Monte Joànaz e le malghe di Porzus.
Racconto.
Le temperature gelide e la neve permanente sulle alte quote
mi spingono a oriente, ammirando le prime elevazioni dove è possibile camminare
per sentieri senza penare eccessivamente.
È tanto affascinante la scoperta di questi rilievi carichi
di storia, sicuramente in cuor mio c’è un continuo bisogno di contatto umano,
ecco perché ultimamente non vado più in solitaria e sono alla continua ricerca
di borghi in cui non ho vissuto.
L’itinerario di oggi è un’idea di Roberto, che ben conosce
il sito. Pur essendo munito di mappa, stavolta la terrò ben riposta nello
zaino, lasciandomi condurre dall’amico.
Giungiamo alle prime ore del mattino nella cittadina di Faedis,
seguiamo le indicazioni per il canal di Grivò e il borgo di Canebola. La strada
fortunatamente è sgombra da neve, raggiunta la bocchetta di S. Antonio, lasciamo
l’auto nello spiazzo adibito, pochi metri sotto la cappella votiva.
Appena fuori dall’autovettura ci sorprende una raffica di
vento gelido che ci consiglia di coprirci abbondantemente, tali da somigliare
all’omino della Michelin.
Oggi nella combriccola
c’è anche il fido Magritte, con Roberto si conoscono, siamo un trio affiatato.
Appena approntati partiamo dalla bocchetta in direzione Rifugio Joànaz,
effettuando una lunga diagonale su strada forestale, questo ci permette di
compiere l’anello che ci siamo prefissati.
Subito dopo la partenza udiamo il rombo di mastodontici
trattori, salutiamo il personale che opera sui mezzi, ci osservano senza
rispondere al saluto. La strada che percorriamo non è per nulla attraente, anzi,
è molto noiosa, ma conduce all’inizio della lunga dorsale che porta alla meta odierna.
Raggiunti i prati antistanti al Rifugio Joànaz, ci dirigiamo
verso quest’ultimo, calpestando la prima neve che troviamo dura. Davanti al
rifugio, che troviamo chiuso e sprovvisto di riparo per viandanti, effettuiamo
la prima breve pausa, decidendo come attrezzarci per proseguire. Suggerisco all’amico
di munirci di ghette e ramponi, una volta partiti la scelta si dimostra felice,
ne è prova il continuo scricchiolio del ghiaccio sotto i ramponi.
Pochi metri dopo il rifugio lambiamo un cippo commemorativo dedicato
agli alpini e sormontato da un’aquila, ci fermiamo per una spontanea e
silenziosa preghiera in onore dei caduti della nobile arma.
Riprendiamo il cammino iniziando la lunga dorsale che conduce
alla cima dello Joànaz, il sentiero è comodo, attraversa ampie praterie,
intervallate da brevi macchie boschive. Con l’aumentare di quota la neve ammanta
per intero il crinale, le fredde folate di vento e il cielo grigio fanno
rassomigliare il tutto a un paesaggio siberiano. Magritte stranamente gradisce
il paesaggio polare, ho sempre avuto il sospetto che tra i suoi avi ci fosse il
ben noto Zanna Bianca.
Raggiunta una cabina con numerosi ripetitori, cerchiamo
riparo dietro di essa, ma è inutile, il freddo è pungente, l’unica soluzione è
camminare per non raggelare. Poco prima di raggiungere il boschetto che precede
la meta salutiamo un albero solitario con i rami protesi al vento, la
solitudine che scaturisce da esso è paragonabile alla poetica di Giuseppe Ungaretti.
Un bosco di noccioli precede l’ultima elevazione, pochi tornanti
e tocchiamo la vetta (Prisma goniometrico e paletto segnavia con annessa
cassetta porta libro di vetta), un piccolo pulpito panoramico che si apre verso
la limitrofa Slovenia.
La visita è di breve durata, firmiamo il libro di vetta, tentando
di ricordare i nomi dei rilievi che ci circondano, evidentemente il gelo ha assiderato
qualche nostro neurone. Si rientra percorrendo a ritroso il tratto sotto la
cima, per poi utilizzare la strada militare che corre lungo il versante
occidentale del monte.
Il paesaggio a tratti è divino, da sogno, i solitari alberi
giocano con il sole che si cela dietro le nubi. Roberto e io cerchiamo di
catturare i brevi attimi di poesia che il bianco manto ci dona.
Dalla carrareccia noto in basso un segno CAI, abbandono la rotabile
per discendere rapidamente per i ripidi prati innevati, Roberto mi segue a
ruota. Viviamo felici attimi in cui ritorniamo bimbi monelli, baloccando con la
magica neve.
Ripresa in basso la carrareccia, pochi metri dopo la
lasciamo stavolta seguendo il sentiero CAI. Dopo aver sfiorato i ruderi di una
vecchia costruzione bellica ci immettiamo nella lunga discesa, interrotta dal disastro
compiuto dai trattori visti al mattino subito dopo la partenza. I mezzi
cingolati hanno creato una ferita nel bosco, facendo scempio degli abeti. La
lunga scia di terra mista a ramaglie ricalca il vecchio sentiero CAI, pestando
il tratto ora infangato ho sentito gli alberi piangere di dolore. Giungiamo alla
bocchetta di S. Antonio, con l’animo ferito per quello che abbiamo visto nell’ultimo
tratto percorso.
Il Joànaz è stata una bella escursione, ma non siamo ancora
paghi, ci manca qualcosa, propongo a Roberto di proseguire a piedi per la malga
di Porzus; egli acconsente con entusiasmo, quindi lasciamo in auto solo i
ramponi, continuando a piedi per il vicino monte Jauar.
Dopo pochi metri di sentiero, imbocchiamo la strada forestale
che porta alle malghe di Porzus, la seguiamo fino all’ampio spiazzo panoramico,
dove ci fermiamo.
La sacralità del luogo esige rispetto, stavolta il passo è
silenzioso, saliamo la piccola gradinata che conduce davanti agli stavoli dove
fu perpetrato l’eccidio ai danni dei partigiani Osovari.
Ho saputo di questo massacro in età matura e mi sono
schierato per la nobile causa della libertà. Ho avuto sempre rispetto per i
morti di tutte le fazioni, sia dei repubblichini che dei partigiani; entrambi
credevano nella causa per cui combattevano, ma l’eccidio di partigiani ad opera
di altri partigiani è stato raccapricciante.
È stato un bene non insabbiare l’infausto crimine e oggi, con
devozione cammino sul suolo dove si versò il sangue degli sfortunati difensori
della Libertà. Percepisco la presenza di chi uccise e di chi subì il vile
gesto, non nascondo, nel veder versare a Roberto il vino nei bicchieri, di aver
provato emozioni; quel color rosso mi ha fatto pensare agli sventurati
patrioti. Stranamente, come se fosse un
segnale divino, il cielo si dischiude, svelando un bellissimo azzurro, e la
bandiera tricolore posta di vedetta sopra di noi, sventola con veemenza. Quello
che ho sentito in quell’istante ve lo lascio immaginare.
Risistemati gli zaini, ci apprestiamo a rientrare, stavolta
percorriamo la stradina fino alla bocchetta di S. Antonio, una volta sistemati
i materiali ci avviamo a valle.
Con l’amico (durante il tragitto che conduce a Faedis) discutiamo
di politica, abbiamo idee diverse, ma ci confrontiamo con amicizia e serenità,
quello che avrebbero dovuto fare i carnefici della strage di Porzus settantatré
anni fa!
Durante il rientro ci fermiamo per consumare un caffè, il locale
è chiuso ma in via eccezionale ci aprono. Osservo il personale di servizio,
ognuno di loro ha un aspetto diverso, tutti noi abbiamo tratti somatici diversi
e chissà quanti incroci di popoli ci hanno preceduto. Mi chiedo:<< Perché
non possiamo vivere in pace in questa terra, visto che c’è spazio per tutti?>>
Non è difficile, basta crederci!
Il “Forestiero Nomade”
Malfa.
Note tecniche.
Localizzazione: Prealpi Giulie- Valle del Grivò.
Avvicinamento: Buia-Gemona-Tarcento- Faedis-Canal di
Grivò-Canebola-Bocchetta di S. Antonio.
Località di Partenza: Bocchetta di S. Antonio. 783 m.
Dislivello: 300 m.
Dislivello
complessivo: 601 m.
Distanza percorsa in Km: 13,5.
Quota minima partenza: 788 m.
Quota massima raggiunta: 1192 m.
Tempi di percorrenza. 4 ore escluse le soste
In: Coppia.
Tipologia Escursione:
Storico-Naturalistica.
Difficoltà: Escursionistiche
Segnavia: CAI 753, 765.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: No.
Ometto di vetta: Si.
Libro di vetta: Si.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1)
Cartografici: Tabacco 041
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo consigliato:
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero:
Fonti d’acqua: No.
Consigliati:
Data: 21 febbraio 2018.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
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