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lunedì 12 febbraio 2018

Malga Lovet da Forno.

 
Malga Lovet da Forno.

Racconto.

La neve negli ultimi mesi è una presenza costante sui monti, sicuramente sgradita da chi ama andare in montagna con zaino sprovvisto di ramponi e ciaspole, e soprattutto per chi ama affrontare le crestine o i sentieri esposti. Ispirandomi al detto ”mal comune, mezzo gaudio”, ho chiesto a Roberto se si sentiva di venire su in montagna, in località Forno, come meta ho pensato alla casera Lovet.

La cima del Taiet vista dalla pianura friulana (la malga Lovet è poco dietro la cresta) appare fin troppo coperta di neve, quindi con l’amico Roberto partiamo muniti con tutto l’occorrente. Approfitto della meta per far conoscere all’amico, Clauzetto e i luoghi limitrofi.

Alle prime ore del mattino percorriamo in auto l’altopiano che domina la pianura friulana, seguendo le indicazioni per Pradis di Sopra.

Ci fermiamo nei pressi del cimitero di guerra.

Tra il 5 e il 6 novembre del 1917 si combatté la famosa battaglia di Pradis: tra i militi del regio esercito italiano (in ritirata dalla rotta di Caporetto) e le truppe austriache e tedesche.

La visita agli sfortunati soldati è un dovere a cui non ci sottraiamo. Entriamo nel piccolo cimitero, le tombe dei soldati stanno in ordine, ben allineate come fossero in adunata. Le prime sepolture sono quelle dei militi italiani, sulle poche targhe che ho letto è scritto ignoto, una bandierina tricolore e una croce greca in metallo ne testimoniano la nazionalità; dietro di esse le croci dei soldati austriaci e tedeschi, sono entrambe di pietra e a forma di croce latina, le differenzia solo il nastrino: i tedeschi hanno il tricolore a strisce orizzontali giallo-rosso-nero, gli austriaci i colori rosso e bianco.

Un silenzio carico di preghiera regna sovrano, le croci e le lapidi non sono ricoperte da neve, strano, mentre il resto del cimitero lo è, come se la neve si fosse dissolta percependo il calore dello spirito di chi ha donato l’unica ricchezza che possedeva.

Uscendo dal luogo sacro chiudiamo delicatamente il cancello, avrei voluto mettermi sugli attenti e salutare al basco, gli abiti che indosso sono poco decorosi per gli eroi, così mando un bacio accompagnandolo con la mano, un segno d’affetto, sentito, verso i miei fratelli che dormono il sonno eterno.

In auto proseguiamo verso la località di Forno, sorrido a sentire i commenti di Roberto nell’ammirare questo magnifico territorio. Giunti a Forno, mentre ci approntiamo decidiamo di lasciare le ciaspole in auto, i ramponi sicuramente ci saranno utili. La meta di oggi è la classica fava con cui si prendono più piccioni. Roberto ha un conto in sospeso con la malga Lovet, per pochi metri a causa di un temporale non la raggiunse; io non ho mai percorso il sentiero 820, undici anni fa effettuai l’intero anello del monte Taiet con il prode Magritte, ma partendo dal monte Dagn. Quindi oggi si sale nella speranza di raggiungere la malga, sperando che la neve ce lo permetta. Iniziamo l’avventura, dopo pochi metri sulla carrareccia, un cartello CAI ci invita a seguire il ripido sentiero segnato erroneamente 821 in vece di 820.

Guadagniamo quota, risalendo il crinale del Cuel For dal versante orientale. Il tracciato è ben marcato e risale la pineta dove incappiamo nella prima neve, seguiamo le orme di un piccolo mammifero (probabilmente tasso esso come quasi tutti gli animali del bosco trova comodi i sentieri, l‘animaletto ci guida sino alla forcella. Attraversiamo un ponte di legno, che riteniamo pericoloso e inutile (il ghiaccio che stagna sulle tavole lo rende insidioso), sarebbe stato più logico scavare un gradino nella roccia sottostante.

Il sentiero dal versante orientale passa a quello occidentale mantenendosi sotto la cresta del monte Cecon, stiamo attenti a non prendere scivolate, con l’aumentare della quota si accresce la consistenza della neve, alcuni stretti tornantini ci portano a pochi metri dalla cresta della Forchiazza, dove accarezziamo le pareti rocciose alla convergenza del sentiero 821 proveniente dal Monte Dagn. 

Dalle indicazioni sulla tabella leggo che per la malga mancano solo 45 minuti, ma non tiene conto che ci aspetta un manto di neve spesso e chissà quanto insidioso. Il primo tratto dopo la forcella è rischioso, suggerisco a Roberto di trovare un fazzoletto di terreno in piano, dove organizzarci per ramponare gli scarponi e indossare le ghette, pochi metri dopo lo troviamo, sostiamo e ci approntiamo. Riprendiamo la marcia con maggior sicurezza, infatti la neve si fa più consistente e il percorso ripido. Faticando non poco, scorgiamo i segni sugli alberi, improvvisiamo grazie all’esperienza che abbiamo maturato un percorso, zizzagando, disegnando ampi tornanti, fino a superare il primo ostacolo. Non ci demoralizziamo, anzi, le difficoltà ci caricano. A volte Roberto avvista un segno, altre volte io, a dimostrazione che in questi frangenti, in due si procede con maggior sicurezza.  Percorriamo una cresta che si affaccia come un balcone sul versante meridionale, la bellezza del luogo è impressionante.

La paura creata dall’adrenalinico percorso bilancia la bellezza del paesaggio, gioiamo e temiamo nel medesimo istante. Raggiunto un punto difficile e super esposto, decidiamo di salire per il ripido pendio guadagnando la sommità del piccolo colle, pochi metri dopo scorgiamo un paletto CAI.

La bellezza del paesaggio invernale ci strega, nel nostro sguardo colmo di felicità si può leggere il tumulto che scatenano tali visioni. Scendiamo pochi metri e seguendo i radi segni sulle cortecce degli alberi risaliamo un altro costone da dove intravvediamo dal basso delle strutture in legno, ci siamo, la meta è vicina.

Una staccionata segna il perimetro del belvedere, una mappa è apposta nella tabella informativa e ci ragguaglia che mancano poche centinaia di metri alla malga. Al proseguo pensiamo dopo, ora godiamo di questo meraviglioso spettacolo, dal pulpito panoramico ammiriamo la pianura friulana, i monti sono totalmente ricoperti di neve, il paesaggio è da sogno, il solo vedere gli abeti carichi rende irreale l’ambiente. Ripresoci dall’euforia ci avviamo per la meta, seguendo nella neve qualcosa che somiglia a una traccia.

Il percorso è ostacolato dalle fronde dei faggi dove i fiocchi di neve si sono incastonati nei rametti, rendendo gli alberi simili a lampadari con gocce di cristallo, tale è la verosimiglianza che quando passo sotto sento il tintinnio.

La magia segue un crescendo, ci inoltriamo nella valle, all’improvviso appare la baita della malga di Lovet, dista solo pochi minuti ma la neve fresca rende faticoso il cammino, ci esalta sapere che siamo i primi bipedi a percorrere il magico manto bianco e ci avviciniamo a essa, come i tuareg nel deserto bramano l’oasi.

Sono vicinissimo e come in un flashback rivivo il ricordo di quando raggiunsi per la prima volta la casera; ricordando ancora le decine di zecche che mi camminavano sui pantaloni, Magritte era cucciolo e tanto giocherellone.  Pochi metri, ultimi passi e ci siamo, temo che la struttura sia chiusa, porta il numero civico 46, impugno la maniglia e presso verso il basso, spingendo verso l’interno, si apre!

Delizia, il ricovero ci accoglie, è confortevole, il camino è la prima cosa che scorgo, poi il tavolo, un accendino e delle mensole piene di oggetti. Alle brande si accede con una scaletta in legno.

Molliamo gli zaini, Roberto desidera accendere il fuoco, lo desidero anch’io, un’esperienza che in montagna non abbiamo mai vissuto, e subito ci mettiamo all’opera.

Mentre Roberto si adopera con diavolina e legnetti, nel locale accanto trovo qualche ciocco di legno, anche se mi sembrano umidi.

Il fuoco prende, quindi imbandiamo la tavola per il pranzo. Fatta la foto ricordo per i nipoti all’esterno del locale, iniziamo le danze, cedendo al Dio Bacco.

Il mitico Cabernet di Roberto viene versato nei calici, brindiamo all’amicizia, alla montagna e alla libertà. Iniziamo ad adoperare le mandibole sui panini (le vittime sacrificali di questo rito). Stranamente sentiamo più freddo dentro che all’esterno, il fuoco non emette calore ma solo colore, la temperatura che progressivamente si abbassa ci spinge velocemente fuori dal locale. Prima di abbandonare la dimora apportiamo una filma sul registro dei visitatori. Roberto si commuove nel leggere sul libro la frase e la firma di un suo caro amico recentemente scomparso. Momenti di tristezza, forse era destino che oggi l’amico salisse quassù, perché la scritta testimonia che quello spirito visse l’attimo in cui fu felice. Le mani sono fredde, spengo il fuoco, mi accerto che non crei danni, chiudo il locale.

I primi metri del rientro sono una fuga, tentiamo di scaldarci con il movimento, soffio dentro i guanti per creare calore con il fiato, Roberto, divertito, scopre che funziona e mi imita. Presto raggiungiamo il belvedere e ci spingiamo giù. Stranamente la discesa è meno impegnativa della salita, in pochi muniti siamo alla forcella, fuori dai guai e le mani hanno ripreso calore. Teniamo ancora un po’ i ramponi, ma dopo un tratto vedo che cominciano ad accumulare foglie, decidiamo di toglierli fermandoci su un tratto di sentiero dove l’erba è scaldata dal sole. Si, il sole, la giornata da grigia è diventata fantastica, il cielo è azzurrissimo, il sole infiamma. Roberto riflette, commenta che quando andiamo insieme in escursione troviamo belle giornate. <<Evidentemente qualcuno lassù ci ama.>>Esclamo, e con un sorriso commentiamo lo sfrontato pensiero. Nel tratto finale dell’escursione ripercorriamo il dolce sentiero dell’andata fino al borgo di Forno, dove ci aspetta un pigro gatto soriano dai colori delicati.

Gli ultimi istanti prima della partenza li trascorriamo a sorridere, guardandoci intorno, felici dell’ultima esperienza. In auto ripercorriamo la strada verso la pianura, riprendiamo gli anni dell’anagrafe e le responsabilità. I ragazzi che fino a pochi minuti prima albergavano in noi sono rimasti sul sentiero, per conquistare insieme altre mete e la libertà che la società cosiddetta “Civile” ti nega.

Il “Forestiero Nomade”

Malfa.

 
Note tecniche.

Localizzazione: Prealpi Carniche.

Avvicinamento: Lestans- Travesio-Clauzetto-Pradis di Sopra- Forno- Sostare presso lapide dedicata ai caduti della prima guerra mondiale.

Località di Partenza: Forno.

Dislivello: 700n m.



 Dislivello complessivo: 700 m.



Distanza percorsa in Km: 7 chilometri.





Quota minima partenza: 600 m.



Quota massima raggiunta: 1245 m.



Tempi di percorrenza. 4 ore escluse le soste, e in condizioni favorevoli.

In: Coppia.



 Tipologia Escursione: Escursionista-ambientale



Difficoltà: https://www.vienormali.it/images/layout/dif-EE.gif Escursionisti Esperti per via della presenza di neve.

Segnavia: CAI 820.

Attrezzature: No.

Croce di vetta: No.


Libro di vetta: Libro di casera.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:

1)                  Cartografici: Tabacco 028

2)                  Bibliografici:

3)                  Internet:

Periodo consigliato: Tutto l’anno.

Da evitare da farsi in:

Condizioni del sentiero: Ben marcato e segnato.

Fonti d’acqua: Nessuna.

Consigliati:

Data: 06 febbraio 2018

Il “Forestiero Nomade”

Malfa




























































































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