Monte
Ghisniz 1927 m. da Bagni di Lusnizza.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Alpi Carniche Orientali.
Avvicinamento:
Gemona-Pontebba-Bagni di Lusnizza. Lasciare l’auto poco prima della pista
ciclabile, presso il piccolo ponte che attraversa il Fella.
Dislivello: 1287
m.
Dislivello
complessivo: 1460 m.
Distanza
percorsa in Km: 15 km.
Quota minima
partenza: 640 m.
Quota
massima raggiunta: 1927 m.
Tempi di
percorrenza. Quasi 5 ore l’andata a
causa del difficile orientamento e la percorrenza dentro una fitta mugheta.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione:
Difficoltà: Escursionisti
Esperti con ottima preparazione fisica e spiccato senso dell’orientamento.
Segnavia:
Sparuti bolli rossi e fettucce rosse.
Attrezzature:
Si.
Croce di
vetta: No.
Libro di
vetta: Collocato dal sottoscritto.
Timbro di
vetta: No.
Cartografia
consigliata: Tabacco 018.
Periodo
consigliato: maggio-ottobre.
Condizioni
del sentiero: In molti tratti inesistente, poco marcato e segnato
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa
Lo Ghisniz, è
un monte di cui ignoravo l’esistenza. Durante L’ultima escursione effettuata
sul Cuel dai Pez, ho notato questa cima illuminata dal sole, ne ignoro il nome.
E’ cosi bella che durante l’escursione non riesco a distogliere lo sguardo da
essa. Finita l’escursione, appena giunto
in auto ho scrutato la mappa del friuli, e ho letto il nome, “Ghisniz”. Sicuramente
durante la “Grande Guerra” questa montagna era compresa nel territorio
Austro-ungarico. Oltre allo Gnisniz, lungo la prosecuzione della cresta a
occidente, si intravede un altopiano con delle strutture. Si tratta di un ex
base Nato, dismessa, e la cima gemella prende il nome di “ Scinauz”. Quest’ultimo era raggiungibile
solo dalla Val Canale tramite una teleferica, anch’essa dismessa. Sono tante le
tipologie degli escursionisti: chi è fedele ad una cima e ci sale più di cinquanta
volte e in tutte le salse, e chi è puttaniere come me, che prova un immenso
piacere solo durante la prima ascensione. Si può essere d’accordo o no, fatto
sta che la vita è breve e le cime sono tante, ma così tante che nemmeno se fossimo
immortali potremmo visitarle tutte. Ecco perché vale la pena di sedurle, facili
o difficili che siano. Il monte Ghisniz, è una cima speciale, selvaggia, poco
frequentata. L’elevazione ha un sentiero d’accesso che si biforca alla partenza
per poi ricongiugersi alle pendici del monte Pin. Mentre commentavo sul forum
lo Scinauz, il mio amico “Apache”, alias Stefano, l’enciclopedico (conoscitore
dei monti regionali e non), mi stuzzica, in un modo subdolo parlandomi dello
Gnisnic, come a volermi dire: <<Ti piacciono le fragole con il succo
d’arancia e un goccio di liquore?>>. Insomma, mi ha fatto venire
l’acquolina in bocca. <<Lo Ghisniz, deve essere mio!>> Ho pensato .
<< Cascasse il mondo, a costo di dormire in montagna sotto le frasche.>>
Mercoledì che il meteo promette bene, si parte. Preso dall’entusiasmo mi organizzo,
mi informo dal web sulla praticabilità del sentiero. Il versante meridionale
del monte è impervio, selvaggio, e poco frequentato, quindi decido di portarmi
al seguito il troncarami. Sono consapevole di essere matto, ben sapendo che mi
aspettano 1400 metri di dislivello, oltre a raddoppiare l’approvvigionamento
d’acqua aumento anche il peso dello zaino. Arriva la mattina, e mi sento in gran
forma, accompagno la prole alla stazione ferroviaria di Gemona e proseguo per
Pontebba e successivamente per la località di Bagni di Lusnizza. Sono in
anticipo con i tempi, seguo le indicazioni per il “museo della Foresta” spingendomi
verso il ponticello che attraversa il Fella. Lascio l’auto poco prima di una
pista ciclabile, e mi appronto. La giornata è favolosa, sono elettrizzato per
l’avventura che mi aspetta. Con me, oggi, al seguito non c’è il prode amico a
quattro zampe, vista l’età gli risparmio quest’ultima fatica. Superato il bel
ponticello (anno di costruzione 1926 D.C) che attraversa il Fella (vietato al
traffico motorizzato) raggiungo l’altra sponda. Dovrei trovare l’attacco del
sentiero, cerco tra la vegetazione e non scorgo nulla, scendo nel torrente,
niente! Risalgo, cerco ancora nella vegetazione. Ecco, ho trovato! Tra le alte
falesie, una di esse è franata, scorgo un cartello in legno con la scritta “Scinauz”.
Cavolo! Il sentiero inizia subito ripido, la traccia ascende una parete franata
con passaggi friabili, se il buongiorno si vede dal mattino, ho chiaro da
subito il motivo dominante dell’escursione, “la fatica”! La labile traccia
risale il costone erboso, rade tabelle metalliche rosse piantate agli alberi
fanno da segnavia. Devo prestare molta attenzione, e non farmi ingannare dalla
miriade di sentieri. Il primo tratto del bosco è una pineta, altri segni sono
rade fettucce color rosso. Un simpatico ometto attira la mia attenzione, il suo
costruttore ha adoperato una bottiglia di vino a mo’ di freccia posta tra i
sassi. Il sentiero prosegue a settentrione, di spallone in spallone, addentrandosi
nel bosco che cambia con l’innalzarsi della quota la tipologia della
vegetazione. Dalle conifere ai faggi, stando attento a non perdere la traccia, sono
alla ricerca di bolli e fettucce. Dopo aver costeggiato il rio Caludat mi porto
sulla cengia che dall’alto domina il rio Mascili. La traccia percorre il fianco
meridionale di una parete rocciosa, diramandosi dopo pochi metri. Vengo
ingannato da una traccia che sale sopra di me, la percorro risalendo l’esposto
costone. Non trovando più bolli e fettucce, mi avvedo che ho lasciato il
sentiero segnato per una ripida scorciatoia. Non mi demoralizzo, fidandomi del
mio intuito proseguo. Supero passaggi esposti, alcuni di primo grado, fino a
raggiungere il vertice del costone, dove la traccia più marcata mi porta alla
base di una paretina di secondo grado. Mentre la sto per risalire mi sorge un
dubbio, il campanellino interiore suona e mi consiglia di tornare sui miei
passi per dare un’occhiata intorno. Una volta sceso constato che la traccia di
prima sotto forma di esposta cengetta attraversa un esposto tratto, aggettante
sul “Vallone di Rio Bianco” per poi risalire. Alcuni mughi mi sono d’impaccio, è
il primo incontro ravvicinato del terzo tipo con il famoso cespuglio aghiforme
appartenente alla famiglia delle Pinaceae. Superato l’ostacolo ritrovo il
sentiero con bolli rossi e fettucce, rimango sempre sbalordito del mio senso di
orientamento, in un'altra vita sicuramente ero un “Apache”. Ripreso il cammino,
tra i faggi e pini neri, proseguo con non poche difficoltà. Ho intuito che la
traccia percorre la cresta del costone. Raggiungo una parete rocciosa, esposta
su entrambi i versanti che va salita con cautela per gradini rocciosi resi
infidi dal ghiaino. Alcuni cavi arrugginiti sono utili, superato quest’altro
ostacolo rientro nel fitto bosco. Tra le fronde riesco a intravedere la cima, il
sentiero (non tracciato, ma segnato) in diagonale mi dirige fuori dal bosco che
copre il rilievo (monte Pin), superando il fitto mugheto in un punto dove è
stato creato un varco. Fuori dalla selva posso ammirare quello che io definisco
il “paradiso”, ovvero la parte finale dell’escursione: un ripido pendio, arido
di vegetazione, che porta alla base delle pareti rocciose. Dal basso si
intravedono alcuni canali di accesso alla vetta, il secondo di quest’ultimi a
occhio nudo sembra il più accessibile. Risalgo un primo tratto tra rocce
friabili, attraverso il pendio desertificato, sicuramente un incendio in
passato ha bruciato il mugheto, rimangono a testimonianza della combustione,
alcuni scheletri della pianta. Vista la facilità del tratto proseguo senza
traccia, lambendo il ripido e dirupato versante settentrionale. Seguo il lungo
il costone fin sotto le verticali pareti, poi la traccia sì biforca. Quella a
sinistra, segnata con i bolli rossi è la via alpinistica che porta al monte
Scinauz, io proseguo a destra senza una traccia, zizzagando e mirando alla
parete rocciosa. Raggiunta la base di quest’ultima tralascio il primo canalino
(incassato con passaggi di primo e secondo grado), portandomi sul secondo canalino,
più largo e più facile, anche se reso infido dal ghiaino. Decido di liberarmi dal
pesante fardello rappresentato dallo zaino, proseguendo con lo stretto
necessario riposto dentro la mini sacca, con il troncarami al seguito. In alto
al canalino, supero passaggi di primo grado, facilitato dai mughi che uso come
passamano o corda. Fuori dal canale un’esposta cengia è invasa dai mughi,
comincio a usare l’arnese al seguito, aprendomi il varco. Ci sono tracce, ma
spesso sono ostruite dalla fitta mugheta. Mi porto sotto un gruppo di rocce, e
come Gesù che “camminava sulle acque”, io lo imito sui fitti mughi, per
ritrovare un minimo di calpestio. La cresta finale dello Ghisniz è il tratto
più impegnativo dell’intera escursione. Quando penso di essere arrivato alla vetta,
scopro che essa è sempre più in là. La lotta è impari, i mughi in questo
frangente si stanno rifacendo e con gli interessi di tutte le cortesie che mi
hanno concesso nella mia esperienza da escursionistica. Essi, ignari, non
conoscono la mia “Volontà di Potenza”. Vogliono la guerra, e guerra sia! Raggiunta
l’ante-cima scorgo in lontananza la vetta, dovrei demoralizzarmi, ma non mi
arrendo! Penso tra me: <<No problem!>> Vado avanti, ravanando e
aprendomi altri varchi fino a ritrovarmi a pochi metri dalla meta. Nella roccia
sottostante scorgo una canaletta, esposta a sinistra sui dirupi settentrionali,
mi ci calo dentro, lo spazio è angusto e stretto, esco fuori raggiugendo l’ultimo
cespuglio di mughi, che precede lo spuntone di roccia che materializza la
vetta. Essa, la cima è sormontata da un piccolo ometto che raggiungo attraverso
la roccia scolpita a gradoni. Eccomi in vetta! La piccola asperità sarà grande
quanto un fazzoletto, ed esposta su entrambi i versanti. La gioia è
indescrivibile. Mi siedo, sgancio la sacca, emettendo un profondo respiro.
L’emozione che ha preso il posto della ragione ritorna sui suoi passi. Estraggo
dalla sacca il contenitore cilindrico (fatto con due bottiglie di plastica
incastrate tra loro) con annesso libro di vetta e penna. Aggiungo il nome della
vetta e la data odierna, e successivamente lo ripongo tra i sassi dell’ometto.
Mi guardo intorno, tutto è bello, mi alzo con perizia, ed effettuo un filmato,
naturalmente nel girarmi sto attento. Nelle riprese si noterà qualche tremolio.
Di solito in cima effettuo un autoscatto per apporre la firma sull’escursione,
ma da questo pulpito mi è impossibile. Corro il rischio di fotografarmi mentre
volo giù dalla montagna, sarebbe una fine degna di Icaro, ma ho in programma
altre montagne da visitare; quindi opto per un autoscatto ravvicinato del secondo
tipo. Effettuate le foto, riprendo il cammino, scendendo dal piedistallo di
vertice, effettivamente le rocce sommitali gli somigliano. Inizio il rientro
dal camino, risalendolo e cercando di non rimanere incastrato. Una volta sopra
ricammino sui mughi, per poi seguire la labile traccia, ripassando dai tratti
dove avevo fatto un po’ di pulizia con il troncarami. Stranamente al ritorno
procedo lesto, ho memorizzato bene il percorso. Una volta raggiunto lo zaino
nel canalone, effettuo una sosta. Mi siedo su un gradino roccioso, estraggo
dalla sacca la borsa viveri per consumare qualcosa, ero a corto di energie.
Rifocillatomi, ripongo il materiale e continuo la discesa. Superato il ripido pendio
inerbito, senza problemi mi ritrovo nel bosco o selva oscura, naturalmente
senza la compagnia abitudinaria di Magritte e ne del Sommo Poeta, ma solo con
le ombre degli alberi. Mi concentro sul cammino: con un occhio a dove metto i
piedi e l’altro a cercare qualcosa di rosso tra la vegetazione. Rifletto sui
problemi che avrebbe un daltonico nell’attraversare il bosco. Stranamente, il
rientro, che temo di più rispetto all’andata, si rivela meno complesso di
quanto m’aspettassi. Segno dopo segno,
traccia dopo traccia, riesco con moderata velocità ad abbassarmi velocemente di
quota, finché giungo nel punto dove avevo perso il sentiero all’andata. Stavolta
procedo per bolli rossi, scoprendo che, se non avessi perso la traccia avrei
allungato l’escursione di almeno mezz’ora. Ho impiegato poco tempo in discesa,
e dall’alto riesco a intravedere il borgo di Bagni di Lusnizza. Posso
concedermi un‘altra meritata pausa, ne approfitto per travasare l’acqua dalla
bottiglia contenuta nello zaino a quella che tengo a portata di cintola, e
consumare il panino. La voglia di farmi
una pennichella è forte, me ne starei ore disteso sull’erba, ma gli impegni con
la civiltà e il calare del sole mi suggeriscono di “alzarmi e camminare”.
L’ultima parte del sentiero scorre liscia come l’olio, stavolta non odo più il
silenzio del bosco, ma lo scorrere degli automezzi che percorrono per statale e
autostrada la Val Canale. Raggiunto
l’inizio sentiero, scarico la tensione. È fatta! Percorro il ponticello che mi
porta all’auto, mi fermo, torno indietro collocando la macchina fotografica su
un pilone in modalità di autoscatto ed effettuo una posa fintamente spontanea, “il
sottoscritto che percorre il ponticello”. Un’immagine che rispecchia, il mio mondo
di sognatore nomade e di forestiero, che ama e vaga per monti. Il vostro
“Forestiero Nomade”
Malfa
Buongiorno,
RispondiEliminaVolendo salire allo Scinauz, ammesso di giungere al bivio che lei ha così ben descritto, ci sono tratti esposti?
Ci terrei molto a salire per visitare le installazioni della ex base Cedrone.
N.B
luglio 2020 tentata ascesa da Pramollo, esito negativo, percorso su pista forestale troppo lungo.