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giovedì 29 settembre 2016

Monte Hoberdeirer 2208 metri.

 
                                     Monte Hoberdeirer 2208 metri.                                                                                

                                                Note tecniche.

Localizzazione: Alpi Carniche-Gruppo- Gruppo dei Clap.

Avvicinamento: Tolmezzo-Ovaro-Rigolato-Sappada-Chiesa di Granvilla- Stradina asfaltata per baita Elben-Al bivio svoltare a destra-Parcheggiare prima del ponte sul Piave (1175 m).

Punto di Partenza Parcheggio prima del ponte sul Piave (1175 m).

Dislivello: 1033 m.

Dislivello complessivo: 1200 m.

Distanza percorsa in Km: 18 km.

Quota minima partenza:1175 m.

Quota massima raggiunta: 2208 m.

In: Solitaria.

Tipologia escursione. Selvaggio.

Difficoltà: E.E.A: Escursionisti Esperti Attrezzato-F con breve passaggio di I grado.

Segnavia: CAI-317-322-315-314-

Tempo percorrenza totale: 6 ore escluse le soste (4 in salita, e 2 in discesa)

Fonti d’acqua: Molteplici, ruscelli.

Attrezzature: Si

Cartografia consigliata. Tabacco 01.

Periodo consigliato: luglio-settembre.

Condizioni del sentiero: Ottimamente segnato e marcato.

Data: 23 settembre 2016.

Il “Forestiero Nomade”

Malfa.

 
Relazione.

 

Dopo una settimana di pausa forzata dalla montagna a causa della pioggia desideravo qualcosa di unico e di selvaggio che mi conciliasse lo spirito avventuriero con l’anima in fiamme.  La scelta è caduta sulle cime del Clap, che tante volte ho ammirato passando da Sappada, e tra queste ho scelto un monte che a molti è sconosciuto “monte Hoberdeirer”. Questa montagna non è, né la più alta e né la più famosa del gruppo dei Clap, anzi! A causa della sua posizione occorre un lunghissimo avvicinamento e per questo viene snobbata, riservandola quasi esclusivamente agli amanti dell’escursionismo solitario e selvaggio. Sabato notte si materializza il desiderio, mi sveglio nel cuore della notte, la mente vola lontano. Partenza sotto le stelle, guido lentamente sognando la bellissima avventura che avverrà. Tutti dormono, per strada non incrocio nessuno, nemmeno gli animali soliti frequentatori della notte. Presso Tolmezzo la mia fantasia esplode in un turbinio di emozioni, tali ed intense da renderle reali, gli attimi volano e io sono avvolto dalla magia che domo con la fantasia. Mi fermo per una breve sosta all’ultimo bar alla periferia di Ovaro, doppio caffè e cornetto, scambio di battute con la simpatica Carnica che gestisce il locale, riprendo il viaggio verso Sappada, la notte è ancora lunga. Raggiunta la nota località turistica, mi accoglie la nebbia settembrina che vela ai forestieri le meraviglie della valle. Il punto di partenza dell’escursione non è di facile individuazione, con la mappa in mano entro in un albergo ristorante a chiedere informazioni, mi accoglie una bellissima signora, bionda, alta, dall’aspetto teutonico. Gentilmente e cortesemente mi rende edotto sul punto di partenza che raggiungo in breve. Una stradina poco dopo la chiesa in località Granvilla scende presso il fiume sacro” il Piave”. Tra la nebbia trovo posto nello spiazzo antistante presso un ponte, divieto di accesso (quota 1175 m). Noto che il cartello con divieto è regolarmente ignorato dai cacciatori in transito. Fermo una jeep chiedendo informazioni a due di loro. Mi rispondono, li osservo, sembrano matti, personaggi da teatro, mi chiedo se sto vivendo un incubo: hanno gli occhi truccati e spiritati, capelli tinti, sembrano gemelli e allo stesso tempo marionette, mi rispondono a unisono. Mi sento come “Alice nel paese delle Meraviglie”, mi guardo intorno a cercare il coniglio. Parcheggiata l’auto mi appronto per l’avventura, zaino in spalle e sogni al seguito. Superato un cartello di divieto seguo le chiare indicazioni su una tabella CAI: a destra c’è il ponte che percorrerò al ritorno, la mia meta prosegue a sinistra seguendo le indicazioni per il “Passo dell’Arco”, sentiero 317. La comoda carrareccia costeggia il fiume, procedendo a meridione fino a raggiungere un laghetto artificiale con annessa pittoresca Baita, il dubbio che sono dentro una favola di Lewis Carrol si fa concreto. Mi chiedo. << Che favola sto interpretando?>> Mi rispondo inventandone una: << “Il diavoletto Malfa e il meraviglioso mondo dei Clap”.>> Seguendo le chiare indicazioni sui cartelli CAI, mi inoltro in un bel bosco di abeti bianchi. Sono fuori dal banco di nebbia e con il guadagnare di quota ammiro il paesaggio circostante. Sappada dorme velata, il sole illumina le Crode del Ferro e il monte Lastroni, e tinge di rosa le tre Terze, dalla grande alla piccola. Il comodo sentiero con direzione sud -est si avvia a risalire il costone di larici in direzione del Cadin di Fuori. Con una serie di svolte guadagno il costone sotto il Col dei Mughi, così ammirando l’arco naturale presso il passo omonimo. L’ho fotografo e anche se è fuori dall’itinerario, mi ci avvicino percorrendo il detritico sentiero fino a sotto la forcella. Ritornando sui miei passi seguo il sentiero 322 che mi porta alla forcella Dei Cadini. Tutta l’escursione si svolge sul versante settentrionale, un intenso odore di marcio che esala dalla vegetazione mi accompagna lungo tutto il versante. la flora si fa rada, procedo nel tratto terminale del cadin tra erba e mughi e qualche larice fino a risalire un canalino che mi porta alla forcella dei Cadini (2098 m). Prima ancora di raggiungerla sono affascinato dalle nuvole che creano un ambiente tetro, giunto sull’orlo dell’esile forcella vengo stregato dalla bellezza del bellissimo Cadin di dentro. Il sentiero scende lungo un canalone, ma prima di proseguire noto un esile cengia che percorrendo alcuni metri sotto le strapiombanti pareti del monte Chiesa mi permette di ammirare il Cadin sottostante e la meta futura. Davanti mi si prospetta una delle più belle visioni delle alpi carniche, il versante dirupato che dalla cima del Rio Bianco passando per il Creton dei Culzei e Creton di Clap Grande mi porta all’inerbita cima del Hoberdeirer. Tutte queste meraviglie racchiuse in uno sguardo. Ripercorro a ritroso la piccola cengia calandomi nel dirupato ed esposto canale che mi conduce con l’aiuto di qualche cavo alla base del cadin. Pochi metri nell’inerbita conca mi portano al puntino rosso che in breve raggiungo. Trattasi del bivacco che prende il nome “Damiana del Gobbo” è munito di sei posti letto, ben curato e provvisto di viveri, trovo solo una lattina vuota che carico nello zaino per portarla via. Il libro dei visitatori è sito sul tavolo, apporto la mia firma che erroneamente pongo con la data del giorno precedente, mistero!? Dopo la breve pausa proseguo verso la meta che ora è ben visibile. Percorro le pendici detritiche del Creton dei Culzei e del Creton del Crep Grande fino a raggiungere un colatoio roccioso che risalgo tra i mughi, raggiungendo la base delle pareti rocciose del Hoberdeirer. I radi bolli rossi mi portano all’ultimo tratto prima del percorso attrezzato, un costone roccioso ed esposto con parte terminale di balze erbose. Un’affilata ed esposta cresta frastagliata collega la cupola sommitale del Hoberdeirer con la torre di Sappada. Mi attrezzo indossando l’imbrago con annesso caschetto, nel frattempo vengo raggiunto da due escursionisti. Offro la precedenza nella salita della ferrata, ma anche loro vista la parete umida ed esposta decidono di munirsi di autoassicurazione. Allora procedo, non nascondo che anche se breve il percorso merita attenzione. Dopo una paretina di secondo grado le attrezzature mi portano dentro un intaglio caratterizzato da una lama rocciosa, ci passo in mezzo per arrivare al passaggio chiave: un breve ed esposto traverso che si supera appendendosi ai cavi e mettendo i piedi su un piolo, e successivamente buttandosi all’infuori sull’ impressionate baratro, così raggiungendo l’esposta cengia. Superato l’ostacolo mi congedo con gli amici di ferrata: io proseguo verso la cima che è poco più sopra. Uno di loro nel salutarmi mi dice: <<Perché vai su, non c’è niente!>> Questa frase mi colpisce, non c’è nulla? Penso! Cosa posso cercare in una montagna se no il “nulla”; con questo pensiero risalgo fino all’insellatura erbosa che precede la cima. Percorro ancora pochi metri sull’affilata dorsale ed eccomi in vetta. Effettivamente non c’è nulla: solo un ometto, resti di una croce disintegrata dal solito fulmine blasfemo, una cassetta porta libro di vetta aperta senza libro che conserva all’interno una penna per poter scrivere sul nulla. E il panorama? Nulla, ovvero tutto, cioè l’immensità dell’eterno divenire. Dalle vicine cime dei Clap, le tre Terze, i monti di Sappada, il Siera, le lontane Crete dei Longerin, i monti che circondano Santo Stefano di Cadore. Questo nulla mi riempie. Non mi mancano certo le cime affollate dal turismo di massa, deturpate da mille scarponi, tutti a timbrare il cartellino, come se quelle montagne fossero meretrici, alla portata di tutti. Non mi manca il continuo gracchiare di qualcuno/a che ha scambiato i monti per un salotto dove poter conversare dei propri ….. Non mi mancano i simboli religiosi, le croci, le madonnine di pessima fattura a testimoniare una fede idolatra di un popolo che ama definirsi civile, perpetuando assiduamente razzismo (sinonimo di ignoranza) e pregiudizi a gogò, su tutto e tutti. Non mi manca il quotidiano, gli esseri che si scoprono Freud dell’ultima ora e cercano di analizzarti per capire come sei, quando io per primo non so chi sono. Questo nulla è tutto. È pace, silenzio, amore, passione, vita, qui ci sono salito con i miei scarponi e se riesco a rientrare integro lo dovrò a me stesso. Ora sono come lo scemo sulla collina, un uomo inesistente ad amare un sogno che sfugge, a baciare un volto che cambia forma come le nuvole. Questo nulla caro amico di ferrata, non so come ti chiami, per me è motivo di esistenza, è la forza che mi fa andare avanti, che mi cura le ferite, che mi accarezza la testa mentre dormo, che mi dice “ti voglio bene”. Dopo queste riflessioni mi appronto per il rientro recuperando lo zaino. Indosso diligentemente il casco e do un ultimo sguardo a questo infinito nulla, scendendo con attenzione.  Dal tratto attrezzato mi aspetta una rampa rocciosa abbastanza insidiosa e attrezzata con cavi. Superata quest’ultima ritrovo il sentiero che attraversa i mughi fino alla base del Cadin di Elbel. Superata la parte più impegnativa dell’escursione effettuo una breve pausa per recuperare le energie, consumando il pasto posto nello zaino. Un momento di relax che mi permette di ammirare la roccia e le sue forme, fantasticandoci su. E la mente? Vola, vola, vola. Recuperate le energie riprendo il cammino. Raggiungo il macereto in basso, attraversando un lariceto, degli ometti mi invitano a guadare il secco impluvio sul versante opposto, così inizio la lunga discesa dentro il folto bosco. Attraverso una lunghissima serie di tornanti (sentiero 315) perdendo quota per il lungo e ripido versante occidentale. Un rumore fragoroso e costante accompagna la discesa, quello dei mille ruscelli che arricchiscono il torrente Rio Enghe. Il mio sguardo è fisso sulla Terza Grande, bellissima cima salita l’anno scorso. Lungo la discesa mi aspetta un’altra bella sorpresa: una bellissima cascata che con il suo getto inumidisce le rocce circostanti. Spettacolo allo stato puro, raggiungo il letto del torrente che guado sulla riva opposta, immettendomi sul sentiero 314 che con leggera pendenza in discesa procede a settentrione. Le fatiche volgono al termine, costeggio il rio e a volte lo guado con l’ausilio di ponti in legno. Il sentiero lambisce il bosco della Digola, fino a incontrare la strada forestale che mi riporta sul ponte del Fiume Piave (con sole due ore di cammino dal monte Hoberdeirer). Negli ultimi metri sono baciato dal sole, incontro molti escursionisti che affollano la carrareccia, fermandomi spesso a familiarizzare con alcuni di loro. Così volge al fine una bellissima escursione da sogno, il diavoletto Malfa ritornava alla vita quotidiana, in un mondo pieno di tutto, ma che non ti da nulla.

Il vostro “Forestiero Nomade”.

Malfa.















































































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