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martedì 16 marzo 2021

Monte Valinis da Solimbergo (PN)

Monte Valinis da Solimbergo (PN)

 

Note tecniche. 

 

Localizzazione: Prealpi Carniche Sottogruppo Valcalda-Verzegnis- Ciaurlec.

 

Avvicinamento: Lestans-Solimbergo, spiazzo davanti la chiesa del Paese 230 metri di quota- Per chi volesse effettuare l’escursione in tempo di libera circolazione, ampi parcheggi posti nelle località Costa e Sottomonte di Meduno (300 m. quota).

 

Regione: Friuli-Venezia Giulia

Provincia di: Pordenone

.

Dislivello: 800 m.

 

Dislivello complessivo: 800 m


Distanza percorsa in Km: 22 km


Quota minima partenza: 230 m.

 

Quota massima raggiunta: 1102 m.

 

Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore

In: Coppia

 

Tipologia Escursione: naturalistica-paesaggistica

 

Difficoltà: escursionistica

 

Ferrata- valutazione difficoltà:

 

Segnavia: CAI 819- Sentiero degli Alpini con segni bianco-rossi- locale- bolli rossi e blu

 

Fonti d’acqua: si

 

Impegno fisico: medio-alto

Preparazione tecnica: media

Attrezzature: no

 

Croce di vetta: si

Ometto di vetta: no

Libro di vetta: si, istallato barattolino Nutella in vetro.

Timbro di vetta: no

Riferimenti:

1)               Cartografici: IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet: 

2)               Periodo consigliato: tutto l’anno.

3)                

4)               Da evitare da farsi in:

Condizioni del sentiero: Ben segnato e marcato


Consigliati:

Data: 13 marzo 2021

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

Il monte Valinis è la meta di quest’ultima escursione, all’insegna del rispetto delle regole e alla ricerca della libertà. Fare coincidere il diavolo con l’acqua santa non è facile, ma ci proviamo. Come regola abbiamo il limite comunale per spostarci con l’automezzo, e come libertà abbiamo davanti a noi lo splendido scenario delle Prealpi carniche del pordenonese, quindi, la soluzione logica è lasciare l’auto a Solimbergo, graziosa frazione all’interno del comune dove risiediamo, e proseguire, con zaini in spalle per la nostra meta. Detto, fatto!

La giornata utile per l’escursione prevede bello di mattina e nuvolo con rischio temporali il pomeriggio, quindi, ci affrettiamo (Giovanna e io) in direzione della località di partenza, e una volta raggiunta (lasciamo l’auto nella piazza del paese antistante la chiesa, quota 230 m.), e più veloci della luce, ci avviamo tramite la strada comunale per la località Sottomonte di Meduno. Percorriamo i sei chilometri di pianura, mirando all’orizzonte la nostra meta, che ben si distingue dal corpo dove è inglobata, ossia il massiccio del Ciaurlec.

Una volta raggiunta la frazione di Sottomonte, mappa alla mano, ho i propositi di compiere un percorso ad anello, includendo il sentiero degli alpini, che dalla Forchia di Meduno porta in vetta al Monte Valinis.

In meno di un’ora siamo alla frazione, percorriamo la stradina in salita sino a incrociare quella proveniente da Toppo, e una volta virato a destra, scorgiamo un edificio edificato con mattoni rossi, con la scritta “Latteria Turnaria”.  Presso l’edificio notiamo un cartello (legato con fil di ferro a un tronco di tiglio) simile a quelli del CAI, con su scritte a mano delle indicazioni, tra cui quella per la Forchia di Meduno. Ci siamo, questo sarà il punto di partenza per l’anello (quota 300 m.). Non sono mai asceso da questo sentiero, e la cosa mi eccita. Dopo i primi due passi ci viene incontro un tipo assai strano, dall’aria stralunata e con una smorfia dura. Lo stesso, farfugliando tra la lingua madre e un friulano incomprensibile, ci chiede di lasciare obbligatoriamente un obolo presso un tavolino che troveremo lungo il sentiero. Confesso, che a tale richiesta rimaniamo basiti e commentiamo in modo poco lusinghiero l’episodio.

Il sentiero che iniziamo a percorrere dalla periferia del paese ci ammalia sin da subito, nel primo tratto fiancheggiamo un rivolo, e successivamente, una volta superato il noto tavolino posto a reclamare le offerte, iniziamo a percorrere una bella mulattiera che si mantiene sulla sinistra orografica del torrente che scende dal monte.

Ammiriamo le prime fioriture di primule e di erba trinità, che con il loro colori, giallo di Napoli e lilla, rallegrano il nostro cammino. Superato un bel ponticello, continuiamo all’interno del bosco, scorgendo dal basso il tempietto di San Martino in Castello. Lungo la mulattiera incrociamo delle singolari e piccole ancone adibite a incanalare l’acqua, e presso una di questa qualcuno ha ideato un improvabile mini-santuario kitsch, che mal si combina con l’austerità del luogo.

 Da una piccola cappella notiamo una statua di madonna con braccia conserte, e una croce in legno legata a un albero. Più che un luogo sacro esso appare satanico, di quelli creati da strane sette che si dedicano a messe losche e occulte. La situazione e il sito non ci piace per nulla, pare un tentativo di neopaganesimo misto all’ignoranza tipica del basso volgo.  Continuando il cammino, e nel bosco riacquistiamo la serenità. La temperatura corporea sale, ci mettiamo in maniche corte e proseguiamo, sino a raggiungere la località di Gilia, in parte ricostruita con moderne abitazioni (quota 555 m.).

Presso una fontanella osserviamo le laboriose api all’opera, dopo di che, seguendo una vecchia mulattiera siamo a ridosso dei remoti ruderi della frazione. Il sito ci appare come un mondo fantastico da esplorare, ed è quello che facciamo. La vegetazione selvatica si amalgama con le arcaiche pietre, e pare più per tenerle unite che per violarle, dando agli stessi ruderi un aspetto fatato. Tutto quello che vediamo e pestiamo sa di un vissuto che non vuol trapassare. Ammiro una finestra che ha smarrito le pareti, le cerniere di porte e le ante erose dal tempo che stoicamente persistono al mesto destino. Nel borgo, una volta la vita brulicava ed era scandita dal sorgere e del sole e dallo scorrere delle stagioni. Uomini e animali domestici sopravvivevano alle difficili prove dell’esistenza. Osservo i ruderi come si ammira un monumento, un’opera che pochi possono intuire, ma nessuno più comprendere. Quell’antica fatica non era un lavoro che nobilitava l’uomo, anzi, spesso lo rendeva servo e bruto come una bestia. Lasciare le vestigie è triste, ma dobbiamo proseguire, in questo luogo abbiamo percepito la calda presenza umana, e ora ci par di essere soli in un gelido ricordo. Continuiamo per la mulattiera e dopo un lungo traverso tra i noccioli, sbuchiamo sui ripidi e aurei prati del versante sud – occidentale del monte Valinis.

La Forchia di Meduno è ben visibile dall’alto, il lungo traverso su cui camminiamo cinge il versante con la dolce e ripida salita, così soave che permette di incedere con brio. Ammiriamo a occidente la cresta del monte Chiarandeit, appena percorsa una settimana prima.  Un manto fiorito di sassifraga ci rallegra e conduce a un primo bivio, stiamo percorrendo il sentiero degli alpini, appena restaurato dai soldati dell’Ottavo Reggimento degli Alpini. Delle chiare tabelle esplicative sono affisse agli alberi, esse sono una chiara direttrice. Dopo il sentiero si fa più erto, ma siamo così carichi ed entusiasti che nulla ci ferma. Ammiriamo e abbracciamo un enorme faggio e proseguiamo per la meta seguendo la comoda mulattiera. La cresta si fa sempre più vicina, entriamo nel bosco di faggi per poi uscire presso gli aurei prati sommitali. I morbidi colli sono un bel vedere, seguiamo sempre la traccia accompagnata dai segni bianco-rossi del CAI, finché raggiungiamo definitivamente la cresta. Il percorso è più comodo ed esce allo scoperto lasciando alle spalle le tormentate fronde della vegetazione di cresta. Solchiamo una traccia che pare poco più bruna dei prati, fa tanto freddo, soffia una gelida tramontana, ci copriamo frettolosamente prima di dare l’assalto finale alla vetta.

Pochi metri prima di un solitario tabernacolo, intuisco che sono in prossimità della meta e di istinto, come è mio solito fare, mi fermo, per sistemarmi e darmi un aspetto presentabile, come se andassi a un primo appuntamento con una fanciulla. Questo mio agire è diventato un’abitudine, ma oggi lo ha notato Giovanna osservandomi dal basso, e me lo ha successivamente riferito. Il fare galante non mi dispiace, ho sempre pensato alla montagna come a una gran signora e va trattata con rispetto e amore.  Mi avvicino alla croce, aspetto la mia compagna, e dopo, zaini a terra, festeggiamo con un batti cinque la raggiunta meta (quota 1102 m.).

Siamo stati anche bravi, mi complimento con la mia compagna. Durante l’ascesa non ci siamo fermati nemmeno una volta, questo denota che abbiamo un buon allenamento e affiatamento. In cima effettuiamo, secondo la nostra consuetudine la foto di vetta, istalliamo un barattolino con libricino alla base della croce in metallo, e ci godiamo, per quanto possibile il panorama. Continua a fare freddo, facciamo movimento per scaldarci. Per terra notiamo una mascherina chirurgica e una busta di plastica, gettate proprio sotto la croce, gesto incivile di chi, secondo me, consuma anche l’ossigeno in modo abusivo. Queste situazioni mi irritano notevolmente, certo non comporta uno sforzo sovraumano portarsi indietro e nelle proprie abitazioni le scorie prodotte, ma è risaputo che la madre degli incivili è sempre incinta e compie parti plurigemellari.

Ripresi gli zaini, si procede velocemente a oriente, scendendo dal ripido crinale che ci conduce alla piazzola da dove si lanciano gli appassionati di parapendio, e successivamente si punta dritti all’ospitale casera Valinis (quota 967 m.).

Il ricovero, ben strutturato e in eccellenti condizioni è costruito dentro una conca riparata dai venti e vegliato da un grande abete e uno sparuto pino silvestre. Accediamo al locale, breve visita, tutto è in ordine, la brace della stufa emana ancora calore, sicuramente qualcuno ha fatto una visita prima di noi. Apro le ante per poi richiuderle, fuori dalla struttura si sta bene, visto che il sole ha fatto capolino dalle nuvole e scalda l’ambiente. Zaini a terra, finalmente pranziamo, siamo stati davvero bravi, un’unica tirata e non avvertiamo nessuna fatica. Il tempo dedicato all’operazione ludica passa velocemente, le nubi iniziano ad avere tinte bigie e fa freddo, è meglio apprestare il rientro. Proprio dalla casera, ritornando indietro di una decina di metri, diparte il sentiero CAI numerato 819 che scende a valle, da più di un decennio non lo percorrevo. Non nascondo che non ricordando più il tragitto mi emoziono a percorrere questa meravigliosa mulattiera, a volte aerea e dominatrice del versante meridionale del monte Valinis. Sarà perché siamo in discesa, o perché abbiamo da poco pranzato, ma siamo carichi di energia, fatto sta che procediamo spediti, malgrado noi di nostro siamo molto flemmatici nell’andamento. Nella parte inferiore del tragitto, proseguiamo all’interno di un boschetto che precede il borgo di Sottomonte, esso è selvaggio quanto basta per deliziarci.

I rumori della civiltà presto ci raggiungono, e l’edilizia della periferia del borgo filtra tra i rami dell’ultima vegetazione. Siamo fuori dalla selva, davanti a noi la chiesa di San Giovanni Bosco, edificio sacro non remoto, dal caratteristico campanile in cemento armato, l’insieme non risulta alquanto bello. Piuttosto veniamo attratti da un‘altra costruzione, una latteria, posta oltre la strada, Latteria Turnaria Sottomonte (quota 300 m. circa). La tradizione delle latterie turnarie era un tempo diffusa in tutto il Friuli; dal 1880, anno in cui viene istituzionalizzato il sistema delle latterie con la prima latteria a Collina di Forni Avoltri, ne sono nate a decine su tutto il territorio friulano. Era un modo di gestione tipo cooperativa del latte economico e facile, adatto alla produzione casearia di piccola scala tipica del territorio friulano, con numerosi allevatori sparsi in ogni borgata. Una tradizione che purtroppo, specie dopo il terremoto del 1976, è scomparsa nel territorio regionale. Riprendiamo il cammino, e dopo un paio di saliscendi siamo alla prima latteria incontrata in mattinata, quella da dove siamo partiti. Se non ci fosse stata l’esigenza coronavirus avremmo finito qui l’escursione, ma oggi proseguiamo a ritroso sino a Solimbergo, dove nella piazza ci attende il nostro automezzo. In poco meno di un’ora raggiungiamo la piccola frazione, soddisfatti di aver effettuato ben 22 chilometri di percorso e 800 metri di dislivello. Carichi di energia positiva, ritorniamo a casa, con un’altra cima conquistata e un’altra storia da raccontare.

Il Forestiero Nomade.

Malfa.

 

 

 

























































































 

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