Monte
Valinis da Solimbergo (PN)
Note
tecniche.
Localizzazione: Prealpi Carniche Sottogruppo
Valcalda-Verzegnis- Ciaurlec.
Avvicinamento: Lestans-Solimbergo, spiazzo
davanti la chiesa del Paese 230 metri di quota- Per chi volesse effettuare
l’escursione in tempo di libera circolazione, ampi parcheggi posti nelle
località Costa e Sottomonte di Meduno (300 m. quota).
Regione:
Friuli-Venezia Giulia
Provincia
di: Pordenone
.
Dislivello:
800 m.
Dislivello
complessivo: 800 m
Distanza percorsa in Km: 22 km
Quota minima partenza: 230 m.
Quota
massima raggiunta: 1102 m.
Tempi
di percorrenza escluse le soste: 7 ore
In:
Coppia
Tipologia
Escursione: naturalistica-paesaggistica
Difficoltà:
escursionistica
Ferrata- valutazione
difficoltà:
Segnavia:
CAI 819- Sentiero degli Alpini con segni bianco-rossi- locale- bolli rossi e
blu
Fonti
d’acqua: si
Impegno
fisico: medio-alto
Preparazione
tecnica: media
Attrezzature:
no
Croce di vetta: si
Ometto di vetta: no
Libro di vetta: si,
istallato barattolino Nutella in vetro.
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli – Tabacco 028
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: tutto l’anno.
3)
4)
Da
evitare da farsi in:
Condizioni del
sentiero: Ben segnato e marcato
Consigliati:
Data: 13 marzo 2021
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Il monte
Valinis è la meta di quest’ultima escursione, all’insegna del rispetto delle
regole e alla ricerca della libertà. Fare coincidere il diavolo con l’acqua
santa non è facile, ma ci proviamo. Come regola abbiamo il limite comunale per
spostarci con l’automezzo, e come libertà abbiamo davanti a noi lo splendido
scenario delle Prealpi carniche del pordenonese, quindi, la soluzione logica è
lasciare l’auto a Solimbergo, graziosa frazione all’interno del comune dove
risiediamo, e proseguire, con zaini in spalle per la nostra meta. Detto, fatto!
La
giornata utile per l’escursione prevede bello di mattina e nuvolo con rischio
temporali il pomeriggio, quindi, ci affrettiamo (Giovanna e io) in direzione della
località di partenza, e una volta raggiunta (lasciamo l’auto nella piazza del
paese antistante la chiesa, quota 230 m.), e più veloci della luce, ci avviamo tramite
la strada comunale per la località Sottomonte di Meduno. Percorriamo i sei
chilometri di pianura, mirando all’orizzonte la nostra meta, che ben si distingue
dal corpo dove è inglobata, ossia il massiccio del Ciaurlec.
Una volta
raggiunta la frazione di Sottomonte, mappa alla mano, ho i propositi di
compiere un percorso ad anello, includendo il sentiero degli alpini, che dalla
Forchia di Meduno porta in vetta al Monte Valinis.
In meno di
un’ora siamo alla frazione, percorriamo la stradina in salita sino a incrociare
quella proveniente da Toppo, e una volta virato a destra, scorgiamo un edificio
edificato con mattoni rossi, con la scritta “Latteria Turnaria”. Presso l’edificio notiamo un cartello (legato
con fil di ferro a un tronco di tiglio) simile a quelli del CAI, con su scritte
a mano delle indicazioni, tra cui quella per la Forchia di Meduno. Ci siamo,
questo sarà il punto di partenza per l’anello (quota 300 m.). Non sono mai asceso
da questo sentiero, e la cosa mi eccita. Dopo i primi due passi ci viene
incontro un tipo assai strano, dall’aria stralunata e con una smorfia dura. Lo
stesso, farfugliando tra la lingua madre e un friulano incomprensibile, ci
chiede di lasciare obbligatoriamente un obolo presso un tavolino che troveremo
lungo il sentiero. Confesso, che a tale richiesta rimaniamo basiti e
commentiamo in modo poco lusinghiero l’episodio.
Il
sentiero che iniziamo a percorrere dalla periferia del paese ci ammalia sin da
subito, nel primo tratto fiancheggiamo un rivolo, e successivamente, una volta
superato il noto tavolino posto a reclamare le offerte, iniziamo a percorrere
una bella mulattiera che si mantiene sulla sinistra orografica del torrente che
scende dal monte.
Ammiriamo le prime fioriture di primule e di erba
trinità, che con il loro colori, giallo di Napoli e lilla, rallegrano il nostro
cammino. Superato un bel ponticello, continuiamo all’interno del bosco,
scorgendo dal basso il tempietto di San Martino in Castello. Lungo la
mulattiera incrociamo delle singolari e piccole ancone adibite a incanalare
l’acqua, e presso una di questa qualcuno ha ideato un improvabile mini-santuario
kitsch, che mal si combina con l’austerità
del luogo.
Da una piccola cappella notiamo una statua di madonna
con braccia conserte, e una croce in legno legata a un albero. Più che un luogo
sacro esso appare satanico, di quelli creati da strane sette che si dedicano a
messe losche e occulte. La situazione e il sito non ci piace per nulla, pare un
tentativo di neopaganesimo misto all’ignoranza tipica del basso volgo. Continuando il cammino, e nel bosco riacquistiamo
la serenità. La temperatura corporea sale, ci mettiamo in maniche corte e
proseguiamo, sino a raggiungere la località di Gilia, in parte ricostruita con
moderne abitazioni (quota 555 m.).
Presso una
fontanella osserviamo le laboriose api all’opera, dopo di che, seguendo una
vecchia mulattiera siamo a ridosso dei remoti ruderi della frazione. Il sito ci
appare come un mondo fantastico da esplorare, ed è quello che facciamo. La
vegetazione selvatica si amalgama con le arcaiche pietre, e pare più per
tenerle unite che per violarle, dando agli stessi ruderi un aspetto fatato.
Tutto quello che vediamo e pestiamo sa di un vissuto che non vuol trapassare. Ammiro
una finestra che ha smarrito le pareti, le cerniere di porte e le ante erose
dal tempo che stoicamente persistono al mesto destino. Nel borgo, una volta la
vita brulicava ed era scandita dal sorgere e del sole e dallo scorrere delle
stagioni. Uomini e animali domestici sopravvivevano alle difficili prove dell’esistenza.
Osservo i ruderi come si ammira un monumento, un’opera che pochi possono
intuire, ma nessuno più comprendere. Quell’antica fatica non era un lavoro che
nobilitava l’uomo, anzi, spesso lo rendeva servo e bruto come una bestia. Lasciare
le vestigie è triste, ma dobbiamo proseguire, in questo luogo abbiamo percepito
la calda presenza umana, e ora ci par di essere soli in un gelido ricordo. Continuiamo
per la mulattiera e dopo un lungo traverso tra i noccioli, sbuchiamo sui ripidi
e aurei prati del versante sud – occidentale del monte Valinis.
La Forchia
di Meduno è ben visibile dall’alto, il lungo traverso su cui camminiamo cinge
il versante con la dolce e ripida salita, così soave che permette di incedere con
brio. Ammiriamo a occidente la cresta del monte Chiarandeit, appena percorsa
una settimana prima. Un manto fiorito di
sassifraga ci rallegra e conduce a un primo bivio, stiamo percorrendo il
sentiero degli alpini, appena restaurato dai soldati dell’Ottavo Reggimento
degli Alpini. Delle chiare tabelle esplicative sono affisse agli alberi, esse
sono una chiara direttrice. Dopo il sentiero si fa più erto, ma siamo così carichi
ed entusiasti che nulla ci ferma. Ammiriamo e abbracciamo un enorme faggio e
proseguiamo per la meta seguendo la comoda mulattiera. La cresta si fa sempre
più vicina, entriamo nel bosco di faggi per poi uscire presso gli aurei prati
sommitali. I morbidi colli sono un bel vedere, seguiamo sempre la traccia
accompagnata dai segni bianco-rossi del CAI, finché raggiungiamo definitivamente
la cresta. Il percorso è più comodo ed esce allo scoperto lasciando alle spalle
le tormentate fronde della vegetazione di cresta. Solchiamo una traccia che
pare poco più bruna dei prati, fa tanto freddo, soffia una gelida tramontana,
ci copriamo frettolosamente prima di dare l’assalto finale alla vetta.
Pochi
metri prima di un solitario tabernacolo, intuisco che sono in prossimità della
meta e di istinto, come è mio solito fare, mi fermo, per sistemarmi e darmi un
aspetto presentabile, come se andassi a un primo appuntamento con una
fanciulla. Questo mio agire è diventato un’abitudine, ma oggi lo ha notato
Giovanna osservandomi dal basso, e me lo ha successivamente riferito. Il fare
galante non mi dispiace, ho sempre pensato alla montagna come a una gran
signora e va trattata con rispetto e amore. Mi avvicino alla croce, aspetto la mia
compagna, e dopo, zaini a terra, festeggiamo con un batti cinque la raggiunta
meta (quota 1102 m.).
Siamo
stati anche bravi, mi complimento con la mia compagna. Durante l’ascesa non ci
siamo fermati nemmeno una volta, questo denota che abbiamo un buon allenamento
e affiatamento. In cima effettuiamo, secondo la nostra consuetudine la foto di
vetta, istalliamo un barattolino con libricino alla base della croce in metallo,
e ci godiamo, per quanto possibile il panorama. Continua a fare freddo,
facciamo movimento per scaldarci. Per terra notiamo una mascherina chirurgica e
una busta di plastica, gettate proprio sotto la croce, gesto incivile di chi,
secondo me, consuma anche l’ossigeno in modo abusivo. Queste situazioni mi
irritano notevolmente, certo non comporta uno sforzo sovraumano portarsi
indietro e nelle proprie abitazioni le scorie prodotte, ma è risaputo che la
madre degli incivili è sempre incinta e compie parti plurigemellari.
Ripresi
gli zaini, si procede velocemente a oriente, scendendo dal ripido crinale che
ci conduce alla piazzola da dove si lanciano gli appassionati di parapendio, e
successivamente si punta dritti all’ospitale casera Valinis (quota 967 m.).
Il
ricovero, ben strutturato e in eccellenti condizioni è costruito dentro una
conca riparata dai venti e vegliato da un grande abete e uno sparuto pino
silvestre. Accediamo al locale, breve visita, tutto è in ordine, la brace della
stufa emana ancora calore, sicuramente qualcuno ha fatto una visita prima di
noi. Apro le ante per poi richiuderle, fuori dalla struttura si sta bene, visto
che il sole ha fatto capolino dalle nuvole e scalda l’ambiente. Zaini a terra,
finalmente pranziamo, siamo stati davvero bravi, un’unica tirata e non
avvertiamo nessuna fatica. Il tempo dedicato all’operazione ludica passa
velocemente, le nubi iniziano ad avere tinte bigie e fa freddo, è meglio
apprestare il rientro. Proprio dalla casera, ritornando indietro di una decina
di metri, diparte il sentiero CAI numerato 819 che scende a valle, da più di un
decennio non lo percorrevo. Non nascondo che non ricordando più il tragitto mi
emoziono a percorrere questa meravigliosa mulattiera, a volte aerea e
dominatrice del versante meridionale del monte Valinis. Sarà perché siamo in
discesa, o perché abbiamo da poco pranzato, ma siamo carichi di energia, fatto
sta che procediamo spediti, malgrado noi di nostro siamo molto flemmatici
nell’andamento. Nella parte inferiore del tragitto, proseguiamo all’interno di
un boschetto che precede il borgo di Sottomonte, esso è selvaggio quanto basta
per deliziarci.
I rumori
della civiltà presto ci raggiungono, e l’edilizia della periferia del borgo
filtra tra i rami dell’ultima vegetazione. Siamo fuori dalla selva, davanti a
noi la chiesa di San Giovanni Bosco, edificio
sacro non remoto, dal caratteristico campanile in cemento armato, l’insieme non
risulta alquanto bello. Piuttosto veniamo attratti da un‘altra costruzione, una
latteria, posta oltre la strada, Latteria Turnaria Sottomonte (quota 300 m.
circa). La
tradizione delle latterie turnarie era un tempo diffusa in tutto il Friuli; dal
1880, anno in cui viene istituzionalizzato il sistema delle latterie con la
prima latteria a Collina di Forni Avoltri, ne sono nate a decine su tutto il
territorio friulano. Era un modo di gestione tipo cooperativa del latte
economico e facile, adatto alla produzione casearia di piccola scala tipica del
territorio friulano, con numerosi allevatori sparsi in ogni borgata. Una
tradizione che purtroppo, specie dopo il terremoto del 1976, è scomparsa nel
territorio regionale. Riprendiamo il cammino, e dopo un paio di saliscendi
siamo alla prima latteria incontrata in mattinata, quella da dove siamo
partiti. Se non ci fosse stata l’esigenza coronavirus avremmo finito qui l’escursione,
ma oggi proseguiamo a ritroso sino a Solimbergo, dove nella piazza ci attende
il nostro automezzo. In poco meno di un’ora raggiungiamo la piccola frazione,
soddisfatti di aver effettuato ben 22 chilometri di percorso e 800 metri di
dislivello. Carichi di energia positiva, ritorniamo a casa, con un’altra cima
conquistata e un’altra storia da raccontare.
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
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