammiro il versante settentrionale dello
Schenone. Messa in moto l’auto procedo con calma e cautela scendendo la lunga
carreggiabile e immettendomi nella statale che da Pontebba porta alla pianura
friulana. Sono stanco, ma soddisfatto, mi guardo intorno, osservo le cime,
pensando alla prossima meta.
Il vostro
“Forestiero Nomade”
Malfa.
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