Monte Re dalle cave
di Predil.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Alpi giulie Occidentali. Gruppo dello Jof Fuart.
Avvicinamento:
Gemona -Chiusaforte-Sella Nevea-Lago di Predil -Cave di Predil.
Punto di
Partenza: Cave di Predil
Dislivello:
1000 m.
Dislivello
complessivo: 1076 m.
Distanza
percorsa in Km: 9 km.
Quota minima
partenza: 900 m.
Quota
massima raggiunta: 1912 m.
In: Solitaria
Tipologia Escursione. Selvaggia
Escursionistica.
Difficoltà: Escursionistica.
Segnavia: Bolli
rossi sbiaditi, sparuti ometti.
Tempo
percorrenza totale: 5 ore
Fonti
d’acqua: Nessuna.
Attrezzature:
Vecchi cavi in metallo poco dopo la partenza.
Cartografia
consigliata. Tabacco 019
Periodo
consigliato: Dalla primavera all’autunno.
Condizioni
del sentiero: Ben marcato, scarsamente segnato.
Data: 03
dicembre 2016.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa.
Relazione
Monte RE,
ovvero " La bellezza alberga negli occhi di
chi guarda".
Monte
Re è una bella montagna, ingiustamente snobbata dai più e da coloro che cercano
solo un nome famoso da incollare sulla propria collezione. Avevo bisogno di “Montagna”,
sana montagna, ero stufo dei mille pensieri della vita quotidiana che mi
distraggono dal mio io. Fino all’ultimo istante ho in mente un’altra meta, il
monte Re visto dalle foto e letto dalle relazioni non mi entusiasmava anche se è
sito in una delle più belle valli del Friuli Venezia Giulia. La notte mi porta
consiglio e la mattina decido di scalare la lontana cima nelle alpi Giulie
occidentali. Con me porto Magritte, per la sua cento-undicesima cima, si è allenato
abbastanza, o meglio, l’ho abbandonato fin troppo, ma oggi sarà di nuovo protagonista.
Partenza ritardata per via del freddo e del meteo, a valle è nuvolo, spero che
sia meglio verso il confine. Giunto a Chiusaforte imbocco la strada che
percorrendo la Val Raccolana mi porta a Sella Nevea. Lungo il percorso osservo
il paesaggio gelato dalla bassa temperatura, il tepore emanato dal
riscaldamento dell’auto attenua l’impressione provocatami dalle cascate di
ghiaccio che grondano dalle montagne. I borghi sono ancora inanimati, i camini
fumano, la vocina interiore mi dice che è stato straziante, duro e violento
l’addio che ho dato al piumone poche ore prima. Giunto a sella Nevea un bisogno
primario mi colpisce, durante la delicata operazione volgo lo sguardo alla
pista da sci, è l’unico soggetto innevato guardando verso il Canin. La
temperatura è meno fredda di quanto sospettassi, rincuorato varco la sella scendendo
nella splendida valle del Rio del Lago. La neve copre solo le cime dai 2200
metri in su, ho l’impressione, vista l’esposizione a oriente che faccia meno
freddo. Sosto un attimo con l’auto ad ammirare il lago e subito dopo proseguo
per il monte che sin da lontano mostra la struggente ferita provocata dalla
miniera. Raggiungo Cave del Predil e mi inoltro nel borgo minerario, mi sembra
di entrare in una cittadina del vecchio western. Con la fantasia volo, non vedo
auto in sosta ma cavalli fuori dal saloon, mi fermo chiedendo a dei cowboy da
dove parte la pista per la miniera. Mi guardano stupiti, osservano il mio ronzino,
uno di loro sorride e mi avvisa che la pista è infestata da serpenti a sonagli
(buche). Magritte ringhia, l’altro compare intuisce che non siamo degli sprovveduti
e mi indica la fine del villaggio da dove inizia la pista. Ringrazio, supero il
ponte in legno e il rio sottostante legando il cavallo, pardon posteggiando
l’auto subito dopo il museo dedicato alla miniera. Ho deciso di partire dal borgo,
così effettuo cento metri di dislivello in più che mi permettono di ammirare le
abitazioni del centro minerario. L’escursione è un viaggio a ritroso nel tempo,
e pensare alla comodità a discapito della poesia è da furbetti. Zaino in
spalle, Magritte e sogni al seguito si parte. Percorro una vecchia carrareccia
piena di buche la seguo attraversando un rivolo e una serie di tornanti che con
larghe curve risalgono il costone boschivo (Abeti Bianchi) Costeggio dei vecchi
edifici, alcuni in condizioni precarie. Si sente la non remota presenza
dell’uomo, dalle abitazioni anche se disabitate odo delle voci, sento il
fischio della moka e l’odore del caffè. I bambini si apprestano ad andare a
scuola, e tutto questo è dipinto nei ricordi di pochi. La carrareccia finisce
il suo corso nei pressi di alcune strutture (quota 1023), ora adibite a rifugio
e magazzino. I vecchi macchinari sono la testimonianza di quello che fu. Seguo
un sentierino che prosegue insieme a un tubo in metallo, quest’ultimo spesso mi
farà da guida fino all’alta Cava. Un mezzo cartello inchiodato ad un tronco con
la scritta” Re” e una rosa rossa artificiale mi indicano che sono nella giusta
direzione. Il bel sentiero marcato risale il costone boschivo tra vecchi faggi
e pini silvestri. Il percorso è molto ripido e sicuramente influisce con
l’ossigenazione del sangue e degli effetti collaterali provocati al cervello.
Non vedo più tronchi d’albero, ma umani trasformati in legno, tronchi che pur lentamente
si muovono. Non sono spogli ma ignudi. Riconosco tra essi vecchie meretrici che
hanno donato il loro corpo alla divina arte, facendo innamorare i viandanti. Tanti
corpi aggrovigliati tra loro, un sensuale e lento movimento erotico. Altri sono
solitari e spogli come se la sventurata vita li avesse colpiti, rendendoli
vittime del fato. Passo tra i rami spezzati di un faggio e osservo quelle dei
suoi fratelli che privi di foglie sembrano cento braccia con mille dita, ed
ognuno di essi mi indica una cima. Mi fermo, sono commosso e ispirato, ho forti
emozioni, estraggo dal taschino il cellulare e mi spedisco un messaggio "
La bellezza alberga negli occhi di chi guarda". Penso: <<Chissà dove
ho letto questa frase? La sento mia e proseguo fantasticando, tronco dopo
tronco, pardon “corpo dopo corpo”. Gli alberi sono vivi, mi fanno compagnia,
hanno un’anima, un sesso, un volto, ignorare ciò è impossibile. La montagna si
manifesta anche con i suoi simboli. Seguendo l’onnipresente tubo o filo di
Arianna raggiungo la base del piccolo monte del Re. Una recinzione e la chiara
traccia compreso di tubo in metallo vanno a destra in direzione della “Cava
Alta”. Rimando la visita al sito minerario a dopo, sempre se il meteo regge. Seguo
la traccia sul crinale e pochi metri dopo raggiungo la cima erbosa del piccolo
Monte Re, materializzata da una croce composta da tutti gli arnesi e oggetti
adoperati dai minatori. Un momento di riflessione avvolge il mio stato d’animo,
benché io sia ateo, non posso fare a meno di fermarmi, dedicando più di un
minuto del mio tempo all’opera dedicata ai minatori. Ripreso il cammino mi
inoltro in una faggeta che copre la sella che si collega al corpo principale
del monte, essa rasenta alla sua sinistra il pauroso baratro creato dall’ex
cava. Il sentiero nascosto tra il fogliame risale il costante erto pendio
boschivo. Passo vicino una spelonca e presso di essa incontro tre faggi
particolari: due sono amanti e si amano alla follia, contorcendo i loro corpi
in mille flessioni, tali da sembrare più di due. Accanto a loro veglia il
vecchio corpo di uno spirito libero, che visse in eterno e amò a lungo, e per
l’eternità vigilerà l’oggetto del suo desiderio. I vecchi faggi si prostrano ai
nobili signori della montagna “i larici”. Quest’ultimi avendo perso l’oro si
stagliano nel cielo come splendide chine. Raggiunto un salto roccioso lo aggiro
con attenzione sulla destra e superatolo mi ritrovo immerso in un oceano di
mughi. Il sentiero anche se accidentato in alcuni tratti è reso sicuro dai rami
del pino mugo, è una foresta verde che si scaglia nel cielo azzurro. Finalmente
raggiungo la cresta e volgo lo sguardo a occidente da dove posso ammirare il Jof
Fuart e le cime circostanti. La cresta è ancora da attraversare, la fatica si
fa sentire, ma sono in dirittura di arrivo, dall’ante-cima finalmente scorgo la
cima, una piccola cengia esposta a settentrione mi accompagna alla meta. Ultimi
metri tra i mughi, supero alcuni ometti e finalmente sono in cima. Su un
piedistallo azzurro con cassetta porta libro di vetta è posta una corona color
giallo con i simboli dei minatori. Zaino a terra, mi godo l’idilliaco
paesaggio. Nel frattempo il sole aveva accompagnato i miei ultimi metri prima
della cima, sgombrando il cielo dalle nuvole e dipingendolo di azzurro intenso.
Che dire? Sono strafelice! Lo grido ai quattro venti, ai monti circostanti che
riconosco e ho avuto l’onore di visitare: la vicina cima del Cacciatore, il Grande
Nabois, il Montasio, lo Jof Fuart, il Mangart, le Ponze, il Picco di Mezzodì, i
Due Pizzi, il Canin, solo per citarne alcuni. Mi giro e rigiro, inscenando una
danza liberatoria. Il sole mi scalda e
mi sussurra:<< Bravo Giuseppe, riempiti il cuore di questi istanti, guarda
e non fermarti. Sazia la tua fame di infinito:>> Ispirandomi al nome del
monte mi sento un Re, e quella corona la sento sul capo, per un attimo con il
mio fido scudiero siamo gli aristocratici di questo infinito, non ci rimane che
ritornare comuni mortali e saziare anche la volgare fame dello stomaco.
Estraggo dallo zaino i viveri rendendo felice Magritte. Cima, cibo e libertà, cosa possiamo
desiderare di più. Ci fermiamo un bel pezzo, anzi di più, godendoci la
splendida giornata invernale. Dopo aver apportato la firma sul libro di vetta,
mi appresto alla discesa, “appresto” è un modo di dire, ho impiegato venti
minuti ad allestire per la discesa. Nella fantasia avrei voluto trasformare il manto
d’erba in un caldo piumone e addormentarmi quassù, con lo sguardo rivolto alle
magiche montagne giuliane. Ma questo non è possibile, qualcuno laggiù nella
valle ci ama e reclama. Quindi rinunciando a questo sano egoismo rientriamo
ripercorrendo il sentiero dell’andata. Accompagnato dal sole raggiungo la cava
alta, piccola doverosa deviazione per il museo a cielo aperto, e successivamente
per lo stesso sentiero dell’andata fino al villaggio minerario in basso. Triste
lasciare questo luogo. Ritornare è stato come ridestarmi da un bellissimo sogno.
Rientro nella pianura friulana, illuminata da un cielo azzurro con piccole
chiazze rosa. Il mio cuore come una meretrice, dimentica questo sogno pensando
al prossimo.
Il vostro “Forestiero Nomade”
Malfa.
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