Monte Cuccio
Monte
Cuccio 1082 m.
Note tecniche.
Localizzazione: Palermo
Avvicinamento: Partenza dal centro storico di Palermo, piazza S. Onofrio, ove
una volta scorreva il fiume Papireto
Dislivello: 1082 m.
Dislivello complessivo: 1100 m.
Distanza percorsa in Km: 30,300.
Quota minima partenza: 0 m.
Quota massima raggiunta: 1082 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore
In: Solitaria.
Tipologia Escursione: Escursione, storico-naturalistica-selvaggia
Difficoltà: Escursionisti Esperti.
Segnavia: Nessuno.
Impegno fisico: Alto.
Preparazione tecnica: medio alta
Attrezzature: No.
Croce di vetta: No.
Ometto di vetta: No, solo un prisma dell’IGM.
Libro di vetta: No.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1) Cartografici: IGM Sicilia - Tabacco.
2) Bibliografici:
3) Internet:
2) Periodo consigliato: Tutto l’anno
3) Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: inesistente
Fonti d’acqua: una fonte pochi metri sotto la vetta.
Consigliati:
Data: 29 luglio.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Monte Cuccio, la bella piramide si erge a settentrione di Palermo, essa per
anni è stata per un mistero per il sottoscritto. L’elevazione si nota dalla
città per l’inconfondibile forma e per i ripidissimi e assolati versanti,
sprovvisti quasi del tutto di vegetazione arborea.
Palermo, la città che domina la Conca d’Oro, così si chiama la pianura che la
circonda, è protetta dal mare e da un arco di monti. Immagino lo stupore che
provarono i fenici nello scorgere per la prima volta il golfo, un autentico
paradiso in terra e in esso vi crearono il nobile centro abitato. Da bimbo
osservavo le varie elevazioni che circondano la città, fantasticando, ora, in
età matura è giunto il momento che ne percorra le creste. In queste ultime
vacanze nella città natia dubitavo di poter fare eccessivi sforzi, ho un’anca
che mi crea problemi, a presto dovrò fare un intervento chirurgico, quindi sono
giunto a Palermo, convinto di dovermi limitare. Ma la testardaggine e la forza
di volontà sono due delle mie caratteristiche, quindi ho deciso di compiere
l’impresa.
Ho letto su alcuni blog locali che in passato si pensava che la montagna fosse
un vulcano spento, per via della forma di cono rovesciato. Alcuni giorni prima
ho studiato il rilievo dal terrazzo dell’abitazione di mia sorella, il tramonto
ne tingeva la cima e l’ante-cima, tanto somiglianti alla piramide di Cheope al
morire del sole. Ho subito un’attrazione fatale, le ore per l’ascesa erano
contate. Arriva il giorno dell’escursione partenza anticipata, la sera
precedente ho preparato lo zaino, niente panini al seguito, solo pomodorini e
frutta, e naturalmente tanta acqua.
Percorro le strade del centro storico nell’ora in cui i palermitani mattinieri
lasciano l’abitazione per recarsi al lavoro. Una temperatura frizzantina
portata dalla brezza di mare mi accompagna nei primi passi. Percorro le
stradine tra i noti edifici monumentali, tra cui spicca il teatro Massimo e le
chiese che variano di stile, dal gotico al barocco. Tagliando per vicoli e
vicoletti mi ritrovo nei pressi di via Dante, confine tra il vecchio centro
storico e il più recente, quello liberty. La villa Florio e i palazzi
neoclassici sono il confine tra il vecchio e il nuovo mondo costituito
dall’edilizia sorta dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Via Malaspina è l’arteria che taglia l’agglomerato fino ad arrivare ai
palazzoni nuovi, ma quello che non cambia in nessuna immagine è l’incuria a cui
sono abbandonate le strade, come se lo spazio comune non appartenesse al
singolo cittadino. Questa cattiva abitudine è difficile da estirpare, come se
tutto questo fosse una legge naturale.
Due ragazzi di colore escono da un portone, tengono delle scarpe in mano, uno
di loro prende una busta da una pattumiera e dopo averla pulita con uno
strappo, gli infila dentro le scarpe. Non giudico male il gesto, anzi, cerco di
capire la logica, non è difficile. Perché buttare un oggetto che può essere
utile; nel terzo mondo vivono con poco, e da noi il molto non basta mai.
Continuo il viaggio, dovrei prendere un autobus che mi porta a destinazione ma
non passa, l’attacco all’eventuale sentiero dista quasi 12 chilometri da dove
sono partito, ma non ho ancora avvistato nessun mezzo pubblico. Passo davanti
ai laboratori di pasticceria, l’odore della crema domina il tutto, è
inebriante, rapisce e ti consiglia di entrare dentro il locale e consumare a
piene mani, facendo un pieno di calorie, resisto e stoicamente vado
avanti.
Ora sono in vista della meta, più mi avvicino e meno ripida mi appare, ne
studio il profilo, appare fattibile dal versante che ho scelto. Ancora nessun
mezzo pubblico è passato, sono quasi alla fine del tragitto urbano, mi trovo
davanti gli ultimi edifici della periferia.
Seguo istintivamente la direzione verso le alture, mi dirigo dentro un
villaggio tramite strada asfaltata e privata.
Oso! Percorro dall’interno il residence, tra pini marittimi e ville faraoniche,
salgo di quota, alcune ville mi colpiscono per lo sfarzo, appaiono disabitate
ma non lo sono, saranno sicuramente comode alcove per avventure galanti,
chissà?
Dopo una serie di tornanti sono quasi in cima alla collina che domina la
struttura residenziale, intravedo della pineta un sentiero non segnato, lo
percorro, esso con una serie di tornanti mi porta in cresta, spero che il colle
sia attaccato al resto del monte. Per terra trovo un oggetto, sicuramente
smarrito da un locale, l’ho pongo con cura di lato al sentiero, è un dono della
montagna.
Dalla cresta scopro che dovrò abbassarmi tanto di quota prima di effettuare la
vera ascesa al monte, il percorso che attuo è in libera, senza tracce, arrivo
alla base del colle per poi riprendere il cammino verso monte Cuccio. Varco
alcune recinzioni con all’interno greggi di pecore, successivamente scorgo un
gruppo di umani intenti ad attendere, non so che cosa.
A primo acchito pensavo che fossero sfollati o zingari, poi avvicinandomi mi
accerto che sono operai della forestale in sosta per la siesta. Saluto, mi
presento e chiedo delle informazioni inerenti a un eventuale sentiero che mi
porti in vetta. Pensano che io sia un matto, mi guardano incuriositi, mi dicono
che è difficile, quasi mi deridono. Per essere più convincente dalla lingua
ufficiale passo al dialetto, così i soggetti sanno con chi hanno a che fare, e
con alcune piroette verbali in un gergo arcaico convinco i miei concittadini
che non sono E.T, e che “quattru fila mi manciu” (quattro fila me li mangio,
intendendo gli spaghetti) espressione locale per dire che non sono uno
sprovveduto.
Ora gli amici sono socievoli, anzi quasi cerimoniosi, ma le loro informazioni
sono vaghe, ho compreso più io del monte con lo sguardo che loro nel lavorarci
sopra da una vita. Hanno solo pulito una fascia di terreno, che rimane
accidentato e non percorribile per la massa. Saluto l’operoso gruppo con un
burlone” Assabinirica” (siate benedetti) e procedo per la meta. A causa
dell’erba spinosa sanguino dalle gambe, decido di indossare i pantaloni lunghi,
così assumo l’aspetto del “Malfa il forestiero Nomade. L’abito nero non guasta,
poi mi fa secco e figo; quindi, in assetto da guerra vado all’attacco della
meta.
Raggiunto un traliccio della corrente elettrica, scavalco una staccionata
adornata di fil di ferro spinato, procedo a vista. Tra l’alta vegetazione e i
salti cerco di raggiungere un avvallamento per risalire un eventuale rio
asciutto. La fortuna mi assiste, trovo un esile traccia che taglia in diagonale
il versante orientale del monte. L’erba alta rende poco visibili i vecchi
sentieri ormai quasi del tutto scomparsi, questo che sto percorrendo mi porta a
oriente, fino a intravedere il versante occidentale. Mi rendo conto che seguire
la traccia è lunga, dispersiva e snervante; quindi, raggiunta la base della
cresta decido di percorrerne la schiena, naturalmente ascendendo.
La vegetazione è affascinante, il dorato dell’erba contrasta felicemente con il
verde della mala erba, radi alberi si ergono dalla roccia selvaggia e
tagliente.
Improvvisando mi porto in alto, a volte trovo tracce, ma preferisco mirare alla
sommità finché non intravedo le due cime.
La meno elevata delle cime dal basso appare più alta e l’altra viceversa. Do
un’occhiata, vado avanti e trovo un esile traccia che mi porta a oriente della
cima principale, presso un remoto abbeveratoio, da dove l’acqua non fluisce più
da anni.
Stavolta seguo un ampio tratturo e scopro una macchia folta di vegetazione
dovuta al continuo scorrere di un rigolo d’acqua. Seguo la provenienza della
linfa vitale finché trovo la fonte, sicuramente remota dove spesso si dissetano
gli animali selvatici. Raccolgo una piuma di corvo, la introduco nel nodo della
bandana e procedo, dirigendomi a ovest. Aggiro la cima, finché scorgo una
traccia proveniente da nord, ampia e percorribile anche da automezzi
idonei.
Mi congiungo con quest’ultima, e la seguo con una serie di tornanti fino alla
vetta del monte. L’erba selvatica fa sbocciare fiori deliziosi miste a spine
fantastiche. Delle farfalle volteggiandomi intorno cercano l’umidità del mio
sudore. Dopo l’ultimo tornante mi aspetta una miriade di antenne e parabole.
Eccomi in vetta, dove scorgo il prisma in metallo dell’IGM per i dati
trigonometrici. Supero la cabina elettrica e la miriade di cavi, e mi porto
avanti, a sud, sulle prime rocce da dove posso ammirare senza ostacoli il bel
paesaggio.
La città è lontana ed è circondata dal mare e dai monti. Mi libero dallo zaino,
mi siedo su una roccia comoda, e mi appresto a fare convivio.
Le derrate fresche sono delizia per il palato, e mentre le consumo, ammiro e mi
rilasso, contemplando l’ambiente circostante. Osservando Palermo da lontano,
essa mi appare splendente ed energica. Penso agli antichi viaggiatori e
mercanti come i fenici, che per primi scoprirono questo fantastico ambiente a
cui dettero i natali. E gli arabi che l’ampliarono e abbellirono, ai normanni e
agli svevi e i rispettivi imperatori e al magnifico Stupore del Mondo, che la
resero unica. Palermo, fucina di mille idee e città cosmopolita. Se il grande
imperatore svevo non fosse morto prematuramente sicuramente avrebbe realizzato
e anticipato di secoli un’Europa unita e civilizzata sotto lo stesso stendardo
e bandiera.
Penso alle maestranze bizantine, ad artisti come il Caravaggio, Serpotta,
Cagini, Antonello da Messina. E infine penso a Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, figli di questa terra ed eroi moderni, che hanno combattuto e non
invano contro un cancro che non prospera solo tra noi.
E io quassù, me ne sto seduto come il folle sulla collina, fantastico e piango
d’amore per uno scintillare di edifici all’orizzonte, perle preziose nello
smeraldo brillare degli agrumeti della Conca d’Oro.
Non mi stanco di estasiarmi per tutta questa magnificenza, la natura qui domina
tutto, le civiltà sono laggiù con il loro caos quotidiano. Quassù l’universo
non parla in palermitano, è astratto, perché protetto dalla fatica, dalla
ripidità dei versanti, e l’uomo comune non ama investigare perché codesta
attività comporta tanto impegno. Sono lontano dai pensieri dolorosi
dell’esistenza e da tutto quello che mi tormenta quotidianamente, sono solo,
solo…
Quassù non ho nessuno da abbracciare e che mi ricambi, nessuno da chiamare e
nemmeno da udire.
Sono solo, solo…
Vesto i panni usurati da mille sentieri, e una bandana che si lacera al solo
sventolare del vento che ne asciuga l’umido sudore. Azzurro cielo e terra
dorata date eterno riposo a un corpo che è stanco di ospitare una mente
irrequieta e sempre in pena, a volte demoralizzata da tutto e da tutti. I
pensieri malinconici si avvicendano velocemente come lo scorrere dell’acqua
dentro un rivolo, dopo un violento temporale. E ‘giunta l’ora di tornare viandante,
oggi sei forestiero anche nella tua terra genitrice.
Ripresomi dal fantasticare decido di compiere l’escursione ad anello, e visto
che sono a piedi, decido di scendere dall’altro versante. Il sentiero di
avvicinamento alla città è lungo, distante e tortuoso, quindi, consigliato dal
selvaggio istinto dopo aver studiato i vari fianchi del monte, intraprendo
quello più erto e diretto. Osando affronto i ripidissimi piani gialli ed
erbosi, sperando di raggiugere la strada in basso più di 900 metri di dislivello.
Con cautela mi calo dalle rocce sommitali e poi affronto il prato. Quello che
dall’alto appariva come un ripido prato ingiallito, in realtà si rivela un
percorso insidioso con fasci d’erba altissimi. Così inizio la lunga e faticosa
discesa, tra numerosi salti insidiosi e celati. Durissima esperienza questa che
ho intrapreso. In un tratto, a metà discesa, scivolo di spalle su un masso,
urtando violentemente la schiena, il colpo subito mi toglie per alcuni attimi
il respiro, mi è parso di morire, ma sopravvivo, portandomi come conseguenze un
forte mal di schiena. Bene Beppe, non sarà questo incidente a fermarti. L’acqua
comincia a scarseggiare, la raziono, devo arrivare giù, sperando di trovare una
traccia. Non scorgo nulla, tranne un ripido ed esposto versante, dove calandomi
mi tengo ai fasci d’erba come se fossero funi.
Le mani e le braccia sono striate di rosso, ma non mollo, finché dopo un paio
di ore raggiungo una trazzera. Sono salvo! Ora mi appresto a percorrere i 12
chilometri che mi separano dall’abitazione. Il primo tratto da percorrere è una
strada provinciale, da un cartello segnaletico leggo che mancano poche
centinaia di metri dal Monastero di San Martino, l’istituto per orfanelli in
cui fui rinchiuso da bimbo e da dove in un solo mese effettuai ben tre
evasioni.
Dopo 48 anni, percorro lo stesso tragitto d’allora, la fuga verso Palermo, la
libertà. Rimango sbalordito e allo stesso tempo ammirato, di come allora senza
esperienza affrontai e condussi a termine questa impresa. Vagai per monti, con
tutte le insidie che ciò mi comportò. Ho finalmente le risposte alle domande di
allora. Ero un lupacchiotto, con una gran voglia di vivere e lottare contro le
avversità della vita, avevo tanti sogni da realizzare. Oggi mi ritrovo ad
essere un vecchio lupo, claudicante, ferito dalla vita ma con la stessa voglia
di vivere di un tempo. Sogno e continuo a combattente, agguerrito e indomito
come sempre.
Dopo alcuni chilometri mi ritrovo alla periferia di Palermo, nel quartiere
Boccadifalco, ma quest’ultimo sembra lontano anni luci dalla modernità della
città. Le donne che siedono fuori dall’uscio delle abitazioni commentano quelli
che passano, questo riporta lontano, ai tempi di una civiltà contadina
scomparsa. Palermo, la felicissima, è laggiù, in fondo allo stradone, e mi
aspetta.
Fa caldo, l’azzurro cielo e l’infuocato asfalto mi accompagnano fino al caos,
al traffico, alla capitale. La gente corre in auto, sembra presa da una
continua frenesia e appare infelice.
Percorro la nobile strada che mi porta a ridosso della vecchia cinta muraria.
Mi fermo alla ricerca di un caffè, ho brama di un buon gelato, me lo sono
meritato. Ecco, avvisto una gelateria, ordino una brioche al limone, buona!
Divoro con gusto la delizia, e nel frattempo passo sotto Porta Nuova.
Dalla porta settentrionale della vecchia città dominata dalle sculture dei mori
e da un’aquila imperiale, proseguo per il centro storico, dove migliaia di
turisti fotografano e ammirano le meraviglie artistiche e architettoniche. Il
gelato è scomparso velocemente, di esso mi rimane il ricordo e il sapore di
limone sulle labbra. Lambisco la cattedrale con i suoi meravigliosi campanili
gotici, è proprio bello e surreale il complesso monumentale, come se una magia
l’avesse tinto in mezzo agli edifici barocchi e neoclassici. Poche centinaia di
metri ed eccomi arrivato all’abitazione da dove sono partito. Sono stanco, i
piedi bollono, ma sono pienamente soddisfatto, ho fatto un ‘impresa, una
piccola impresa rispetto a quelle note, ma per me è stata una gioia e regalo
inaspettato. Ho raggiunto il vertice di quella piramide che da piccolo
ammiravo, e da uomo vissuto l’ho conquistata. Penso a poche ore prima, a quando
sostavo in cima al monte, ero solo, solo... Sono ritornato bimbo e il mio cuore
ha palpitato con la stessa intensità di 53 anni fa.
Il Forestiero Nomade.
Malfa
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