Malga Lovet da Forno.
Racconto.
La neve negli ultimi mesi è una presenza costante sui monti,
sicuramente sgradita da chi ama andare in montagna con zaino sprovvisto di
ramponi e ciaspole, e soprattutto per chi ama affrontare le crestine o i
sentieri esposti. Ispirandomi al detto ”mal comune, mezzo gaudio”, ho chiesto a
Roberto se si sentiva di venire su in montagna, in località Forno, come meta ho
pensato alla casera Lovet.
La cima del Taiet vista dalla pianura friulana (la malga
Lovet è poco dietro la cresta) appare fin troppo coperta di neve, quindi con
l’amico Roberto partiamo muniti con tutto l’occorrente. Approfitto della meta
per far conoscere all’amico, Clauzetto e i luoghi limitrofi.
Alle prime ore del mattino percorriamo in auto l’altopiano
che domina la pianura friulana, seguendo le indicazioni per Pradis di Sopra.
Ci fermiamo nei pressi del cimitero di guerra.
Tra il 5 e il 6 novembre del 1917 si combatté la famosa
battaglia di Pradis: tra i militi del regio esercito italiano (in ritirata
dalla rotta di Caporetto) e le truppe austriache e tedesche.
La visita agli sfortunati soldati è un dovere a cui non ci
sottraiamo. Entriamo nel piccolo cimitero, le tombe dei soldati stanno in
ordine, ben allineate come fossero in adunata. Le prime sepolture sono quelle
dei militi italiani, sulle poche targhe che ho letto è scritto ignoto, una
bandierina tricolore e una croce greca in metallo ne testimoniano la
nazionalità; dietro di esse le croci dei soldati austriaci e tedeschi, sono
entrambe di pietra e a forma di croce latina, le differenzia solo il nastrino: i
tedeschi hanno il tricolore a strisce orizzontali giallo-rosso-nero, gli
austriaci i colori rosso e bianco.
Un silenzio carico di preghiera regna sovrano, le croci e le
lapidi non sono ricoperte da neve, strano, mentre il resto del cimitero lo è,
come se la neve si fosse dissolta percependo il calore dello spirito di chi ha
donato l’unica ricchezza che possedeva.
Uscendo dal luogo sacro chiudiamo delicatamente il cancello,
avrei voluto mettermi sugli attenti e salutare al basco, gli abiti che indosso sono
poco decorosi per gli eroi, così mando un bacio accompagnandolo con la mano, un
segno d’affetto, sentito, verso i miei fratelli che dormono il sonno eterno.
In auto proseguiamo verso la località di Forno, sorrido a
sentire i commenti di Roberto nell’ammirare questo magnifico territorio. Giunti
a Forno, mentre ci approntiamo decidiamo di lasciare le ciaspole in auto, i
ramponi sicuramente ci saranno utili. La meta di oggi è la classica fava con
cui si prendono più piccioni. Roberto ha un conto in sospeso con la malga
Lovet, per pochi metri a causa di un temporale non la raggiunse; io non ho mai percorso
il sentiero 820, undici anni fa effettuai l’intero anello del monte Taiet con
il prode Magritte, ma partendo dal monte Dagn. Quindi oggi si sale nella
speranza di raggiungere la malga, sperando che la neve ce lo permetta. Iniziamo
l’avventura, dopo pochi metri sulla carrareccia, un cartello CAI ci invita a
seguire il ripido sentiero segnato erroneamente 821 in vece di 820.
Guadagniamo quota, risalendo il crinale del Cuel For dal
versante orientale. Il tracciato è ben marcato e risale la pineta dove incappiamo
nella prima neve, seguiamo le orme di un piccolo mammifero (probabilmente tasso
esso come quasi tutti gli animali del bosco trova comodi i sentieri, l‘animaletto
ci guida sino alla forcella. Attraversiamo un ponte di legno, che riteniamo pericoloso
e inutile (il ghiaccio che stagna sulle tavole lo rende insidioso), sarebbe
stato più logico scavare un gradino nella roccia sottostante.
Il sentiero dal versante orientale passa a quello
occidentale mantenendosi sotto la cresta del monte Cecon, stiamo attenti a non
prendere scivolate, con l’aumentare della quota si accresce la consistenza
della neve, alcuni stretti tornantini ci portano a pochi metri dalla cresta della
Forchiazza, dove accarezziamo le pareti rocciose alla convergenza del sentiero
821 proveniente dal Monte Dagn.
Dalle indicazioni sulla tabella leggo che per la malga
mancano solo 45 minuti, ma non tiene conto che ci aspetta un manto di neve
spesso e chissà quanto insidioso. Il primo tratto dopo la forcella è rischioso,
suggerisco a Roberto di trovare un fazzoletto di terreno in piano, dove
organizzarci per ramponare gli scarponi e indossare le ghette, pochi metri dopo
lo troviamo, sostiamo e ci approntiamo. Riprendiamo la marcia con maggior
sicurezza, infatti la neve si fa più consistente e il percorso ripido. Faticando
non poco, scorgiamo i segni sugli alberi, improvvisiamo grazie all’esperienza
che abbiamo maturato un percorso, zizzagando, disegnando ampi tornanti, fino a
superare il primo ostacolo. Non ci demoralizziamo, anzi, le difficoltà ci
caricano. A volte Roberto avvista un segno, altre volte io, a dimostrazione che
in questi frangenti, in due si procede con maggior sicurezza. Percorriamo una cresta che si affaccia come
un balcone sul versante meridionale, la bellezza del luogo è impressionante.
La paura creata dall’adrenalinico percorso bilancia la
bellezza del paesaggio, gioiamo e temiamo nel medesimo istante. Raggiunto un
punto difficile e super esposto, decidiamo di salire per il ripido pendio
guadagnando la sommità del piccolo colle, pochi metri dopo scorgiamo un paletto
CAI.
La bellezza del paesaggio invernale ci strega, nel nostro
sguardo colmo di felicità si può leggere il tumulto che scatenano tali visioni.
Scendiamo pochi metri e seguendo i radi segni sulle cortecce degli alberi
risaliamo un altro costone da dove intravvediamo dal basso delle strutture in
legno, ci siamo, la meta è vicina.
Una staccionata segna il perimetro del belvedere, una mappa è
apposta nella tabella informativa e ci ragguaglia che mancano poche centinaia
di metri alla malga. Al proseguo pensiamo dopo, ora godiamo di questo
meraviglioso spettacolo, dal pulpito panoramico ammiriamo la pianura friulana,
i monti sono totalmente ricoperti di neve, il paesaggio è da sogno, il solo vedere
gli abeti carichi rende irreale l’ambiente. Ripresoci dall’euforia ci avviamo
per la meta, seguendo nella neve qualcosa che somiglia a una traccia.
Il percorso è ostacolato dalle fronde dei faggi dove i
fiocchi di neve si sono incastonati nei rametti, rendendo gli alberi simili a
lampadari con gocce di cristallo, tale è la verosimiglianza che quando passo
sotto sento il tintinnio.
La magia segue un crescendo, ci inoltriamo nella valle,
all’improvviso appare la baita della malga di Lovet, dista solo pochi minuti ma
la neve fresca rende faticoso il cammino, ci esalta sapere che siamo i primi
bipedi a percorrere il magico manto bianco e ci avviciniamo a essa, come i
tuareg nel deserto bramano l’oasi.
Sono vicinissimo e come in un flashback rivivo il ricordo di
quando raggiunsi per la prima volta la casera; ricordando ancora le decine di
zecche che mi camminavano sui pantaloni, Magritte era cucciolo e tanto giocherellone. Pochi metri, ultimi passi e ci siamo, temo
che la struttura sia chiusa, porta il numero civico 46, impugno la maniglia e
presso verso il basso, spingendo verso l’interno, si apre!
Delizia, il ricovero ci accoglie, è confortevole, il camino
è la prima cosa che scorgo, poi il tavolo, un accendino e delle mensole piene
di oggetti. Alle brande si accede con una scaletta in legno.
Molliamo gli zaini, Roberto desidera accendere il fuoco, lo
desidero anch’io, un’esperienza che in montagna non abbiamo mai vissuto, e
subito ci mettiamo all’opera.
Mentre Roberto si adopera con diavolina e legnetti, nel
locale accanto trovo qualche ciocco di legno, anche se mi sembrano umidi.
Il fuoco prende, quindi imbandiamo la tavola per il pranzo.
Fatta la foto ricordo per i nipoti all’esterno del locale, iniziamo le danze, cedendo
al Dio Bacco.
Il mitico Cabernet di Roberto viene versato nei calici,
brindiamo all’amicizia, alla montagna e alla libertà. Iniziamo ad adoperare le
mandibole sui panini (le vittime sacrificali di questo rito). Stranamente
sentiamo più freddo dentro che all’esterno, il fuoco non emette calore ma solo
colore, la temperatura che progressivamente si abbassa ci spinge velocemente
fuori dal locale. Prima di abbandonare la dimora apportiamo una filma sul
registro dei visitatori. Roberto si commuove nel leggere sul libro la frase e
la firma di un suo caro amico recentemente scomparso. Momenti di tristezza, forse
era destino che oggi l’amico salisse quassù, perché la scritta testimonia che
quello spirito visse l’attimo in cui fu felice. Le mani sono fredde, spengo il
fuoco, mi accerto che non crei danni, chiudo il locale.
I primi metri del rientro sono una fuga, tentiamo di
scaldarci con il movimento, soffio dentro i guanti per creare calore con il
fiato, Roberto, divertito, scopre che funziona e mi imita. Presto raggiungiamo
il belvedere e ci spingiamo giù. Stranamente la discesa è meno impegnativa
della salita, in pochi muniti siamo alla forcella, fuori dai guai e le mani
hanno ripreso calore. Teniamo ancora un po’ i ramponi, ma dopo un tratto vedo
che cominciano ad accumulare foglie, decidiamo di toglierli fermandoci su un
tratto di sentiero dove l’erba è scaldata dal sole. Si, il sole, la giornata da
grigia è diventata fantastica, il cielo è azzurrissimo, il sole infiamma.
Roberto riflette, commenta che quando andiamo insieme in escursione troviamo
belle giornate. <<Evidentemente qualcuno lassù ci ama.>>Esclamo, e
con un sorriso commentiamo lo sfrontato pensiero. Nel tratto finale
dell’escursione ripercorriamo il dolce sentiero dell’andata fino al borgo di
Forno, dove ci aspetta un pigro gatto soriano dai colori delicati.
Gli ultimi istanti prima della partenza li trascorriamo a
sorridere, guardandoci intorno, felici dell’ultima esperienza. In auto
ripercorriamo la strada verso la pianura, riprendiamo gli anni dell’anagrafe e
le responsabilità. I ragazzi che fino a pochi minuti prima albergavano in noi
sono rimasti sul sentiero, per conquistare insieme altre mete e la libertà che
la società cosiddetta “Civile” ti nega.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa.
Note tecniche.
Localizzazione: Prealpi Carniche.
Avvicinamento: Lestans- Travesio-Clauzetto-Pradis di Sopra-
Forno- Sostare presso lapide dedicata ai caduti della prima guerra mondiale.
Località di Partenza: Forno.
Dislivello: 700n m.
Dislivello
complessivo: 700 m.
Distanza percorsa in Km: 7 chilometri.
Quota minima partenza: 600 m.
Quota massima raggiunta: 1245 m.
Tempi di percorrenza. 4 ore escluse le soste, e in
condizioni favorevoli.
In: Coppia.
Tipologia Escursione:
Escursionista-ambientale
Difficoltà: Escursionisti Esperti per via della presenza
di neve.
Segnavia: CAI 820.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: No.
Libro di vetta: Libro di casera.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1)
Cartografici: Tabacco 028
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo consigliato: Tutto l’anno.
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: Ben marcato e segnato.
Fonti d’acqua: Nessuna.
Consigliati:
Data: 06 febbraio 2018
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
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