Monte
Hoberdeirer 2208 metri.
Note tecniche.
Localizzazione:
Alpi Carniche-Gruppo- Gruppo dei Clap.
Avvicinamento:
Tolmezzo-Ovaro-Rigolato-Sappada-Chiesa di Granvilla- Stradina asfaltata per
baita Elben-Al bivio svoltare a destra-Parcheggiare prima del ponte sul Piave
(1175 m).
Punto di
Partenza Parcheggio prima del ponte sul Piave (1175 m).
Dislivello:
1033 m.
Dislivello
complessivo: 1200 m.
Distanza
percorsa in Km: 18 km.
Quota minima
partenza:1175 m.
Quota
massima raggiunta: 2208 m.
In:
Solitaria.
Tipologia
escursione. Selvaggio.
Difficoltà:
E.E.A: Escursionisti Esperti Attrezzato-F con breve passaggio di I grado.
Segnavia:
CAI-317-322-315-314-
Tempo
percorrenza totale: 6 ore escluse le soste (4 in salita, e 2 in discesa)
Fonti
d’acqua: Molteplici, ruscelli.
Attrezzature:
Si
Cartografia
consigliata. Tabacco 01.
Periodo
consigliato: luglio-settembre.
Condizioni
del sentiero: Ottimamente segnato e marcato.
Data: 23
settembre 2016.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa.
Relazione.
Dopo una
settimana di pausa forzata dalla montagna a causa della pioggia desideravo
qualcosa di unico e di selvaggio che mi conciliasse lo spirito avventuriero con
l’anima in fiamme. La scelta è caduta
sulle cime del Clap, che tante volte ho ammirato passando da Sappada, e tra
queste ho scelto un monte che a molti è sconosciuto “monte Hoberdeirer”. Questa
montagna non è, né la più alta e né la più famosa del gruppo dei Clap, anzi! A
causa della sua posizione occorre un lunghissimo avvicinamento e per questo
viene snobbata, riservandola quasi esclusivamente agli amanti dell’escursionismo
solitario e selvaggio. Sabato notte si materializza il desiderio, mi sveglio
nel cuore della notte, la mente vola lontano. Partenza sotto le stelle, guido
lentamente sognando la bellissima avventura che avverrà. Tutti dormono, per
strada non incrocio nessuno, nemmeno gli animali soliti frequentatori della
notte. Presso Tolmezzo la mia fantasia esplode in un turbinio di emozioni, tali
ed intense da renderle reali, gli attimi volano e io sono avvolto dalla magia
che domo con la fantasia. Mi fermo per una breve sosta all’ultimo bar alla
periferia di Ovaro, doppio caffè e cornetto, scambio di battute con la
simpatica Carnica che gestisce il locale, riprendo il viaggio verso Sappada, la
notte è ancora lunga. Raggiunta la nota località turistica, mi accoglie la
nebbia settembrina che vela ai forestieri le meraviglie della valle. Il punto
di partenza dell’escursione non è di facile individuazione, con la mappa in
mano entro in un albergo ristorante a chiedere informazioni, mi accoglie una
bellissima signora, bionda, alta, dall’aspetto teutonico. Gentilmente e
cortesemente mi rende edotto sul punto di partenza che raggiungo in breve. Una
stradina poco dopo la chiesa in località Granvilla scende presso il fiume
sacro” il Piave”. Tra la nebbia trovo posto nello spiazzo antistante presso un
ponte, divieto di accesso (quota 1175 m). Noto che il cartello con divieto è
regolarmente ignorato dai cacciatori in transito. Fermo una jeep chiedendo
informazioni a due di loro. Mi rispondono, li osservo, sembrano matti, personaggi
da teatro, mi chiedo se sto vivendo un incubo: hanno gli occhi truccati e
spiritati, capelli tinti, sembrano gemelli e allo stesso tempo marionette, mi
rispondono a unisono. Mi sento come “Alice nel paese delle Meraviglie”, mi
guardo intorno a cercare il coniglio. Parcheggiata l’auto mi appronto per
l’avventura, zaino in spalle e sogni al seguito. Superato un cartello di
divieto seguo le chiare indicazioni su una tabella CAI: a destra c’è il ponte
che percorrerò al ritorno, la mia meta prosegue a sinistra seguendo le
indicazioni per il “Passo dell’Arco”, sentiero 317. La comoda carrareccia
costeggia il fiume, procedendo a meridione fino a raggiungere un laghetto
artificiale con annessa pittoresca Baita, il dubbio che sono dentro una favola
di Lewis Carrol si fa concreto. Mi chiedo. << Che favola sto
interpretando?>> Mi rispondo inventandone una: << “Il diavoletto
Malfa e il meraviglioso mondo dei Clap”.>> Seguendo le chiare indicazioni
sui cartelli CAI, mi inoltro in un bel bosco di abeti bianchi. Sono fuori dal
banco di nebbia e con il guadagnare di quota ammiro il paesaggio circostante.
Sappada dorme velata, il sole illumina le Crode del Ferro e il monte Lastroni,
e tinge di rosa le tre Terze, dalla grande alla piccola. Il comodo sentiero con
direzione sud -est si avvia a risalire il costone di larici in direzione del
Cadin di Fuori. Con una serie di svolte guadagno il costone sotto il Col dei
Mughi, così ammirando l’arco naturale presso il passo omonimo. L’ho fotografo e
anche se è fuori dall’itinerario, mi ci avvicino percorrendo il detritico
sentiero fino a sotto la forcella. Ritornando sui miei passi seguo il sentiero
322 che mi porta alla forcella Dei Cadini. Tutta l’escursione si svolge sul
versante settentrionale, un intenso odore di marcio che esala dalla vegetazione
mi accompagna lungo tutto il versante. la flora si fa rada, procedo nel tratto
terminale del cadin tra erba e mughi e qualche larice fino a risalire un
canalino che mi porta alla forcella dei Cadini (2098 m). Prima ancora di
raggiungerla sono affascinato dalle nuvole che creano un ambiente tetro, giunto
sull’orlo dell’esile forcella vengo stregato dalla bellezza del bellissimo
Cadin di dentro. Il sentiero scende lungo un canalone, ma prima di proseguire
noto un esile cengia che percorrendo alcuni metri sotto le strapiombanti pareti
del monte Chiesa mi permette di ammirare il Cadin sottostante e la meta futura.
Davanti mi si prospetta una delle più belle visioni delle alpi carniche, il
versante dirupato che dalla cima del Rio Bianco passando per il Creton dei
Culzei e Creton di Clap Grande mi porta all’inerbita cima del Hoberdeirer.
Tutte queste meraviglie racchiuse in uno sguardo. Ripercorro a ritroso la
piccola cengia calandomi nel dirupato ed esposto canale che mi conduce con
l’aiuto di qualche cavo alla base del cadin. Pochi metri nell’inerbita conca mi
portano al puntino rosso che in breve raggiungo. Trattasi del bivacco che
prende il nome “Damiana del Gobbo” è munito di sei posti letto, ben curato e
provvisto di viveri, trovo solo una lattina vuota che carico nello zaino per
portarla via. Il libro dei visitatori è sito sul tavolo, apporto la mia firma
che erroneamente pongo con la data del giorno precedente, mistero!? Dopo la
breve pausa proseguo verso la meta che ora è ben visibile. Percorro le pendici
detritiche del Creton dei Culzei e del Creton del Crep Grande fino a
raggiungere un colatoio roccioso che risalgo tra i mughi, raggiungendo la base
delle pareti rocciose del Hoberdeirer. I radi bolli rossi mi portano all’ultimo
tratto prima del percorso attrezzato, un costone roccioso ed esposto con parte
terminale di balze erbose. Un’affilata ed esposta cresta frastagliata collega
la cupola sommitale del Hoberdeirer con la torre di Sappada. Mi attrezzo
indossando l’imbrago con annesso caschetto, nel frattempo vengo raggiunto da
due escursionisti. Offro la precedenza nella salita della ferrata, ma anche
loro vista la parete umida ed esposta decidono di munirsi di autoassicurazione.
Allora procedo, non nascondo che anche se breve il percorso merita attenzione.
Dopo una paretina di secondo grado le attrezzature mi portano dentro un
intaglio caratterizzato da una lama rocciosa, ci passo in mezzo per arrivare al
passaggio chiave: un breve ed esposto traverso che si supera appendendosi ai
cavi e mettendo i piedi su un piolo, e successivamente buttandosi all’infuori
sull’ impressionate baratro, così raggiungendo l’esposta cengia. Superato
l’ostacolo mi congedo con gli amici di ferrata: io proseguo verso la cima che è
poco più sopra. Uno di loro nel salutarmi mi dice: <<Perché vai su, non
c’è niente!>> Questa frase mi colpisce, non c’è nulla? Penso! Cosa posso
cercare in una montagna se no il “nulla”; con questo pensiero risalgo fino
all’insellatura erbosa che precede la cima. Percorro ancora pochi metri
sull’affilata dorsale ed eccomi in vetta. Effettivamente non c’è nulla: solo un
ometto, resti di una croce disintegrata dal solito fulmine blasfemo, una
cassetta porta libro di vetta aperta senza libro che conserva all’interno una
penna per poter scrivere sul nulla. E il panorama? Nulla, ovvero tutto, cioè
l’immensità dell’eterno divenire. Dalle vicine cime dei Clap, le tre Terze, i
monti di Sappada, il Siera, le lontane Crete dei Longerin, i monti che
circondano Santo Stefano di Cadore. Questo nulla mi riempie. Non mi mancano
certo le cime affollate dal turismo di massa, deturpate da mille scarponi,
tutti a timbrare il cartellino, come se quelle montagne fossero meretrici, alla
portata di tutti. Non mi manca il continuo gracchiare di qualcuno/a che ha scambiato
i monti per un salotto dove poter conversare dei propri ….. Non mi mancano i
simboli religiosi, le croci, le madonnine di pessima fattura a testimoniare una
fede idolatra di un popolo che ama definirsi civile, perpetuando assiduamente
razzismo (sinonimo di ignoranza) e pregiudizi a gogò, su tutto e tutti. Non mi
manca il quotidiano, gli esseri che si scoprono Freud dell’ultima ora e cercano
di analizzarti per capire come sei, quando io per primo non so chi sono. Questo
nulla è tutto. È pace, silenzio, amore, passione, vita, qui ci sono salito con
i miei scarponi e se riesco a rientrare integro lo dovrò a me stesso. Ora sono
come lo scemo sulla collina, un uomo inesistente ad amare un sogno che sfugge,
a baciare un volto che cambia forma come le nuvole. Questo nulla caro amico di
ferrata, non so come ti chiami, per me è motivo di esistenza, è la forza che mi
fa andare avanti, che mi cura le ferite, che mi accarezza la testa mentre
dormo, che mi dice “ti voglio bene”. Dopo queste riflessioni mi appronto per il
rientro recuperando lo zaino. Indosso diligentemente il casco e do un ultimo
sguardo a questo infinito nulla, scendendo con attenzione. Dal tratto attrezzato mi aspetta una rampa
rocciosa abbastanza insidiosa e attrezzata con cavi. Superata quest’ultima
ritrovo il sentiero che attraversa i mughi fino alla base del Cadin di Elbel.
Superata la parte più impegnativa dell’escursione effettuo una breve pausa per
recuperare le energie, consumando il pasto posto nello zaino. Un momento di
relax che mi permette di ammirare la roccia e le sue forme, fantasticandoci su.
E la mente? Vola, vola, vola. Recuperate le energie riprendo il cammino.
Raggiungo il macereto in basso, attraversando un lariceto, degli ometti mi
invitano a guadare il secco impluvio sul versante opposto, così inizio la lunga
discesa dentro il folto bosco. Attraverso una lunghissima serie di tornanti
(sentiero 315) perdendo quota per il lungo e ripido versante occidentale. Un
rumore fragoroso e costante accompagna la discesa, quello dei mille ruscelli
che arricchiscono il torrente Rio Enghe. Il mio sguardo è fisso sulla Terza
Grande, bellissima cima salita l’anno scorso. Lungo la discesa mi aspetta
un’altra bella sorpresa: una bellissima cascata che con il suo getto inumidisce
le rocce circostanti. Spettacolo allo stato puro, raggiungo il letto del
torrente che guado sulla riva opposta, immettendomi sul sentiero 314 che con
leggera pendenza in discesa procede a settentrione. Le fatiche volgono al
termine, costeggio il rio e a volte lo guado con l’ausilio di ponti in legno.
Il sentiero lambisce il bosco della Digola, fino a incontrare la strada
forestale che mi riporta sul ponte del Fiume Piave (con sole due ore di cammino
dal monte Hoberdeirer). Negli ultimi metri sono baciato dal sole, incontro
molti escursionisti che affollano la carrareccia, fermandomi spesso a
familiarizzare con alcuni di loro. Così volge al fine una bellissima escursione
da sogno, il diavoletto Malfa ritornava alla vita quotidiana, in un mondo pieno
di tutto, ma che non ti da nulla.
Il vostro
“Forestiero Nomade”.
Malfa.
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