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mercoledì 21 aprile 2021

Anello Paludea Vito d’Asio.

Anello Paludea Vito d’Asio.

Note tecniche. 

 

Localizzazione: Colli di Castelnovo del Friuli

 

Avvicinamento: Lestans-Paludea- Parcheggio presso la pizzeria-trattoria “Locanda al Borgo”

 

Regione:

.

Dislivello: punto e quota di partenza


Dislivello complessivo: 800 m.


Distanza percorsa in Km: 20


Quota minima partenza: 244 m.

 

Quota massima raggiunta: 496 m.

 

Tempi di percorrenza escluse le soste: 5 ore

In: coppia

 

Tipologia Escursione: Naturalistica storica

 

Difficoltà: escursionistiche e in ambiente selvaggio

Ferrata- valutazione difficoltà:

 

Segnavia: Locali

 

Fonti d’acqua: si, molteplici

 

Impegno fisico: alto

Preparazione tecnica: media

Attrezzature: no

 

Croce di vetta: no

Ometto di vetta: no

Libro di vetta: no

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

1)               Cartografici: IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet: 

2)               Periodo consigliato:  

3)                

4)               Da evitare da farsi in:

Condizioni del sentiero: Vecchi troi in ottimo stato

 



Consigliati:

Data: sabato 17 aprile 2021

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

Continuo la mia ricerca introspettiva tra i verdi colli della comunità montana di Castelnovo, con un nuovo itinerario che da tempo ho progettato. Ho ideato un anello avente come partenza e arrivo il capoluogo di Castelnovo, e passando per le frazioni di Faviz, Rez, Manazzons, fino a raggiungere Vito d’Asio, e da quest’ultimo rientrare a Paludea per la frazione di Celante, naturalmente percorrendo l’anello tramite i remoti sentieri selvaggi. Non ho trovato alcun saggio di riferimento, adopero solo una mappa e tanta volontà.

Il giorno dell’escursione, Giovanna, io e Magritte, armati di spirito di avventura, si parte.  Lasciamo l’automezzo a Paludea, presso una trattoria dismessa, e iniziamo l’anello in senso antiorario, percorrendo la stradina asfaltata che ci conduce alle frazioni di Faviz e Rez, da quest’ultima imbocchiamo la carrareccia che taglia il versante meridionale del Monte Santo, ovvero, l’effettivo inizio dell’escursione in un ambito totalmente immerso nella natura. I primi passi sulla carrareccia sono divinamente liberatori, percepiamo il fascino dell’ambiente, e ben coscienti che il meteo sarà favorevole, procediamo con un passo lento e un’acuta curiosa osservazione di quello che incontreremo. Ci avventuriamo all’interno di remoti stavoli, ammirandone le fattezze, e immaginandoli quando erano dimorati. Ne visitiamo alcuni, e notiamo che ognuno è diverso dall’altro, come se avessero un‘anima propria. Ci ammaliano i particolari: dal portone con la maniglia scolpita, alla mangiatoia. Le finestre posseggono una propria fisionomia, l’una diversa dall’altra, alcune hanno le inferriate, altre sono fortemente strombate, e sicuramente ognuna con una diversa funzionalità.

La primavera sfoggia centinaia di fioriture che ci allietano lungo il viaggio, ora la carrareccia cede il passo a un piccolo sentiero inerbito, che sfiora i ruderi di altri stavoli protetti dai rovi. Raggiungiamo la forcella posta tra il monte Santo e il Colle, da me soprannominato, degli Spiriti Liberi , proseguendo per la traccia che ci conduce alla forcella di Manazzons.

Da questo tratto in poi, tutto mi sarà nuovo, misterioso, quindi ce lo godiamo, avvertendo nel cammino qualcosa di magico.  Dopo aver oltrepassato una pista forestale, scendiamo di quota, sino a transitare su una costa molto stretta ed esposta, davvero magnifica, un autentico paradiso per chi crede agli spiritelli del bosco. Il bel cammino conduce alla strada che precede la frazione di Manazzons. Effettuiamo una breve visita al piccolo borgo, per poi risalire, tramite viottoli gradinati, all’ imbocco del sentiero che porta in cresta. Raggiunto il crinale, decidiamo di interrompere il proseguo per fare una capatina alla vetta del colle che sovrasta il paesello. Il percorso è breve, bello e ben marcato. Lungo il cammino lambiamo altri due stavoli prima di raggiungere l’ampia cima, che ci appare sin da subito curiosa. Delle piante sono state collocate a cerchio intorno al vertice, ed equamente distanziate, come se volessero rappresentare qualcosa di sacro e rituale, mentre al centro della sommità, non c’è nulla ma è tutto molto curato.  È insolito quello che abbiamo visto, il pensiero vola alle remote civiltà che presiedevano il sito, qualcosa di magico che permane nel tempo.

Ripreso il cammino ritorniamo al primitivo sentiero e proseguiamo a nord. Dopo alcune centinaia di metri raggiungiamo la stradina asfaltata che costeggia uno dei tanti torrenti che a valle vanno a confluire nel Tagliamento. Percorriamo a oriente per un breve tratto la stradina, ammirando sull’argine opposto una gigantesca arcata sospesa nel vuoto, sembra che il resto del ponte si sia smaterializzato. Distratti dalla bellezza del sito, procediamo a oriente, e poco prima di una galleria ci affacciamo dal ciglio della strada per ammirare l’enorme salto che compie il torrente nella sottostante gola, immagini e situazioni da brivido, assolutamente vietate a chi soffre di vertigini.

Do una rilettura alla mappa, scopro che siamo andati avanti di alcuni metri rispetto a dove dovevamo svoltare, ritorniamo indietro è imbocchiamo dalla stradina un sentiero che si addentra nella stretta valle dove i colli la sovrastano prendono il nome di Chialgia. Questo luogo è magico, passiamo prima su alcuni ponticelli in legno che sovrastano i torrentelli, successivamente scaliamo il colle per alcuni metri, fino ad addentrarci nell’angusta valle dominata a sud dal monte Albignons. Raggiunta una remota carrareccia la percorriamo sino a poco prima di un tornante, che tralasciamo per seguire una traccia a sinistra dello stesso. Dalla mappa leggo un sentiero tratteggiato in nero, lo percorriamo in fondo al vallone, spesso superando degli impluvi, sino a risalire la china in un folto bosco, dove la traccia si perde, e nella pesta scorgiamo solo le impronte dei cinghiali, mentre la vegetazione emana uno strano olezzo che tanto ricorda quello dei wurstel. Stavolta mi affido al mio istinto di lupo, e dopo aver smarrito per due volte la traccia (a causa degli schianti o dei rovi), la ritrovo definitivamente. Per labile traccia continuiamo il cammino, e dopo aver sfiorato alcuni ruderi, raggiungiamo un altro splendido stavolo che naturalmente visitiamo.

Come i precedenti edifici, quest’ultimo presenta alcune caratteristiche comuni, ognuno di questi ruderi è come un tomo di informazioni, bisogna saperlo leggere, scrutando gli interni e ciò che rimane delle vetuste suppellettili. Riprendiamo il cammino per la traccia, che sempre all’interno del bosco ci delizia con tanti scorci selvaggi, transitando anche su un instabile ponte in legno, che superiamo con cautela.

Raggiunta una ripida stradina privata, asfaltata e non segnata sulla mappa, la percorriamo in salita, sino a sbucare sui verdi prati che precedono la strada che collega Vito d’Asio con la frazione di Cedolins, la nostra meta è prossima.

Nel frattempo, una bellissima cagnetta si è accodata a noi, porta un evidente imbuto protettivo (collare elisabettiano), e si nota che ha partorito da poco, visto che è in fase di allattamento. La simpatica amica a quattro zampe ci segue allegramente, noi si spera che ritorni indietro, ma essa, con quello sguardo dolce e languido non desiste. A volte ci precede, mentre noi percorriamo un sentiero che ci permette di evitare il tratto asfaltato che porta alla periferia meridionale di Vito D’asio. Presso un bar notiamo una presenza umana, chiediamo a degli avventori se conoscono i proprietari della cagnetta, non l’hanno mai vista, farfugliano qualche nome. Nel frattempo, la cagnetta, allegrotta, fraternizza anche con un simpatico vecchietto seduto su una panchina posta al margine della piazza del paese, ha un bel sorriso l’anziano signore, sicuramente non è un viandante ma ne emana la sapienza. Desolati, decidiamo di ritornare indietro, nel frattempo sopraggiunge un’auto guidata da un tizio che si rivela essere il “padrone” della cagnetta, ha un aspetto istintivo, e la cagnetta non ha nessuna intenzione di seguirlo, essa ci guarda con uno sguardo pietoso, ci intenerisce. Al ripetuto richiamo dell’omino cede, acconsentendo a salire a bordo dell’automezzo. Gli animali, per sfortuna loro, non sempre hanno la possibilità di scegliere i loro amici a due zampe, e in questo caso era chiaro che la cagnetta separandosi dal tipo aveva scelto noi. Tornando all’escursione, do un’occhiata al GPS, abbiamo percorso circa 16 chilometri, e fatto un bel po’ di dislivello, la stanchezza inizia a farsi sentire, e quindi decidiamo, che per oggi può bastare, quindi, si pranza e poi si rientra.

Presso gli scalini posti all’inizio di un breve sentiero, ci fermiamo, dedicando tempo al recupero delle energie. Dopo la sosta si riprende il cammino. Sulla mappa ho individuato una carrareccia, che partendo poco prima del borgo di Cedolins, conduce a nord della località di Celante, presso un torrente. Trovato l’imbocco, lo percorriamo, abbassandoci di quota, sino a raggiungere il greto del torrente che superiamo tramite un ponticello. L’ambiente è affascinante, indescrivibile per la bellezza, seguiamo la chiara traccia a sinistra, tralasciando quella che a destra porta direttamente alla frazione di Celante. Raggiunto il greto del torrente lo guadiamo in un determinato punto, per poi passare sull’argine opposto. Ritrovata una chiara pesta, essa ci conduce su un vecchio troi che risale sino a Celante di Vito. Le abitazioni periferiche del piccolo borgo ora ci paiono belle come una chimera che si materializza, raggiunte quest’ultime si procede a occidente. Nel frattempo, ho percepito la stanchezza del povero Magritte, che stoicamente come è suo solito fare, non ha mai mollato, ma noto che claudica vistosamente. Decidiamo di trasportarlo dentro il mio zaino.  Travaso alcune cosette dal mio sacco a quello di Giovanna, e una volta creato uno spazio comodo ospito e trasporto il mio grande amico. Magritte pesa, ma questo sforzo glielo devo, soprattutto per tutto quello che mi ha donato con la sua esistenza. Procedo con calma, superato il borgo di Celante, scendiamo sino alla valle dell’Arzino, dove ci aspetta un percorso asfaltato ma comodo. Giovanna tiene d’occhio Magritte e mi comunica che “il vecio” si è appisolato, il mio incedere è stato un dolce dondolio. Con calma si raggiunge il punto di partenza, Paludea, soddisfatti di aver compiuto una signora escursione all’insegna della magia. In questa avventura ci siamo tanto divertiti, confermando che per godere della autentica libertà non ci vogliono grandi e rinomate cime, ma basta uno zaino, un paio di scarponi, una mappa topografica e un sogno da realizzare. 

Il forestiero Nomade.

Malfa

 























































































 

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