Anello
Paludea Vito d’Asio.
Note
tecniche.
Localizzazione: Colli di Castelnovo del Friuli
Avvicinamento: Lestans-Paludea- Parcheggio
presso la pizzeria-trattoria “Locanda al Borgo”
Regione:
.
Dislivello:
punto e quota di partenza
Dislivello complessivo: 800 m.
Distanza percorsa in Km: 20
Quota minima partenza: 244 m.
Quota
massima raggiunta: 496 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 5 ore
In:
coppia
Tipologia
Escursione: Naturalistica storica
Difficoltà:
escursionistiche e in ambiente selvaggio
Ferrata- valutazione difficoltà:
Segnavia:
Locali
Fonti
d’acqua: si, molteplici
Impegno
fisico: alto
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
no
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: no
Libro di vetta: no
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato:
3)
4)
Da
evitare da farsi in:
Condizioni del
sentiero: Vecchi troi in ottimo stato
Consigliati:
Data: sabato 17 aprile
2021
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Continuo la mia ricerca
introspettiva tra i verdi colli della comunità montana di Castelnovo, con un
nuovo itinerario che da tempo ho progettato. Ho ideato un anello avente come
partenza e arrivo il capoluogo di Castelnovo, e passando per le frazioni di
Faviz, Rez, Manazzons, fino a raggiungere Vito d’Asio, e da quest’ultimo
rientrare a Paludea per la frazione di Celante, naturalmente percorrendo
l’anello tramite i remoti sentieri selvaggi. Non ho trovato alcun saggio di
riferimento, adopero solo una mappa e tanta volontà.
Il giorno
dell’escursione, Giovanna, io e Magritte, armati di spirito di avventura, si
parte. Lasciamo l’automezzo a Paludea,
presso una trattoria dismessa, e iniziamo l’anello in senso antiorario,
percorrendo la stradina asfaltata che ci conduce alle frazioni di Faviz e Rez,
da quest’ultima imbocchiamo la carrareccia che taglia il versante meridionale
del Monte Santo, ovvero, l’effettivo inizio dell’escursione in un ambito totalmente
immerso nella natura. I primi passi sulla carrareccia sono divinamente
liberatori, percepiamo il fascino dell’ambiente, e ben coscienti che il meteo
sarà favorevole, procediamo con un passo lento e un’acuta curiosa osservazione di
quello che incontreremo. Ci avventuriamo all’interno di remoti stavoli,
ammirandone le fattezze, e immaginandoli quando erano dimorati. Ne visitiamo
alcuni, e notiamo che ognuno è diverso dall’altro, come se avessero un‘anima
propria. Ci ammaliano i particolari: dal portone con la maniglia scolpita, alla
mangiatoia. Le finestre posseggono una propria fisionomia, l’una diversa
dall’altra, alcune hanno le inferriate, altre sono fortemente strombate, e
sicuramente ognuna con una diversa funzionalità.
La primavera sfoggia centinaia
di fioriture che ci allietano lungo il viaggio, ora la carrareccia cede il
passo a un piccolo sentiero inerbito, che sfiora i ruderi di altri stavoli protetti
dai rovi. Raggiungiamo la forcella posta tra il monte Santo e il Colle, da me soprannominato,
degli Spiriti Liberi , proseguendo per la traccia che ci conduce alla forcella
di Manazzons.
Da questo tratto in
poi, tutto mi sarà nuovo, misterioso, quindi ce lo godiamo, avvertendo nel
cammino qualcosa di magico. Dopo aver oltrepassato
una pista forestale, scendiamo di quota, sino a transitare su una costa molto stretta
ed esposta, davvero magnifica, un autentico paradiso per chi crede agli
spiritelli del bosco. Il bel cammino conduce alla strada che precede la
frazione di Manazzons. Effettuiamo una breve visita al piccolo borgo, per poi
risalire, tramite viottoli gradinati, all’ imbocco del sentiero che porta in
cresta. Raggiunto il crinale, decidiamo di interrompere il proseguo per fare
una capatina alla vetta del colle che sovrasta il paesello. Il percorso è breve,
bello e ben marcato. Lungo il cammino lambiamo altri due stavoli prima di
raggiungere l’ampia cima, che ci appare sin da subito curiosa. Delle piante
sono state collocate a cerchio intorno al vertice, ed equamente distanziate,
come se volessero rappresentare qualcosa di sacro e rituale, mentre al centro della
sommità, non c’è nulla ma è tutto molto curato. È insolito quello che abbiamo visto, il pensiero
vola alle remote civiltà che presiedevano il sito, qualcosa di magico che permane
nel tempo.
Ripreso il cammino
ritorniamo al primitivo sentiero e proseguiamo a nord. Dopo alcune centinaia di
metri raggiungiamo la stradina asfaltata che costeggia uno dei tanti torrenti
che a valle vanno a confluire nel Tagliamento. Percorriamo a oriente per un
breve tratto la stradina, ammirando sull’argine opposto una gigantesca arcata
sospesa nel vuoto, sembra che il resto del ponte si sia smaterializzato.
Distratti dalla bellezza del sito, procediamo a oriente, e poco prima di una
galleria ci affacciamo dal ciglio della strada per ammirare l’enorme salto che
compie il torrente nella sottostante gola, immagini e situazioni da brivido, assolutamente
vietate a chi soffre di vertigini.
Do una rilettura alla
mappa, scopro che siamo andati avanti di alcuni metri rispetto a dove dovevamo
svoltare, ritorniamo indietro è imbocchiamo dalla stradina un sentiero che si
addentra nella stretta valle dove i colli la sovrastano prendono il nome di
Chialgia. Questo luogo è magico, passiamo prima su alcuni ponticelli in legno
che sovrastano i torrentelli, successivamente scaliamo il colle per alcuni metri,
fino ad addentrarci nell’angusta valle dominata a sud dal monte Albignons. Raggiunta
una remota carrareccia la percorriamo sino a poco prima di un tornante, che
tralasciamo per seguire una traccia a sinistra dello stesso. Dalla mappa leggo
un sentiero tratteggiato in nero, lo percorriamo in fondo al vallone, spesso
superando degli impluvi, sino a risalire la china in un folto bosco, dove la
traccia si perde, e nella pesta scorgiamo solo le impronte dei cinghiali,
mentre la vegetazione emana uno strano olezzo che tanto ricorda quello dei wurstel.
Stavolta mi affido al mio istinto di lupo, e dopo aver smarrito per due volte
la traccia (a causa degli schianti o dei rovi), la ritrovo definitivamente. Per
labile traccia continuiamo il cammino, e dopo aver sfiorato alcuni ruderi, raggiungiamo
un altro splendido stavolo che naturalmente visitiamo.
Come i precedenti
edifici, quest’ultimo presenta alcune caratteristiche comuni, ognuno di questi ruderi
è come un tomo di informazioni, bisogna saperlo leggere, scrutando gli interni e
ciò che rimane delle vetuste suppellettili. Riprendiamo il cammino per la
traccia, che sempre all’interno del bosco ci delizia con tanti scorci selvaggi,
transitando anche su un instabile ponte in legno, che superiamo con cautela.
Raggiunta una ripida
stradina privata, asfaltata e non segnata sulla mappa, la percorriamo in
salita, sino a sbucare sui verdi prati che precedono la strada che collega Vito
d’Asio con la frazione di Cedolins, la nostra meta è prossima.
Nel frattempo, una
bellissima cagnetta si è accodata a noi, porta un evidente imbuto protettivo (collare
elisabettiano), e si nota che ha partorito da poco, visto che è in fase di
allattamento. La simpatica amica a quattro zampe ci segue allegramente, noi si
spera che ritorni indietro, ma essa, con quello sguardo dolce e languido non
desiste. A volte ci precede, mentre noi percorriamo un sentiero che ci permette
di evitare il tratto asfaltato che porta alla periferia meridionale di Vito
D’asio. Presso un bar notiamo una presenza umana, chiediamo a degli avventori se
conoscono i proprietari della cagnetta, non l’hanno mai vista, farfugliano
qualche nome. Nel frattempo, la cagnetta, allegrotta, fraternizza anche con un
simpatico vecchietto seduto su una panchina posta al margine della piazza del
paese, ha un bel sorriso l’anziano signore, sicuramente non è un viandante ma
ne emana la sapienza. Desolati, decidiamo di ritornare indietro, nel frattempo
sopraggiunge un’auto guidata da un tizio che si rivela essere il “padrone”
della cagnetta, ha un aspetto istintivo, e la cagnetta non ha nessuna
intenzione di seguirlo, essa ci guarda con uno sguardo pietoso, ci intenerisce.
Al ripetuto richiamo dell’omino cede, acconsentendo a salire a bordo dell’automezzo.
Gli animali, per sfortuna loro, non sempre hanno la possibilità di scegliere i
loro amici a due zampe, e in questo caso era chiaro che la cagnetta separandosi
dal tipo aveva scelto noi. Tornando all’escursione, do un’occhiata al GPS,
abbiamo percorso circa 16 chilometri, e fatto un bel po’ di dislivello, la
stanchezza inizia a farsi sentire, e quindi decidiamo, che per oggi può
bastare, quindi, si pranza e poi si rientra.
Presso gli scalini
posti all’inizio di un breve sentiero, ci fermiamo, dedicando tempo al recupero
delle energie. Dopo la sosta si riprende il cammino. Sulla mappa ho individuato
una carrareccia, che partendo poco prima del borgo di Cedolins, conduce a nord
della località di Celante, presso un torrente. Trovato l’imbocco, lo percorriamo,
abbassandoci di quota, sino a raggiungere il greto del torrente che superiamo
tramite un ponticello. L’ambiente è affascinante, indescrivibile per la
bellezza, seguiamo la chiara traccia a sinistra, tralasciando quella che a
destra porta direttamente alla frazione di Celante. Raggiunto il greto del torrente
lo guadiamo in un determinato punto, per poi passare sull’argine opposto.
Ritrovata una chiara pesta, essa ci conduce su un vecchio troi che risale sino
a Celante di Vito. Le abitazioni periferiche del piccolo borgo ora ci paiono belle
come una chimera che si materializza, raggiunte quest’ultime si procede a occidente.
Nel frattempo, ho percepito la stanchezza del povero Magritte, che stoicamente
come è suo solito fare, non ha mai mollato, ma noto che claudica vistosamente.
Decidiamo di trasportarlo dentro il mio zaino. Travaso alcune cosette dal mio sacco a quello
di Giovanna, e una volta creato uno spazio comodo ospito e trasporto il mio
grande amico. Magritte pesa, ma questo sforzo glielo devo, soprattutto per
tutto quello che mi ha donato con la sua esistenza. Procedo con calma, superato
il borgo di Celante, scendiamo sino alla valle dell’Arzino, dove ci aspetta un
percorso asfaltato ma comodo. Giovanna tiene d’occhio Magritte e mi comunica
che “il vecio” si è appisolato, il mio incedere è stato un dolce dondolio. Con
calma si raggiunge il punto di partenza, Paludea, soddisfatti di aver compiuto
una signora escursione all’insegna della magia. In questa avventura ci siamo tanto
divertiti, confermando che per godere della autentica libertà non ci vogliono
grandi e rinomate cime, ma basta uno zaino, un paio di scarponi, una mappa
topografica e un sogno da realizzare.
Il forestiero Nomade.
Malfa
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