Monte
Gran Pala da Seletz- San Francesco (Val d’Arzino (PN)
Note
tecniche.
Localizzazione: Prealpi Carniche- Gruppo del
Verzegnis- Dorsale Verzegnis-Piombada.
Avvicinamento: Pinzano- Anduins- Valle
D’Arzino- San Francesco- lasciare l’auto presso uno spiazzo nella frazione di
Seletz.
Regione:
Friuli-Venezia Giulia
Provincia
di: Pordenone
.
Dislivello:
1070 m.
Dislivello
complessivo: 1200 m.
Distanza percorsa in Km: 18
Quota minima partenza: 390 m.
Quota
massima raggiunta: 1347 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 6 ore
In:
coppia
Tipologia
Escursione: escursionistica in ambiente selvaggio, con sentieri quasi del tutto
assenti.
Difficoltà:
Escursionisti Esperti idonei ad agire in un ambiente totalmente selvaggio e
privo di tracce e segni per l’orientamento.
Tipologia sentiero o
cammino:
Ferrata- valutazione
difficoltà:
Segnavia:
CAI 827- Bolli rossi; blu scuro; segni giallo-rossi.
Fonti
d’acqua: si, molteplici.
Impegno
fisico: alto
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
si
Punto
goniometrico. si, presso una elevazione al margine della cresta finale del Monte
Gran Pala.
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: piccolo,
in cui ho lasciato un barattolino per i segni di passaggio del viandante.
Libro di vetta: no
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 020
2) Bibliografici:
3) Internet: Trovata solo una relazione della Tana dell’orso, ma per altro
itinerario.
2)
Periodo
consigliato: primavera-autunno
3)
4)
Da
evitare da farsi in: presenza di ghiaccio o terreno umido
Condizioni del
sentiero: Ben marcato quello CAI. I
pochi segni presenti spesso non sono seguiti da tracce, e il sentiero segnato
sule mappe è del tutto assente.
Consigliati: ramponi per erba per la discesa dai ripidi pendii.
Data: sabato 08 maggio
2021.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Tra la cresta del Cuar
e quella del Piombada dimora un universo sconosciuto, una infinità di valli e
colli, che pur non avendo nomi altisonanti conservano intatto il fascino del
creato, anzi, lo amplificano grazie a scorci panoramici più unici che rari. E
questo universo l’ho scoperto grazie al vagare per le mappe topografiche in una
costante ricerca di luoghi ignoti.
In una recente
escursione sul monte Chiadins ho potuto gettare l’occhio sui rilievi
circostanti e in particolar modo mi ha colpito il Monte Gran Pala, alto ben
1347 metri e difficile da raggiungere, sia, per le distanze chilometriche che
lo separano dalle arterie accessibili, sia perché nessun sentiero lo scala facilmente;
quindi, una volta raggiunto il monte per uno dei vari versanti, dovrò trovare delle
peste remote.
Sono stato indeciso
sino all’ultimo su quale località raggiungere per la scalata al monte. Durante
la preparazione tecnica, ho fatto una ricerca sul web, individuando due sole
relazioni, e precisamente sul sito la Tana dell’orso, del bravo Giorgio Mandinelli,
noto greppista, e quella del mitico Ravanatore.
Per l’uscita, mi sarà compagna
Giovanna, ormai escursionista collaudata in un certo tipo di avventura. Dopo un
acuto studio, come località di partenza, scelgo la frazione di San Francesco,
presso la Val d’Arzino, avendo come itinerario la percorrenza del sentiero 827,
che conduce alla Forchia Armentaria.
Il mattino dell’otto
maggio si presenta incantato, solare e fresco. Si raggiunge in auto la località
prevista, e una volta parcheggiato l’automezzo e indossati gli scarponi procediamo
per l’avventura, con gli zaini stracolmi di sogni. Dalla località di Selezt (quota
390 m.) imbocchiamo la carrareccia numerata 827 e 840 (cartello), e dopo una
serie di tornanti viriamo a sinistra per l’827, iniziando a costeggiare il
fragoroso Rio Armentaria. Proseguiamo il cammino per l’ampia e comoda
carrareccia, che ben conosco, sicuramente un‘antica arteria di servizio per le
malghe a monte, e il nome del rio fa intuire quale tipologia di mammiferi vi
transitasse. Raggiunto il greto del torrente, seguiamo i segni, e lo guadiamo, passando
come equilibristi sui sassi che emergono dalle fresche acque. Una volta scorsi sulla
sinistra orografica del rio, iniziamo a salire con una serie di stretti
tornanti le pendici nord-occidentali del Monte Gran Pala, per poi riprendere con
un andamento in orizzontale. Raggiunto un tratto eroso da una frana, lo si
supera per facili tracce su sfasciumi, e dopo un centinaio di metri ritroviamo una successiva area accidentata a
causa di uno smontamento, proprio nelle vicinanze di una deliziosa cascata; in
questo frangente, il getto delle acque accompagna le operazioni. Grazie a un
cavo e a delle staffe di recente realizzazione, superiamo l’ostacolo e siamo a
ridosso del secondo guado del torrente, stavolta ci spostiamo sulla destra
orografica. L’ambiente che abbiamo percorso è fantastico, inebriante, è un vero
inno alla gioia per chi ama la natura.
Continuiamo per una piccola traccia resa umida dal defluire dell’acqua
di una sorgiva, per poi ritrovare la carrareccia che ci accompagna sino alla
strada forestale proveniente da Alesso.
Dopo un tornante in direzione sud, viriamo a destra per la carrareccia,
pochi metri e siamo nei prati che ospitano la struttura della Malga Armentaria
(quota 806 m.). Come già presagivo, troviamo la casera chiusa, peccato, potevano
almeno ricavarne un riparo per i viandanti. La mappa topografia mi rende edotto
che un sentiero (tratteggiato in nero) parte a sud della malga. Nel frattempo
che Giovanna recupera un po’ di energia, ispeziono tra le siepi, trovando un
segno e una pesta. Sembra che tutto sia a posto, quindi iniziamo l’ascesa al
monte. Nemmeno pochi metri e vago nel nulla, i segni e la traccia sono svaniti,
quindi passo dalla modalità escursionista a quella di lupo e seguo l’istinto.
Scorgo oltre un canalone un crinale che attira la mia attenzione, infatti dei
piccoli bolli rossi che sono segnati sulle cortecce dei faggi, mi invitano
lungo la dorsale che avevo individuato, li seguiamo per un po’, ma non ne sono
tanto convinto. Decido, subito dopo un traverso nel ripido boschetto, di proseguire
lungo il displuvio per la faticosa ascesa, ma che indubbiamente ci porta in
alto. Metro dopo metro scruto il terreno, cercando i passaggi più agevoli,
disegnando delle traiettorie che sfruttino i punti meno insidiosi, e assicurandomi
di avere al di sotto, a pochi metri di distanza, sempre degli arbusti che in
caso di caduta evitino l’irrimediabile. Raggiunto un costone articolato ci
divertiamo (si fa così per dire, perché la fatica non latita mai) a
percorrerlo, finché raggiungiamo un’esile traccia (sentieri di camoscio) che sale
tra l’affilato costone e un ripido salto sopra il canalone sottostante.
Superato quest’ultimo ostacolo raggiungiamo una forcella panoramica posta a
ridosso del costone. Breve sosta, mi fermo a studiare la mappa confrontando i
dati con quelli del GPS. Riscontro che ci troviamo vicino alla meta, conforto
la compagna che stiamo procedendo bene. Quindi risaliamo un costone e poi
rientriamo in un catino con altissimi faggi, lo percorriamo sino alla base del
crestone che ascende da oriente, quello che in seguito percorreremo in discesa.
Procediamo nell’ultimo sforzo sul ripidissimo pendio (100 metri di dislivello
con alcuni tratti quasi in verticale), e siamo a ridosso della cresta, pare che
le fatiche abbiano avuto termine. Una volta che Giovanna mi ha raggiunto, le
indico che ci siamo, le ultime parole famose, la cupoletta sommitale invece è
seguita da un’altra, e poi un ‘altra ancora, un succedersi di quote che ti
fanno apparire interminabile il punto di arrivo.
Ma fortunatamente l’andamento
è dolce, lieve, oserei scrivere sublime. Percorriamo la cresta finale,
coscienti che ci siamo, e dorso dopo dorso, buttiamo l’occhio avanti, sperando
che quella che segue sia la meta.
Raggiunto il punto più
alto della vetta, scruto per terra e trovo solo due sassi, quindi mi spingo
avanti, a oriente, dove mi abbasso di pochi metri di quota, sino a raggiungere
il vertice estremo, simbolizzato da cocuzzoli inerbiti intorno a una piccola
concavità naturale. Sopra un masso trovo cementato il tondino goniometrico con
il simbolo del Friuli, è la prima volta che ne vedo uno diverso da quelli
dell’IGM. Fatta! Mentre Giovanna mi raggiunge, mi diverto a scrutare il
paesaggio, davvero magnifico e selvaggio, investigando su quale sarà
l’ipotetico itinerario del rientro. Solennizziamo l’avvenuta conquista del
monte Gran Pala (quota 1347 m.), spostandoci sul dorso meno esposto per la
rituale foto di vetta. Effettuiamo una breve pausa, recuperiamo un po’ di
energie, siamo stati bravi, il percorso non è stato per nulla banale. Per la
discesa, in previsione di ripidi prati, ci attrezziamo con i ramponi da erba,
che subito calziamo, e una volta redatto un foglio con il segno del nostro
passaggio lo racchiudiamo in un barattolino di vetro con il simbolo del gruppo,
a beneficio dei viandanti. Recuperate le energie siamo pronti e iniziamo la
discesa. Durante l’ascesa sul crinale finale avevo scorto dei segni gialli e
rossi, ritrovati quest’ultimi in discesa decidiamo di seguirli, essi ci guidano
lungo il costone che porta sino al monte Faz, e da quest’ultimo, la segnaletica
dovrebbe ricondurre alla carrareccia proveniente da Alesso. Piuttosto che
sperimentare altre varianti, e rischiare più del previsto, decidiamo di seguire
i segni, anche se le tracce sono rare. Pochi metri prima della cima del monte
Faz i punzoni svaniscono, proprio in prossimità di un grande salto. Dopo aver ben
perlustrato la zona decidiamo di discendere per il ripido versante occidentale,
mettendo all’opera i provvidenziali ramponi, sino a raggiungere, dopo 250 metri
di ertissimo pendio, una conca con massi affioranti, ma non mi illudo, e di
seguito spiego alla mia compagna che non è ancora giunto il momento di rimuovere
i ramponi. Procedendo all’interno del bosco di faggi, ci dirigiamo a
settentrione, ed ecco che al limite della conca ritroviamo dei bolli rossi e
blu scuro, simili a quelli della partenza dalla casera. Ho intuito che la
traccia abbandonata mi avrebbe portato sin qui, e quindi ho fatto bene a smetterla
di seguirla. La stessa traccia porta a occidente se percorro il fianco della
montagna, ma l’istinto mi consiglia di continuare la discesa a nord, infatti è
quello che facciamo. Durante la calata per
il ripido pendio scorgiamo sotto di noi la stradina forestale. Splendido! Ho
avuto un’ottima intuizione. Gli ultimi metri nel pendio ci portano accanto a un
secco impluvio che termina a ridosso del muro in cemento che costeggia
l’arteria. Due metri di altezza che superiamo in discesa grazie a degli arbusti
e delle roccette posti al margine sinistro. Fatta! Ora siamo al sicuro, nemmeno
il tempo di tirare un sospiro di sollievo che veniamo raggiunti da un solitario
e simpatico ciclista in mountain bike, in transito lungo la carrareccia. Mentre
noi ci sistemiamo, togliendo i ramponi, instauriamo una conversazione con
l’amico. Scopriamo con piacere che il ciclista è originario di Palermo, e vive
a Tricesimo, ed è pure scampato, per fortuna sua, ad essere arruolato nel
lontano 1976 con lo scaglione militare che perse la vita nel
polverizzarsi delle tre palazzine della caserma
" Goi-Pantanali " sita presso Gemona.
Una volta pronti,
salutiamo l’amico, e proseguiamo per la nostra meta, ovvero raggiungere la
Forchia Armentaria tramite la stradina. Il percorso è in salita, quindi
aggiungiamo altro dislivello a quello già accumulato. Alla nostra destra spicca
la lunga cresta che dal monte Piciat che si spinge sino al vertice del Monte
Piombada, la neve è quasi del tutto assente, tale visione in me si risveglia dei
ricordi mai sopiti. Raggiunta la forchia, la superiamo di alcuni metri,
trovando una comoda sosta per il meritato pranzo presso un tronco lasciato ai
bordi del selciato, lo adoperiamo come panca. Il tempo dedicato al ristoro è
breve, ora che abbiamo scaricato la tensione, mangiamo con gusto. Finito la pausa dedicata al recupero dell’energie
riprendiamo il cammino. Non abbiamo fretta, la luce diurna ci accompagna,
quindi possiamo dedicare il tempo sottratto nell’andata ad ammirare la bellezza
dello scorrere dell’acqua del rio e ascoltare i suoni della natura. Siamo
letteralmente rapiti, viviamo una magica evasione nel mondo incantato del
creato. Poco prima dell’arrivo, presso uno degli ultimi tornanti, visitiamo il
rudere di uno stavolo, dove ancora, all’interno dei locali, sono serbate le
tracce di un vissuto perduto. Il pensiero vola al terribile sisma del 1976, che
in questa magnifica terrà causò la perdita di migliaia di vite umane, e terminò
anche l’utilità e la funzione di tantissimi edifici, specie quelli sparsi per i
luoghi più perduti dei monti. Mi dispiace che dopo tanto tempo, ai più, non
interessano questi manufatti. È
sconsolante constatare tutta questa indifferenza, essi, i remoti stavoli, raccontano
la storia di un popolo, e ogni rudere che scompare è un pezzo del passato che svanisce
per sempre. Raggiunta la località di partenza, ci approntiamo, procedendo al
rientro. L’auto transita lentamente nella Val d’Arzino, come se il motore fosse
inebriato dai nostri lieti pensieri. Pervenuti nella pianura friulana ci
irradia una luce intensa che illumina uno splendido cielo terso. Il giorno
volge al termine, e noi siamo soddisfatti di aver aggiunto un'altra gemma alla comprensione
della montagna friulana.
Il Forestiero Nomade.
Malfa
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