Cima Dieci
(2151 m.) da Cima Sappada.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Alpi Carniche- Gruppo Terze-Clap
Avvicinamento:
Lestans-Pinzano-Cornino-Tolmezzo- Villa Santina- Ovaro-Rigolato-Cima Sappada presso parcheggio
funivia.
Località di
partenza: parcheggio
funivia presso Cima Sappada.
Dislivello:
1220 m.
Dislivello complessivo: 1220 m.
Distanza
percorsa in Km: 15 chilometri.
Quota minima
partenza: 1276 m.
Quota
massima raggiunta: 1251 m.
Tempi di
percorrenza escluse le soste: 5 ore.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione: Selvaggia.
Difficoltà: Escursionisti Esperti con forte senso
dell’orientamento.
Segnavia:
CAI 321 – ometti e istinto.
Impegno
fisico: Medio.
Preparazione
tecnica: Media.
Attrezzature:
No.
Croce di
vetta: No.
Ometto di
vetta: Si.
Libro di
vetta: Sì.
Timbro di
vetta: C’era, è rimasto il tampone.
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli Venezia Giulia – Tabacco 01.
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo
consigliato: luglio-ottobre.
Da evitare
da farsi in: Con presenza di bagnato e ghiaccio.
Condizioni
del sentiero: Fino all’imbocco del canalone ben segnato e marcato, poi si
procede di istinto.
Fonti d’acqua: Nessuna.
Consigliati:
Ramponcini da erba per il tratto finale
Data: 19
ottobre 2018.
Il “Forestiero
Nomade”
Malfa
Racconto:
Cima dieci, la
cima di Calypso.
Di recente
in una delle mie ultime escursioni sono passato davanti al suo cospetto, lei mi
guardò, mi invitò, dal mio sguardo notò che ero stregato da un maleficio.
Il suo dolce
sorriso privo di inganno mi colpì, a malincuore continuai per la meta
prescelta. Da quel giorno il suo volto è rimasto inciso nei miei desideri come
la sua veste color smeraldo illuminata da un filo di luce. Con questo seducente
ricordo arrivo alla valle, trovando Aurora intenta nell’albeggiare, la mole
della bramata alpe domina il cielo, sorge alta e bella e si distingue tra le altre.
Una tenue nebbia che sveglia i ricordi mi accoglie a Sappada, la passione non più
mite mi consiglia di coprirmi e di affrettare la partenza. Oggi sarò lupo e viaggio
con un degno erede, Magritte veglierà sul mio errare, non vorrei essere oppresso
ancora da presenze fosche. Parto subito per l’orma che porta gli uomini al cospetto
dell’aurea ninfa, ecco, mentre mi districo tra gli abeti penso:<< Perché
non dare alla cima un nome di una naiade? >> Ci penserò quando sarò al
suo cospetto. Salgo la traccia tra gli aghiformi, scelgo quella più ripida,
passando sotto i giganti d’acciaio che muovono il popolo del comodo divertirsi
quando i prati sono imbiancati.
Tanto erta è
la via ma arrivo in breve nel riparo che porta il nome della cima più alta alle
spalle, non c’è segno di passaggio di uomini, tutto in questo luogo appare tormentato
e inospitale.
Alzo le
braccia al sole, lo ammiro, dandogli il benvenuto e continuo verso la mia destinazione
che è così prossima da poterla abbracciare con lo sguardo. Le gocce del pianto
delle rocce mi conducono a lei, i poveri ometti ignorati dalla avida
distrazione dell’uomo mi implorano di fiorire verso l’empireo, non posso che assecondare
questi preziosi compagni di viaggio, e con compiacenza mi dedico a crearli
originali, protesi verso l’amore infinito, quello azzurro in cui tutti gli
spiriti liberi volano.
Sfilo vicino
un’immagine di giovane madre, venerata dalle masse per la perdita di un figlio
in croce, mi chiedo che razza è quella umana, che crea una religione intorno al
dolore più grande che possa esistere, la perdita di un figlio innocente. Il mio
agnosticismo non mi proibisce di aver pietà per il visionario profeta e immedesimandomi
a uno dei malfattori che mori con lui in croce, in segno di pietà gli offro un
ignoto sasso.
Pochi metri
dopo la nicchia sacra si apre a destra un grande canalone, come un imbuto
rovesciato si incunea tra la mia passione e la Cresta del Pettine. Un esiguo
ometto mi indica di lasciare la via sicura e avventurarmi nello scosceso e
ripido pendio. Miro in alto, dove le due creste sembrano sposarsi, salgo
zizzagando finché compaiono gli amici ciottoli che mi guidano. Il cammino è
ripido e faticoso, il sole non riesce a penetrare la fredda valle. Mi porto in
alto al canale che devia a destra, gli ometti svaniscono ma la via è chiara, mi
porto sotto i placidi gendarmi. Questo luogo dovrebbe essere tetro, ideale per
un’arpia, ma essa è trapassata, trafitta dalla sua stessa ipocrisia.
Paradossalmente
le bigie ombre mi paiono calde, non le temo, anzi, ne sento il calore e il
destino della ventura che sta per compiersi.
Sosto sotto
un enorme macigno, una goccia color scarlatto mi indica che la via è leale, abbandono
lo zaino del medesimo colore della goccia e dopo aver ferrato gli scarponi e
munito la sacca, riparto.
Il mio fido
vorrebbe rientrare a valle e rinunciare all’impresa, lo rincuoro, gli dico che il
regno delle ombre sta per finire e presto verrà ad accoglierci la luce. Altri
segni del colore del fuoco mi guidano a una piccola e esile cengia percorribile
dagli dei. Non sono timoroso e così il lupo con il fedele amico volano sulla
roccia, raggiungendo i beatificati mughi che dividono le ombre dalla luce, la
notte dal giorno, la morte dalla vita. Come in un trapasso simile alla nascita
entro nella nuova vita, dove i prati sono filamenti d’oro e la roccia rispecchia
il bianco lucente. Non scorgo ometti, in questo regno è preclusa a loro la vita,
senza perdermi d’animo mi faccio condurre dallo spirito guida. Continuo a essere
predatore e cerco tra i fili d’oro il passaggio di altri viandanti, lasciandomi
ispirare dall’istinto. Metro dopo metro mi spingo verso la bianca roccia che
divide le due vie, scelgo quella a sinistra, le dolomitiche e gotiche cuspidi
mi guidano. Nelle mie braccia il pelo grigio si dissolve nell’aria, sento
pizzicare le carni e dai pori fuoriuscire piccole piume, da lupo sto per divenire
aquila, la cima ora è vicina, la sento.
Aggiro la
bianca roccia, trovando ancora prati più ripidi, tali da ascendersi in verticale,
così conquisto la cresta e cerco il sogno. La visione delle vicine altezze mi
incanta, vorrei arrestarmi e librarmi in volo, alla mia destra intravedo un
altare bianco che spicca tra gli smeraldini mughi e un cielo dalle tinte lapislazzuli,
è la sospirata meta.
Pochi passi
ed eccomi in paradiso, ho raggiunto Calypso, si, così battezzo la meravigliosa
regina dai tratti granitici e dal cuore sincero. Mentre mi appresto a iniziare i rituali di ringraziamento
mi accorgo di aver smarrito Magritte, eppure lo avevo al guinzaglio che tenevo
alla cintola dei pantaloni. Lo chiamo invano cercando anche nel pauroso vuoto
del baratro, torno indietro sui miei passi seminando al cielo il suo nome,
mentre sto perdere le speranze penso a un altro maleficio della megera. Per
buona sorte ritrovo l’amico occultato tra i verdi mughi, pronto a rientro, lo
invito a seguirmi sull’altare e presenziare al rito magico. Passata la paura mi
godo l’infinito, Calypso è avvenentissima, da essa il mondo appare ancora più incantevole,
e poi ella emana tanta luce, sto vivendo un sogno che vorrei condividere con tutte
le anime libere.
Vesto le ali
di aquila, mi dilungo in tutto, vorrei lasciarmi andare al volo librando lo
spirito. Osservo gli adiacenti amore sacro e profano, mi rendo conto di quanto
la “Grande Signora”, mi ami, concedendomi parte di sé.
Le sono grato,
essendo povero posso solo donarle i miei occhi cerulei e il cuore, le mie
ginocchia sono testimoni di quanto l’amo, e il claudicare del ritorno ne sarà
una prova. Tutte le storie hanno un inizio e una fine; prima di scendere le
dedico una frase sul libro di vetta, paragonando la sua avvenenza a una danza,
dove per magia si compie la sublimazione delle gesta. Termina la visita alla
ninfa, con il cuore saziato di emozioni, io e l’amico ci approntiamo alla
discesa per il prato dorato sino alla fredda valle. Una volta recuperato lo
zaino ci spingiamo verso la luce, giocando come birbantelli nel canalone,
lasciamo la retta via per scivolare tra le ghiaie; c’è tanta complicità con l’amico
a quattro zampe, e mi par di scorgere un sorriso dalla sua espressione.
Raggiunto il
cumulo si sassi che fa da guardiano alla valle, ci indirizziamo sulla via del
ritorno, gli ometti salutano il nostro passaggio, sfoggiando l’inaudito
equilibrio degli arditi ciottoli. Raggiunto il rifugio, adagio l’armamentario a
terra, mi siedo su una panca posta a guardia del creato e con il compagno ci
dedichiamo a al nutrimento per poi riprendere la ripida discesa verso il mezzo
di trasporto.
La magnificenza
del giorno ci vizia, durante il viaggio di ritorno non nego di aver sognato ad
occhi aperti e di aver dato un volto a Calypso, la fantastico bionda dagli occhi color acqua cristallina, e tra le varie
fantasie credo di aver fatto l’amore con lei, dove le acque confluiscono verso
il sacro fiume agli dei.
Le gocce
dell’amore sono scese dalla cima incanalandosi nelle arterie della montagna sino
a giungere al greto. Tutto è possibile quando lo credi, ma se adopero l’inganno,
potrei svegliarmi in una fredda cella e scoprire che sono solo, e quando non ho
risposte per il sole, rifugiarmi in tristi sensazioni come il chiudere gli
occhi alla realtà e sentirmi mancare. Oggi il viandante è stato baciato dalla
luce, i filamenti d’oro dei larici catturati mi tengono compagnia nel viaggio
del ritorno, rientro con un nuovo amore conquistato e una nuova storia da
raccontare.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa.
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