Malfa.
Malfa.
Io , Magritte e il Monte Zérten, in un tempo non
lontano.
Ci sono amori che nascono a prima vista passionali,
così intensi che non ti lasciano un attimo di respiro, ti coinvolgono fino
all’inverosimile. Tutto nasce così per caso, uno sguardo verso l’infinito, un
cielo azzurro, la vedi per la prima volta, bellissima come non mai. Il suo
mantello color smeraldo, il suo capo ornato da una corona, rimani fermo
immobile ad ammirarla, vorresti incontrarla subito, ma l’ora è tarda e rinvii a
un prossimo dì, sperando che quel giorno sia il più vicino possibile. Non sto
scrivendo di una donna, anche se lo può sembrare, ma di una bellissima e
sconosciuta montagna: monte Zèrten o Cèrten, che domina come un tempio
ellenistico la valle del Vajont.
Mi questa meravigliosa elevazione mi ha
colpito sin da subito la cresta color oro, culminante con una corona di rocce
frastagliate e avvolta da un fitto mantello di smeraldo. Come non potevo
rimanere stregato!
Giovandomi delle mie buone capacità topografiche ne individuai la posizione e
il nome sulle mappe. Nella nota guida alpinistica del C.A.I “Guida dei monti
d’Italia –Dolomiti Orientali vol. II del Berti” il monte viene citato con un
laconico scritto, cito: << Monte Zérten o Cérten 1883m.- Ottima isolata
specola sulle valli Mezas- Vaiont- Zemola, Tuara. Pauroso a picco a Est verso
la forra del Vaiont. Interessantissima formazione geologica.>> Questo
breve trafiletto mi ha convinto ad esplorarla, cercando informazioni sul web e
chiedendo agli amici Spiriti Liberi. In breve tempo ho raccolto una valida
documentazione tale da rendermi impaziente fino al giorno dell’escursione. Il
fatidico dì giunge accompagnato da innalzamento della temperatura e del tasso
di umidità, questo mi ha consigliato di raddoppiare le risorse idriche nello
zaino. L’aria è afosa e umida, si parte per la valle del Vaiont. Giungo nella
vallata di Erto quando il sole inizia a filtrare la nebbia, rendendo tutto
magico. Una mano divina dipinge color pastello il paesaggio. La mia meta è
oltre il borgo di Erto, prendendo la rotabile alla sinistra della statale con
indicazioni per Pineda.
Devo attraversare il remoto letto del lago occupato dalla valanga che terribili
lutti inflisse sessantuno anni fa. Questa visione rende terribile e mistico il
passaggio da un versante all’altro. Osservo le pareti del monte Toc con le
ferite e da un’angolazione ravvicinata, tanto da aver timore, e per un attimo
immagino di rivivere il triste evento. Il buio è giunto all’improvviso, sento
la terra tremare e le urla strazianti provenire dai borghi. Percorro questo
breve tratto con una strana sensazione, raggiungo nel versante opposto la
località di Pineda.
Il sole è riapparso nel mio cuore. Nel borgo la vita prosegue, i vallegiani già
svegli si adoperano nelle molteplici attività e i canti di galli accompagnano
il mio breve passaggio. Mi inoltro fin sotto le pendici dello Zèrten, superando
una paurosa forra attraverso una strada scavata dentro la roccia. Che dire!?!
Affascinante prologo di un’avventura e il bello deve ancora venire. Giunto
nella località di Prada, noto con piacere che non è un borgo disabitato, ma
vivo, gente che passeggia, animali domestici a chiosa. Suoni di una vita
bucolica, che ti fanno gridare in cuore: << La vita è bella e io la
voglio vivere fino in fondo”.>> Lascio l’auto in uno spiazzo sull’erba
che oserei dire apposito, mi preparo. Zaino in spalle e il fido Magritte al
seguito, si parte. Il sentiero inizia dal borgo, nessuna indicazione ma solo
una strada asfaltata con un cartello con divieto di transito. La carrareccia si
inoltra a sud-est nella piccola valle, superando delle graziose case da fiaba,
degne dei racconti di Lewis Carroll, abitate sicuramente da soggetti creativi.
Da asfaltata la carrareccia diviene lastronata, salendo sempre con dolce
pendenza fino all’argine di un torrente (a destra); il sentiero prosegue a
sinistra risalendo la vecchia carrareccia. Pochi metri dopo supero un manufatto
abitato, il sentiero risale il pendio boschivo settentrionale del monte fino a
raggiungere un bivio (bollo rosso e indicazioni su un albero). Seguo quella che
a destra indica “Par Ochi”, scorgendo tra gli alberi un sasso con iscrizione,
mi fermo a leggerla: << L’Artigiano è quell’uomo che trasforma con le
mani la materia in sentimento. tua.>> Questa terra è frequentata da
spiriti liberi, artisti e poeti. Dopo un paio di tornanti un altro bivio, seguo
la direzione a destra che in breve mi porta nell’ampia radura dove fa bella
mostra la casera di Cuare, splendido pulpito panoramico sulla valle del Vajont.
Mirando a settentrione dietro la casetta in legno color mogano parte il
sentiero per lo Zèrten. L’Itinerario è selvaggio, risalgo tra i ruderi di
vecchi stavoli e accompagnato da radi ometti e bolli rossi giungo fino a sotto
le pareti rocciose; da quest’ultimo tratto disegnando una lunga diagonale il
sentiero costeggia il versante settentrionale del monte. In alcuni tratti il
percorso è scavato nella roccia, aggirando i bastioni rocciosi e offrendo
piccole piazzole panoramiche. I passaggi esposti sono radi, qualche tratto di
sentiero è eroso e gli ometti mi sono di grande aiuto.
Così giungo alla base del ripidissimo canalone inerbito che mi porterà in
cresta. Da questo tratto in poi il prosieguo si fa più avventuroso, sia per la
pendenza che per la mancanza di segni e tracce. Nel primo tratto riesco a
identificare il percorso dalle zolle di terra alzate recentemente da
escursionisti, fino a raggiungere un larice con bollo rosso. Il prosieguo si
biforca, degli ometti mi invitano a salite a destra per brevi tratti di traccia
che mi portano alla base del catino erboso. Qui mi fermo a ragionare, la
traccia si perde tra i rovi e i ciuffi d’erba. Davanti a me una parete
rocciosa, vengo attirato da una paretina sul lato destro, mi sembra abbordabile
e scorgo segni di passaggio. La risalgo a fatica a causa del terreno marcio,
così guadagno il vertice superiore (bolli rossi) dove scorgo una labile traccia.
La seguo, poi si perde di nuovo, ma la cresta è vicina. Sono a pochi metri
dalla forcella: alla mia sinistra il monte dell’Ardot, a destra le rocce della
cresta del monte Zèrten.
Ho la sensazione di essere un “apache”, adesso solo l’istinto mi guida, la mia
bandana sventola, aleggiandomi sul volto la brezza della libertà.
Ora il percorso è intuitivo e sempre guidato dall’istinto. Punto alla cresta
della forcella, raggiunta la base di quest’ultima mi dirigo a sinistra verso
gli affioramenti rocciosi, risalendoli con piccoli passaggi di I grado fino a
portarmi presso la cima (altra alternativa era di scendere sul ripido erboso e
aggirarlo, cosa che farò in discesa). In prossimità della sommità avvisto un
gruppo di camosci, graditissimo omaggio di benvenuto della Montagna. Magritte è
felice, squittisce dalla gioia. Osservo gli amici a quattro zampe, ci
salutiamo. Loro ci cedono la vetta, con riverenza ringraziamo. La meta è
prossima, superate le ultime strane conformità rocciose, raggiungiamo l’ometto
di vertice, che ospita il caratteristico ramo rinsecchito, il famoso simbolo
dello Zérten. Fatta!
Zaino a terra, la soddisfazione è tanta, mi guardo intorno cercando di sbollire
l’estasi. Dopo essermi ripreso dalla felicità osservo il mondo circostante,
ovvero il condizionale è d’obbligo, mi sarebbe piaciuto ammirare il paesaggio.
Alcune nuvole coprono il Col Nudo e il monte Toc, altre fanno da cappello al
Monte Borgà e al monte Palazza. Non riesco a scorgere nemmeno il tratto
terminale della cresta.
Mi fermo a curiosare tra i sassi dell’ometto di vetta, cercando il libro delle
firme, eccolo! Il sacro libretto è ben custodito dentro un barattolo di vetro.
Sfamo l’amico, lo disseto, dopo di ché consumando un frutto mi dedico alla
lettura degli escursionisti che hanno visitato la cima. Che meraviglia!
Riccardo Cassin?!? Come non emozionarmi nel leggere la sua dedica. Il solo
avere in mano questa reliquia vale la fatica affrontata. E poi gli amici di
montagna, tra i quali Paolo Pozzati, Stefano Morasutto e per ultimo Gino dal
Vià, che ha l’unico difetto di essere milanista, beh! Nessuno a questo mondo è
perfetto. Che dire, questa cima è un covo di “Spiriti Liberi”! Mi piace, mi
glorifica e gratifica, mi dà autostima, come una medaglia da appuntare sul
petto quando sarò veterano. Ripongo il prezioso diario di cima nel suo scrigno,
concedendomi alcuni minuti di riposo. La voglia matta di montagna non
diminuisce, vivrei in eterno in questo ambiente e sogno, ma le nuvole in
lontananza mi invitano a pensare al ritorno; si sa in montagna il meteo cambia
all’improvviso. Per la discesa del primo tratto seguo un altro percorso,
notando dall’alto alcune deboli tracce, così aggiro a sinistra il tratto
esposto sopra il catino erboso. Con molta calma e con movimento da bradipo, guadagno
la base del canalone. Avevo avuto la mezza idea di salire anche sull’Ardot, di
qualche metro più basso rispetto allo Zérten, ma in confidenza non ne avevo
voglia, e non mi sono chiesto nemmeno il perché. Lungo il sentiero di ritorno
(lo stesso dell’andata), pensavo alle emozioni provate, nel frattempo la
giornata volge al meglio, le nuvole diradandosi abbandonavano la valle, i
colori sono più intensi e luminosi, e quella strana sensazione di felicità si
impossessa dello spirito. Raggiunta la casera di Cuare, consumo lo spuntino,
lasciandomi cullare dalla splendida visione, per poi riprendere il cammino e
raggiungere il punto di partenza. Mi aspetta un ambiente bucolico, il canto dei
galli, la melodia della vita quotidiana, e un bel gattone bianco appisolato
sotto l’auto. Tutte queste emozioni catturano il mio spirito in un lungo e
candido torpore. La medesima estasi che prova l’avventuroso viandante quando
percorre nuove terre. Rientro alla civiltà udendo il rombo delle moto e la
musica della vita quotidiana. Scrutando le cime (futuri amori) abbandono la
valle del Vajont, consapevole che la natura nel suo eterno divenire ha mutato
la morte in amore.
Malfa e Magritte.